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Cinema

We Are in the Money. Studio system e modelli di business

Non è la prima volta che Hollywood affronta una rivoluzione. La transizione al digitale, che moltiplica gli schermi e ridefinisce gli ambiti di azione, è solo l’ultimo passo.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 22 - Mediamorfosi 2. Industrie e immaginari dell'audiovisivo digitale del 11 dicembre 2017

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Nei primi anni Dieci del Novecento, il mercato americano era dominato dalla Motion Picture Patents Company (Mppc): un vero e proprio cartello di imprese che sfruttava la posizione di forza per spremere ben bene gli esercenti e per espellere dalla competizione i concorrenti. Così facendo, giunse a controllare da due terzi a tre quarti (a seconda delle fonti) dell’intero mercato americano. Alcune compagnie, tuttavia, provarono a resistere allo strapotere del trust. I nomi di molte di queste – come Mutual, Selig, Famous Players in Famous Plays – non ci dicono più nulla, oggi; ma il nome di altre ci è invece familiare: la Imp/Universal, la Fox Pictures. Queste compagnie, un po’ alla volta, spostarono le loro attività produttive sulla West Coast, per sfuggire ai controlli del trust, e iniziarono a investire nel nuovo formato del lungometraggio, riscuotendo un notevole successo. Ebbe così inizio il mito di Hollywood.

Nei Late Teens e negli anni Venti ebbe luogo un processo di consolidamento che portò alla nascita di grandi gruppi integrati. Alcuni di essi avevano radici nella produzione/distribuzione, come Paramount, che derivava dalla fusione delle compagnie di Adolph Zukor e Jesse Lasky, più un distributore e un grande circuito di sale; e Warner Bros. che, grazie all’azzeccata scommessa sul parlato, da piccola realtà produttiva divenne un grande gruppo a filiera completa. Altri invece derivavano da nuclei di esercizio, come First National, nato dall’unione di importanti circuiti regionali di sale; Mgm – Metro Goldwyn Mayer, che il potente esercente Marcus Loew costituì acquisendo società di produzione e fondendole con il suo circuito; e Rko, Radio Keith Orpheum, fondata da Rca (Radio Corporation of America), Keith Orpheum Theatres, uno dei maggiori circuiti di cinema e vaudeville, e il distributore Fbo. Verso la fine degli anni Venti erano dunque già identificabili le “Big Eight”: cinque major pienamente integrate (Warner, Fox, Paramount, Mmg, Rko) e tre realtà di sola produzione e distribuzione, dette per questo minor (Universal, Columbia United Artists).

Tra il 1927 e il 1929, dunque in soli due anni, l’industria si convertì completamente al cinema sonoro, affrontando in un sol colpo gli ingenti investimenti tecnici, la ridefinizione dei processi di produzione e distribuzione, il ricambio dello star system, la difficoltà di esportazione nei territori esteri (il doppiaggio ancora non c’era!). All’apice di questo impegno, sul mondo (e su Hollywood) si abbatté la grande crisi economica, inaugurata dal crack del 1929. L’industria cinematografica, come ogni altra industria, ne fu scossa: il mercato si contrasse sensibilmente; e le imprese, fortemente indebitate per via degli investimenti fatti sul parlato e sulla costruzione di grandi “palazzi del cinema”, entrarono in una profonda quanto repentina recessione. Dal 1933 quasi tutti gli Studios andarono in amministrazione controllata, ricadendo sotto il diretto controllo della finanza newyorkese (specialmente di Morgan jr. e Rockefeller). Zukor, Fox e Laemmle, tre dei più grandi mogul di Hollywood, persero il controllo delle rispettive compagnie: Paramount, Fox e Universal.

Con l’uscita di scena di questi grandi protagonisti delle origini, si chiude l’era imprenditoriale e avventurosa e si apre quella delle banche – che diventano protagoniste dirette nell’azionariato delle imprese – e dei “manager” che presero a esprimere. Anche le imprese che restarono familiari dovettero adeguarsi al nuovo paradigma: Loew’s-Mgm lo aveva già fatto, alla morte del fondatore Marcus Loew; Warner e Columbia, che pure rimasero gestite da fratelli, cambiarono comunque modus operandi. Per tutti, la nuova fase fu caratterizzata dalla standardizzazione dei processi e dalla messa a punto di sinergie tra produzione, distribuzione ed esercizio. La gestione congiunta di questi tre aspetti costituì il cuore del modello integrato classico, che durò fino alla fine degli anni Quaranta.

La produzione

Se ancora fino al primo dopoguerra la produzione ruotava attorno alla figura del regista factotum (come Chaplin, Griffith o DeMille), nei primi anni Venti si incoraggiò la parcellizzazione dei compiti, per aumentare l’efficienza dei processi. I princìpi tipici della fabbrica fordista vennero così trasposti nel mondo degli Studios. Emerse così la figura del central producer: il capo della produzione dell’intero Studio, unico responsabile di tutti i progetti, coadiuvato da più produttori esecutivi (una figura ben incarnata da Irving Thalberg alla Mgm o da Derryl Zanuck alla Warner). Poi, negli anni Trenta, anche in risposta alla crisi economica, si affermò il ruolo del capo-struttura o unit producer, responsabile ultimo di una “linea di prodotto” (celebre fu Arthur Freed, a capo dei musical della Mgm). Grazie all’elevato volume produttivo (40-60 film anno per ciascuna major, un po’ meno per le minor), gli Studios generavano significative economie di scala, difficilmente replicabili in altri Paesi. Gli stabilimenti produttivi viaggiavano a ciclo completo, saturati da un’attività rigorosamente pianificata. E l’ampiezza della line-up di ciascuno Studio, con la sua diversificazione interna (per caratura dei progetti, per genere), consentiva l’adozione di una strategia manageriale di portafoglio e cioè l’allocazione mirata delle risorse su linee di investimento diverse, attentamente bilanciate in modo da massimizzare le opportunità di profitto e minimizzare i rischi. Il portafoglio annuale di una major negli anni d’oro solitamente prevedeva:

— 6-7 titoli ad alto budget che, pur avendo alte aspettative di incasso, comportavano un elevato rischio economico. 
Su questi titoli era fatto il maggior sforzo di promozione;

— 10-15 di film di medio budget, appartenenti a generi diversi (anche se ogni Studio aveva una sua inclinazione verso tipologie particolari);

— una considerevole quantità (25-35) di titoli a basso costo, realizzati in batteria, obbedendo a formule consolidate, commercializzati in abbinata ai titoli più importanti e a prezzo fisso. Lo sbocco assicurato, in un mercato con forte domanda, consentiva a questi titoli una buona performance al botteghino che si traduceva in un’ottima redditività, indispensabile per bilanciare gli inevitabili flop.

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La distribuzione

La distribuzione comprende tutte le attività logistiche, commerciali e di marketing finalizzate alla più efficace circolazione del prodotto. Nel modello classico, gli elevati volumi produttivi e la dimensione globale del mercato di sfruttamento garantivano agli Studios una consistente massa critica, che consentiva loro di realizzare importanti economie di scala anche nella logistica distributiva; e di godere di un considerevole potere verso gli esercenti, che si traduceva nell’adozione di pratiche commerciali ai limiti della legge come il block-booking e il blind-bidding (rispettivamente, l’imposizione di noleggiare intere porzioni del listino, se non addirittura l’intera line-up, e di farlo a scatola chiusa, cioè senza vedere la pellicola). Aprire filiali dirette, con personale dipendente, era una soluzione più costosa del contratto con agenti a provvigione; ma gli Studios la preferirono perché dava maggiori garanzie in merito al controllo dei processi distributivi e all’adozione di marketing policy decise centralmente. Forti poi di un mercato domestico florido, nel quale i prodotti venivano già ammortizzati, essi iniziarono già dopo la prima guerra mondiale a invadere gli altri mercati, giovandosi dell’appoggio diplomatico di Washington, che considerava i film dei formidabili ambasciatori dei valori e dello stile di vita americani.

Tra il 1927 e il 1929, dunque in soli due anni, l’industria si convertì completamente al cinema sonoro, affrontando in un sol colpo gli ingenti investimenti tecnici, la ridefinizione dei processi di produzione e distribuzione, il ricambio dello star system, la difficoltà di esportazione nei territori esteri (il doppiaggio ancora non c’era!).

L’esercizio

L’industria americana del periodo classico fondava sull’esercizio buona parte del suo equilibrio economico: i cinema infatti generavano quasi i due terzi del fatturato delle major integrate; e producevano cassa, contribuendo a compensare lo squilibrio finanziario che deriva dal fatto di sostenere i costi di realizzazione e di lancio con molto anticipo rispetto al completamento del flusso di ricavi. In aggiunta, siccome nelle sale venivano proiettati i film di tutti gli Studios, la presenza nell’esercizio consentiva alle major di beneficiare, in modo incrociato, dei successi di tutti, di fatto assicurando un’efficace politica di risk-sharing. In ultimo, controllare le sale garantiva uno sbocco certo ai propri prodotti, facilitando così i rapporti negoziali con i gruppi creativi e le star. La centralità dell’esercizio nel modello classico era tanto pronunciata che quando le major dovettero uscire dall’esercizio, a seguito della sentenza antitrust sul caso Paramount, il loro assetto patrimoniale e le loro logiche di business cambiarono radicalmente. Di lì in poi, non per nulla, si parla di era post-classica.

Quello integrato, per quanto predominante, non è stato l’unico modello dell’età classica. Le minor, come United Artists, Universal e Columbia, adottavano un modello di integrazione parziale (solo produzione e distribuzione); mentre altre realtà più piccole si specializzarono nella sola produzione: di B-movie e serial (come fecero Monogram, Republic), o anche di grandi film visionari, come fecero David O. Selznick con Via col vento e Walt Disney con Biancaneve, affidati poi in distribuzione a terzi. Il comparto della produzione indipendente fu assai prolifico, anche se la sua rilevanza in termini ponderati/economici non era paragonabile a quella delle Big Eight. Due vantaggi strategici garantivano comunque la competitività: gli indipendenti non dovevano sottostare alle procedure e agli standard di valutazione degli Studios (non a caso le grandi e rischiosissime produzioni, come Via col vento, nacquero perlopiù in ambiente indipendente); e non avevano l’obbligo di sottostare al Production Code e dunque si potevano permettere di affrontare temi più controversi, e commercialmente promettenti, che rimasero preclusi agli Studios per molti anni.

La crisi del modello integrato e l’arrivo della televisione

Nel decennio compreso tra la fine degli anni Quaranta e la fine degli anni Cinquanta, una serie diversificata di fenomeni rese il business cinematografico molto meno stabile.

1. La drastica riduzione dei ricavi theatrical. Dopo la guerra, gli americani presero ad andare meno al cinema. Il trend fece segnare una lunga picchiata che si arrestò solo a metà degli anni Sessanta: dal picco di 4,4 miliardi di biglietti del 1947 si sprofondò a meno di 1 miliardo nel 1964. Il fenomeno fu inizialmente dovuto al mutamento dello stile di vita di una larga fetta della popolazione impiegatizia bianca, che migrò dalle città ai quartieri residenziali periferici, i suburb, e al fenomeno parallelo del baby-boom. E poi venne accelerato dall’arrivo della tv e dunque dalla crescente disponibilità di prodotti di intrattenimento domestico (anche film), che conquistarono soprattutto le fasce più adulte e familiari della popolazione, distogliendole ulteriormente dall’andare al cinema. Ovviamente, la violenta contrazione del mercato ebbe un impatto drammatico sui profitti degli Studios.

2. La rinuncia forzata ai ricavi dell’esercizio. A seguito dell’Antitrust Paramount Ruling del 1948, le major furono obbligate a dis-integrarsi, vendendo le sale di proprietà. Senza le sale, che costituivano il 90% delle loro immobilizzazioni, esse persero la gran parte dell’attivo patrimoniale, indebolendo moltissimo la propria solidità finanziaria e la capacità di ricorrere al credito.

3. La difficoltà di difendere i film medio/piccoli. Il divieto, ribadito più volte dalle autorità antitrust negli anni Quaranta, di praticare il block-booking e cioè la vendita a pacchetto, comportò la progressiva dismissione del prodotto a basso budget, i B-movie e i serial, con un considerevole impatto sui volumi realizzativi e sulle economie di scala. Di conseguenza, la produzione si concentrò su un numero più ridotto di titoli, in grado di esercitare un forte richiamo.

4. La tendenza dei talenti maggiori (specie registi e attori) ad affrancarsi dalle vincolanti esclusive con le major, per partecipare in modo decisamente più cospicuo alle fortune dei propri film. I talenti principali presero coscienza che le nuove formule produttive e distributive, più selettive ed event-driven, avrebbero dato ancora più rilievo al loro contributo; e che dunque la loro forza negoziale sarebbe aumentata. Anche per approfittare dei maggiori vantaggi fiscali che il capital gain garantiva rispetto ai compensi artistici, le star principali fondarono case di produzione, relegando progressivamente gli Studios al ruolo di finanziatori e distributori delle loro pellicole. In tutto ciò furono fondamentali il nuovo ruolo e il potere crescente delle talent agency, abilissime nel montare package deal a vantaggio dei propri assistiti.

5. L’esplosione del mercato di filmed entertainment per la tv. I primi prodotti in pellicola pensati per la tv vennero inizialmente realizzati dalle factory di B-movie e da decine di produttori indipendenti, giacché gli Studios da una parte snobbavano questa linea d’attività e dall’altra la evitavano scientemente, per non dare prodotto di qualità alla tv, giudicata un pericoloso concorrente. Va detto che la sentenza antitrust del 1948 si era premurata di impedire alle case hollywoodiane un ingresso diretto nel settore televisivo. Non stupisce, dunque, che nei primi anni Cinquanta gli Studios abbiano fatto di tutto per ostacolare il nuovo mezzo. Già nel 1951 ci furono la prima daytime soap, Search for Tomorrow, e la prima sitcom, I Love Lucy. I volumi realizzati si rivelarono ben presto sorprendenti. È vero che il valore di questa produzione era assai inferiore, ma comunque le cifre in gioco erano molto rilevanti, e questo cambiò tutti gli equilibri. Si pensi che i produttori attivi in questo settore, a metà degli anni Cinquanta, erano più di 170; e che due di questi soggetti indipendenti, la Desilu e la Revue, crebbero al punto di comprarsi, la prima, gli stabilimenti della Rko, e la seconda, quelli della Universal! Quando gli Studios cinematografici capirono cosa stava succedendo, si buttarono senza più riserve nella produzione tv, riorganizzando il proprio portafoglio e formando o acquisendo società dedicate. I network televisivi incoraggiarono questo processo, per avere prodotti di maggior pregio che spingessero l’acquisto di televisori.

6. Le nuove opportunità commerciali portate dalla tv. In poco tempo la televisione diventò un cliente prezioso, non solo come committente di filmed entertainment originale, ma anche come acquirente di diritti di vecchi film, oramai sfruttati quasi completamente in sala, che trovarono così una nuova vita. Iniziarono gli Studios più piccoli, come Monogram e Republic, che già nei primi anni Cinquanta misero a disposizione delle tv centinaia di titoli western e di fantascienza. Poi arrivarono le major: in dieci anni, tra il 1955, data della prima grande vendita dei diritti Rko alle tv, al 1965, anno in cui tutti e tre i network – Abc, Nbc e Cbs – presentavano una serata dedicata al cinema, i film diventarono un ingrediente fondamentale dell’offerta televisiva. E la vendita dei relativi diritti divenne una linea di business sempre più importante.

Dunque, le modifiche del contesto socio-culturale (clima simbolico, assetti demografici e stili di vita nuovi), il cambio del quadro regolamentare (obbligo di rinunciare alle sale) e il mutamento dello scenario competitivo (con l’arrivo della tv e nuovi produttori) provocarono una serie di discontinuità decisive: la drastica riduzione dei ricavi da botteghino, la crescita dei costi di produzione e distribuzione (in un mercato non più di massa, diventava cruciale la capacità del singolo titolo di richiamare gli spettatori al cinema); e uno spostamento delle marginalità verso il filmed 
entertainment televisivo e la vendita dei diritti dell’archivio. A fronte di questo rivolgimento, gli Studios cambiarono pelle.

In una prima fase, negli anni Cinquanta, le aziende vissero una crisi dei propri assetti proprietari e manageriali. Columbia e Warner persero la loro natura familiare: Columbia perché tra il 1956 e il 1958 morirono i fratelli Cohn che l’avevano fondata e gestita; Warner perché nel 1956 due dei tre fratelli rimasti, Harry e Abe, vendettero le loro quote a una cordata di investitori (il solo Jack resterà fino al 1967). Di contro, alla Loew’s-Mgm, dopo oltre trent’anni tornò al posto di comando un esponente della famiglia azionista: Arthur Loew, che nel 1955 subentrò a Nicholas Schenk. Cambiarono proprietà anche United Artists, quando nel 1951 Mary Pickford e Chaplin cedettero le loro quote maggioritarie; Universal, venduta nel 1952 alla Decca; e poi, dieci anni dopo, nel 1962, alla Mca di Lew Wasserman, che la gestirà per moltissimi anni. Anche Rko cambiò proprietà nel 1948, acquisita da Howard Hughes che però la smantellò: ne vendette prima le sale (1949), poi gli stabilimenti di produzione, e infine la library. Si faceva intanto strada Walt Disney, che proprio in questi anni diventò anche distributore, con Buena Vista (1953), produttore tv (1954) e gestore di parchi divertimenti (1955).

In una seconda fase, iniziata nella seconda metà degli anni Sessanta, alcuni grandi Studios (Paramount, Mgm, Warner, U.A.) vennero assorbiti all’interno di grandi conglomerate multi-business, interessate alla diversificazione degli investimenti e attratte dall’opportunità di rivalutazione delle library, manifestatesi con le prime consistenti vendite televisive. Nel 1966, la Gulf + Western di Charles Bluhdorn, un gruppo con interessi in più settori (materie prime, editoria, industria meccanica) comprò Paramount. Nel 1967, il gigante assicurativo Transamerica acquistò United Artists. Nel 1969, Warner confluì nella Kinney National Services di Steven Ross (società nata dalla fusione di una società di pulizie con una di parcheggi!). Sempre nel 1969, MGM fu acquistata dal finanziere armeno Kirk Kerkorian, che la volle come simbolo del suo nuovo albergo-casinò di Las Vegas. Gli anni che seguirono videro accentuarsi due tendenze nate con l’emergere della tv: la separazione tra il film e la sala cinematografica, e dunque tra “contenuto” e “contenitore”; e poi l’interferenza tra produzione di film e produzione di filmed entertainment per la tv. Lungo questa doppia linea di frattura ebbe origine, a partire dagli anni Settanta, un nuovo quadro competitivo e di offerta in cui il film diventa sempre più un prodotto globale, domestico e multi-device. Inizia l’era del nuovo modello.

La continua evoluzione dell’offerta televisiva ha rappresentato e tuttora rappresenta per gli Studios una ghiotta occasione per vendere e rivendere le proprie library di film. Ovviamente, man mano che il quadro mutava, le finestre di sfruttamento tv si sono adeguate e modificate (accorciandosi, infilandosi una prima dell’altra), ma la sostanza è rimasta la stessa: i film servono alle televisioni, sia pay che free, che sono disposte a pagare molto.

Il nuovo modello dis-integrato e multi-schermo

La produzione si concentra su pochi titoli di grande calibro, perlopiù franchise seriali e globali. Anche nell’età classica si realizzavano prodotti costosi, ma questo avveniva nel contesto di strategie di portafoglio in cui predominava una produzione media; o addirittura fuori dal perimetro degli Studios, a opera di coraggiosi indipendenti. Adesso invece (e, come visto, la tendenza è iniziata negli anni Cinquanta e Sessanta), i film-evento sono il prodotto primario in termini di assorbimento delle risorse di portafoglio.
Ma portafogli composti da meno titoli, sempre più cari (dal 1980 a oggi il costo medio di produzione è cresciuto di quasi dieci volte, quadruplicandosi in termini reali), sono decisamente più rischiosi. Ecco allora che si affermano nuove strategie di risk management. Anzitutto, la drastica riduzione dei progetti originali a vantaggio di film tratti da franchise affermati: marchi di appeal globale, capaci di far leva su community di fan già attive (una piattaforma che rende più efficiente sia la produzione che le strategie di marketing e distribuzione). Poi, la declinazione seriale di questi franchise, con un occhio di riguardo ai mercati internazionali che mostrano di gradire assai più di quello domestico americano i sequel.

Tutto ciò è supportato dalla pratica oramai diffusa del co-financing del film da parte di due o più Studios che si dividono gli investimenti, spartendosi i diritti di sfruttamento in vario modo (theatrical/home video vs. tv; oppure domestic vs. international). Braveheart è stato co-finanziato al 40/60 da Paramount e Fox; Die Hard. Duri a morire al 50/50 da Fox e Disney; Titanic al 50/50 da Fox e Paramount. La ratio dell’operazione è la seguente: “meglio avere 8 mezzi film che 4 film interi, si rischia di meno”. Il co-financing può avvenire anche tra lo Studio e la casa di produzione indipendente che ha “montato” il film: lo Studio, dunque, copre solo una quota del budget, a fronte di una porzione dei diritti di sfruttamento, e lascia all’indipendente la restante quota di rischi/opportunità, oltre all’obbligo di chiudere il finanziamento della pellicola con l’aiuto di distributori esteri (è stato, per esempio, il caso de Il signore degli anelli, che Warner ha co-finanziato con New Line). In parallelo, si allenta il controllo assoluto che gli Studios esercitavano sui fattori di produzione. Le facility produttive non sono più un fattore strategico di successo: gli Studios dunque le noleggiano o le cedono a chi produce per la tv, per sfruttarne l’immobilizzo, o le utilizzano essi stessi per la produzione televisiva. Anche l’ideazione e il packaging dei film sono usciti in gran parte dal perimetro degli Studios, diventando appannaggio di una molteplicità di soggetti indipendenti, afferenti ai talent, che hanno oramai un’ampia autonomia creativa e contrattuale. Allentando il presidio sull’ideazione e la produzione, a monte, e sull’esercizio, a valle, gli Studios si concentrano dunque sul financing e sulla distribuzione (in sala, ma anche home video, tv, online, ecc.).

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La distribuzione in sala, su scala globale, diventa (se possibile) ancora più strategica. Può sembrare paradossale, ma proprio nel momento in cui incide di meno quanto a ricavi generati, la distribuzione in sala diventa più importante che mai in quanto step in cui si costruisce il valore prospettico del film (al punto che il valore delle finestre successive dipende in misura quasi lineare dal risultato di box office). Non si cerca dunque più un equilibrio economico di breve periodo (per cui i ricavi di noleggio devono eccedere la somma di costo di produzione e distribuzione), ma si è disposti a perdere pur di accrescere l’incasso, creando così maggiore valore futuro. Di qui la crescita delle spese di lancio (Print & Advertising, P&A), che nel solo mercato domestico pesano oramai il 50% del costo di produzione; e la pratica della saturation release, sempre più spesso in contemporanea mondiale. Peraltro, gli ultimi anni hanno fatto registrare un recupero dei ricavi in sala, la cui incidenza sul totale dei ricavi netti è salita al 30%, grazie all’apertura di nuovi mercati (prima i paesi dell’ex blocco sovietico, poi la Cina) e complice, va detto, anche la severa contrazione dell’home video. I ricavi netti da esportazione hanno raggiunto stabilmente quelli domestici già a metà degli anni Novanta; e oggi pesano quasi il 60%. Il mercato per i prodotti hollywoodiani è adesso davvero globale.

La distribuzione televisiva dei film (vendita diritti) è ormai una gamba fondamentale del nuovo modello operativo. Dagli anni Sessanta, i network free americani; dai primi anni Settanta, le cable a pagamento; dagli anni Ottanta, le reti tv commerciali e dagli anni Novanta le pay tv di tutto il mondo… La continua evoluzione dell’offerta televisiva ha rappresentato e tuttora rappresenta per gli Studios una ghiotta occasione per vendere e rivendere le proprie library di film. Ovviamente, man mano che il quadro mutava, le finestre di sfruttamento tv si sono adeguate e modificate (accorciandosi, infilandosi una prima dell’altra), ma la sostanza è rimasta la stessa: i film servono alle televisioni, sia pay che free, che sono disposte a pagare molto, al punto che circa un quarto dei ricavi netti globali degli Studios vengono da qui (per alcune fonti, anche di più). In certi mercati, come l’Italia, i ricavi da vendite televisive rappresentano addirittura la prima voce per incidenza.

La conquista dello schermo di casa è completata dall’affermazione dell’home entertainment. L’home video nasce nel 1975, ma è dal 1980 che inizia a crescere a ritmo vertiginoso. A metà decennio i ricavi da noleggio e vendita eguagliano e poi superano quelli da botteghino. Negli anni Novanta la forbice si allarga ancora fino a che, tra il 2004 e il 2007, l’home video arriva a valere due volte e mezzo il theatrical e a pesare per la metà di tutti i ricavi globali! Di lì in poi, però inizia la flessione, che lo porta a pesare oggi non più del 20% del totale: una contrazione dovuta all’ulteriore penetrazione di pay tv e pay-per-view e alla concorrenza di servizi over the top, ma anche all’esplosione della pirateria, facilitata dalla penetrazione di internet e dalla crescente capacità trasmissiva delle reti. Per fortuna, le stesse innovazioni che hanno permesso lo sviluppo di una fiorente industria di distribuzione illegale rappresentano la base dello sviluppo di nuovi business model per Hollywood. Non c’è dubbio, infatti, che la distribuzione e la fruizione di film, serie e ogni sorta di filmed entertainment, saranno sempre più caratterizzati da un approccio selettivo, personale, libero da legami temporali e spaziali. In poche parole, on demand.

Nel nuovo modello hanno un posto di rilievo anche i ricavi ancillari. Si stima che l’incidenza relativa di attività quali la concessione di licenze per prodotti e servizi (licensing), la gestione diretta della vendita di prodotti correlati (merchandising), l’estensione dell’esperienza di visione in contesti ludici, domestici (videogame) o esterni (parchi a tema) o anche attraverso altri prodotti mediali, come libri, dischi, serie tv, serie animate, sia nell’ordine del 6-8% dei ricavi globali di sfruttamento.
A tutto ciò si aggiunge – fuori dalla filiera cinematografica – il business della produzione/distribuzione di filmed entertainment per la televisione. Come dicevamo, già a pochi anni dalla sua introduzione la produzione tv era diventata una componente fondamentale dei ricavi degli Studios. Essa, con i suoi ingenti volumi e il meccanismo del committment (per cui lo Studio, se vince la commessa, lavora con una importante copertura dei costi) dà molte certezze in più di quella cinematografica e contribuisce a una maggiore stabilità del business complessivo.

La messa a punto di questo nuovo, articolato, modello di business – dis-integrato, globale (l’international pesa più del domestic), multi-screen (i consumi e i ricavi legati al piccolo schermo superano largamente quelli del grande schermo) – ha comportato numerosi ulteriori passaggi, in termini di assetti organizzativi e proprietari.
Un primo movimento ha avuto luogo negli anni Ottanta e nella prima metà dei Novanta. Alla base vi furono, per un verso, l’ondata di liberalizzazioni nei settori media e Tlc promosse dall’amministrazione Reagan (non ultima la revisione del Paramount Antitrust Decree del 1948) e, per altro verso, la nascita esplosiva della filiera dell’home entertainment (home video e pay tv). Un complesso di fenomeni che ha favorito il consolidamento delle imprese, questa volta però all’interno del mondo della comunicazione, dell’informazione e dell’entertainment; e dunque con finalità prevalentemente industriali. Ricordiamo solo i passaggi principali.

Nel 1985 Fox è acquistata dal magnate dell’editoria Rupert Murdoch, il quale poco dopo lancia il quarto network televisivo americano: Fox.

Nel 1989 Columbia, dopo un breve passaggio sotto la Coca Cola (1982), è acquisita da Sony. Sia Coca Cola (produttrice di soft drink) sia il colosso giapponese (produttore di elettronica di consumo) vedevano in Columbia l’opportunità per trasformarsi in gruppi globali di intrattenimento e comunicazione. Nello stesso anno Universal è acquisita da un altro grande colosso giapponese dell’elettronica di consumo: Matsushita (titolare di marchi come Jvc e Panasonic). Gli investimenti giapponesi a Hollywood sono ingenti a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta (oltre un terzo dei film è finanziato da capitali giapponesi); e di contro, il Giappone diventa il primo mercato internazionale per Hollywood.

Il gruppo editoriale Time Inc. (che aveva in pancia Hbo) e Warner si fondono: nel 1989 nasce Time Warner.

Un secondo movimento ha avuto inizio verso la metà degli anni Novanta, quando nuovi eventi regolamentari rilanciarono il settore televisivo. Queste spinte liberalizzatrici, a cui si aggiunse l’euforia della new economy, diedero il via al processo di concentrazione dell’industria televisiva e di quella cinematografica (tutti e tre i tv network storici si unirono in questi anni ad altrettante major); e poi incoraggiò ulteriormente l’incorporazione delle major in grandi conglomerate, coinvolgendo questa volta anche le società di elettronica e telecomunicazioni.

Nel 1994 Paramount è acquisita dalla Viacom di Sumner Redstone. Nel 1999 Viacom, che possedeva anche Mtv e Blockbuster Video, compra Cbs. Al gruppo successivamente si aggiungeranno la premium cable Showtime e il canale per bambini Nickelodeon.

Nel 1995 Disney compra il network televisivo Abc. Nel 2005, Michael Eisner cede il passo a Bob Iger, che intraprende un’aggressiva campagna acquisto di società leader nella produzione di franchise: Pixar (2006), Marvel (2009), Lucasfilm (2012).

Nel 1995 Sony compra Mgm da Kerkorian; ma nel 2010 Mgm fallisce: oggi vive posseduta e gestita dai suoi creditori.

Nel 1996 Time Warner compra la società di Ted Turner, editrice di molti canali pay. Nel 2000, in pieno orgasmo da new economy, Aol acquista Warner e si fonde con essa.

Nel 2009 Universal, dopo essere passata di mano più volte – nel 1995 (a Seagram, colosso della distillazione), nel 2000 (a Vivendi, multi
utilities francese), nel 2003 (a General Electric, già proprietaria del network Nbc: nasce così Nbc Universal) – approda nel perimetro di Comcast, grande gruppo di telecomunicazioni americano. Inizia qui per davvero la “convergenza” fra media, elettronica di consumo, informatica e telecomunicazioni. Ed è da poco arrivata (2016) un’offerta di AT&T per acquisire Time Warner.

Conclusioni

Cosa resta dunque oggi dei vecchi Studios e del loro primo modello di business? Beh, non poco, nonostante i grandi cambiamenti.

Anzitutto, la loro centralità nella distribuzione. Qui gli Studios non hanno mai mollato la presa diretta, proprio perché è l’attività attraverso cui il valore è anzitutto creato (in sala) e poi riscosso (dall’home video alla tv). L’industria cinematografica è industria di copyright e non di beni fisici: la gran parte dei costi è assorbita dalla realizzazione del prototipo (il negativo), mentre la successiva replica del prototipo (le copie) costa molto poco. Questo vuol dire che un aumento dei pezzi venduti/distribuiti non comporta una crescita significativa dei costi di produzione. C’è certamente un alto costo di marketing per il lancio del film nei vari territori, ma all’aumentare della distribuzione i costi complessivi crescono in misura meno che proporzionale rispetto ai ricavi.

In secondo luogo, il fatto che la decisione chiave, il green-lighting (fare o non fare il film), è sempre rimasto una loro prerogativa. Gli Studios si occupano meno di ideazione e quasi mai di produzione esecutiva; ma senza i loro soldi il film non si fa, o si fa raramente, o si fa solo se è piccolo. Perché solo essi possono mettere sul tavolo investimenti in qualche modo garantiti dalle strategie distributive a valle, nei vari step della filiera, grazie al presidio diretto della distribuzione theatrical e home video nei vari mercati; e grazie agli output o volume deal con le tv di tutto il mondo. Peraltro, il loro approccio al green-lighting è sempre rimasto molto prudente. Delle soluzioni di risk-management via via elaborate, alcune sono sfumate con il modello classico (per esempio, l’uso dell’esercizio nel supportare la parte più debole del prodotto o nell’estrarre valore dai successi dei concorrenti); altre invece, come l’approccio di portafoglio nella produzione, il bundling commerciale e la scala globale nella distribuzione, sono rimaste valide fino a oggi.

In terzo luogo, il presidio dell’intera filiera. Una volta era una filiera breve, con un solo step di sfruttamento, che gli Studios controllavano in prima persona, attraverso un processo di concentrazione. Oggi è una filiera lunga, articolata in vari segmenti, in continua evoluzione e globale, in cui il film si muove con passaggi pianificati, molteplici e ripetuti. Gli Studios non ne gestiscono più gli snodi in modo diretto, ma il fatto di far parte di gruppi integrati (produzione, distribuzione, tv, online, telco) garantisce loro una posizione di controllo strategico indiretto di grande efficacia.

Hollywood è ancora più che mai padrona dello schermo.


Federico di Chio

Direttore Marketing strategico di Mediaset e direttore editoriale di Link. Idee per la televisione. Insegna Media Management all’Università di Bologna e all’Università Cattolica di Milano. È stato Ceo di Medusa Film e vicedirettore generale contenuti di Mediaset. Tra i suoi libri, Analisi del film (con Francesco Casetti, 1990), L’illusione difficile (2011), American Storytelling (2016) e Il cinema americano in Italia (2021).

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