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Il caro vecchio Blockbuster

C’è stato un tempo in cui migliaia di negozi blu e gialli noleggiavano videocassette e videogiochi. In una storia di trionfi e sbagli a cui guardare con nostalgia, ma che dice anche qualcosa al presente.

Un giorno di primavera di metà degli anni Novanta un’astronave atterrò nel bel mezzo della Pianura Padana. Il 15 marzo 1997 apriva i battenti il primo e unico negozio Blockbuster di Alessandria, cambiando la vita quotidiana di tanti abitanti di quel non esaltante angolo di mondo. L’astronave, anzi il negozio, tenne duro fino al 2013, l’anno in cui chiusero anche gli ultimi Blockbuster negli Stati Uniti, la loro terra natìa, e nel decennio trascorso da allora al suo posto si sono succeduti una catena di articoli videoludici piuttosto simile all’originale, una parafarmacia e un mesto sushi con formula all you can eat.

Siccome, come avrete già subodorato, questo pezzo si avvale dello statuto speciale di “articolo nostalgico”, permettete che raduni i Gen-Z davanti al fuoco e provi a raccontare loro cosa significava recarsi da Blockbuster nella provincia italiana dei primi anni Duemila: era un negozio in cui potevi noleggiare vhs (poi vi spiego cosa significa) o dvd (idem) dei film appena passati al cinema, e anche di videogiochi, per un numero prefissato di giorni, per poi restituirli alla scadenza del periodo di noleggio (volendo, bastava infilarli in una fessura all’esterno, facendoli scivolare placidamente in un cassone di raccolta). Era un posto coperto di moquette, pieno di scaffali illuminati da luci al neon bianche, espositori a tema kolossal del momento, videogiochi che arrivavano a occupare il 99% dei tuoi pensieri, e un reparto dedicato a secchielli di gelati, popcorn caramellati in sacchetti marroncini e caramelle di forme e gusti mai visti prima.

Una formulazione piuttosto scialba, me ne rendo conto, specie se finalizzata a descrivere un’astronave: la verità è che, se eri un ragazzino minimamente curioso, Blockbuster ti faceva sentire invincibile. Succedeva perché nel 1999-2000-2001-2002 non esisteva nessuno smartphone capace di connetterti in tempo reale a tutte le informazioni e l’intrattenimento del mondo: Instagram non c’era, l’ipotesi di qualcosa di simile a un TikTok sarebbe suonata folle anche ai più visionari. E così la vista di quell’imponente insegna blu accendeva riflessi condizionati di fantasia, scoperta e svago, merci particolarmente rare nella monotonia padana. Bastava passare di lì dopo la scuola, sperare che dietro il titolo desiderato sullo scaffale ci fossero ancora copie disponibili – confezionate nel classico branded case bianco e blu – e tornare felici al proprio videoregistratore o alla propria PlayStation.

Fallimento e successo

Oggi esaltarne l’epopea suona anacronistico, nonché forse patetico, ma è difficile sottostimare il modo in cui Blockbuster – o meglio ancora l’andare da Blockbuster – ha influenzato il rapporto con lo spettacolo, i consumi culturali e la forma mentis del tempo libero di noi trenta-quarantenni odierni. Ieri rimarrà ieri e non tornerà nei nostri domani, ma torna utile citare lo scambio di un film che ricordo nitidamente di aver riportato al Quick Drop (così si chiamava la fessura esterna al negozio Blockbuster, ovvero la già citata modalità di riconsegna per misantropi) a un certo punto nel 2002: «Però sono cose che ti perseguitano» / «Sono il mio passato, Martin. Tutti sono perseguitati dal passato».

Che ne siate perseguitati o meno, quello che segue è l’autorevole passato di Blockbuster Inc., che per una di quelle ineffabili profezie – altre scuole li chiamano “casi della vita” – inizia con un fallimento. David Cook nel 1978 è un informatico non ancora trentenne che viene da Dallas, ha poca voglia di essere al centro dell’attenzione (“mi piace avere a che fare con i computer più che con le persone”, dichiarerà in una rarissima intervista molti anni dopo) e molta di studiare i database complessi e renderli idee di business. Ha appena fondato un’azienda – che le cronache chiamano variamente Cook Data Services, oppure David P. Cook & Associates – produttrice di software di gestione per aziende del settore idrocarburi, e dimostra di avere il vento in poppa: nel suo primo lustro di vita, la società raddoppia le vendite ogni anno. A febbraio del 1983 Cook decide di quotarla in borsa, raccogliendo poco meno di 8 milioni e mezzo di dollari dai nuovi azionisti.

Blockbuster era un posto coperto di moquette, pieno di scaffali illuminati da luci al neon bianche, espositori a tema kolossal del momento, videogiochi che arrivavano a occupare il 99% dei tuoi pensieri, e un reparto dedicato a secchielli di gelati, popcorn caramellati in sacchetti marroncini e caramelle di forme e gusti mai visti prima.

Ma il destino stava per bussare alla porta. Appena sei mesi dopo l’offerta pubblica d’acquisto, la crisi petrolifera di metà anni Ottanta dilaga come uno tsunami: i clienti della Cook tagliano sulle spese e fanno a meno dei software, e l’azienda si appresta a finire a gambe all’aria. Altri capitani di ventura avrebbero preparato la loro resa, ma non David Cook: lui, come ha spiegato a un’intervista al magazine Inc. nel 1987, si è messo a cercare a testa bassa  “un mercato frammentato senza player dominanti, un business che potesse essere avviato su base locale… dove avremmo potuto creare barriere competitive”.

L’illuminazione è arrivata grazie a un conoscente che gli ha chiesto di valutare il modello economico di una catena in franchising di negozi di videocassette. Tra l’83 e l’85 il settore del videonoleggio era cresciuto da 1 a 3,7 miliardi di dollari di fatturato, e ormai sempre più case d’America avevano un lettore di vhs. I video rentals però erano quasi sempre a gestione familiare, appesantiti da ingenti costi di avviamento e basati sull’intuito del proprietario, che doveva decidere in autonomia (spesso tirando a indovinare) quali film avrebbero permesso al negozio di fare affari. Perché non applicare la saggezza del software alla crescente voglia di film a domicilio della Land of the Free? Eureka! Cook decide di investire 700mila dollari del suo patrimonio per creare un inventario di titoli da far vibrare di invidia ogni cinefilo: da 7mila a 12mila film per ogni nuovo negozio, che avrà la caratteristica di offrire cinema a prezzo modico, in spazi ampi e moderni, aperti fino a tardi e con un inventario capace di accontentare tutti i gusti. Un centro di distribuzione nazionale da 6 milioni di dollari gestirà l’enorme logistica delle cassette usando un innovativo sistema di tracciamento mediante codici a barre. E ah, la nuova impresa avrà un nome immediato ed evocativo: si chiamerà Blockbuster.

Cresce l’impresa

Il primo Blockbuster apre a Dallas il 19 ottobre 1985, a una settimana dalla crisi di Sigonella che aveva avvelenato il rapporto tra Ronald Reagan e Bettino Craxi, e definirlo un successo sarebbe eufemistico: “La prima sera siamo stati così presi d’assalto che abbiamo dovuto chiudere a chiave le porte per impedire l’ingresso di altre persone”, citando le parole dello stesso Cook.

Eppure l’uomo che la storia ha consacrato come dominus di Blockbuster non si chiama David Cook. Wayne Huizenga nel 1987 è già un turbo-milionario arricchitosi con la sua Waste Management, una delle più grandi società di smaltimento di rifiuti del pianeta, mentre Blockbuster ha aperto 35 punti vendita in tutto il territorio americano, e ha in programma di arrivare a mille store entro l’anno seguente. Persuaso dal titolare di un negozio di Chicago, Huizenga decide di rilevare il 60% dell’azienda per 18 milioni e mezzo di dollari. Presto arriva una fondamentale differenza di vedute con il fondatore: il tycoon dell’Illinois vuole prendere soldi in prestito da banche e investitori per aprire nuovi punti vendita aziendali a marchio Blockbuster, mentre il mite texano spinge per proseguire sulla strada del franchising. E perde, facendosi da parte e vendendo le sue quote per una cifra compresa tra i 12 e i 20 milioni di dollari (pochi anni dopo, il loro valore sarebbe stato di circa 300 milioni di dollari).

Da 7mila a 12mila film per ogni nuovo negozio, che avrà la caratteristica di offrire cinema a prezzo modico, in spazi ampi e moderni, aperti fino a tardi e con un inventario capace di accontentare tutti i gusti. Un centro di distribuzione nazionale da 6 milioni di dollari gestirà l’enorme logistica delle cassette usando un innovativo sistema di tracciamento mediante codici a barre. E ah, la nuova impresa avrà un nome immediato ed evocativo: si chiamerà Blockbuster.

Il periodo d’oro di Blockbuster è una storia di conquista con pochi precedenti nella storia delle corporation: a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta Huizenga si dedica anima e corpo a rilevare i negozi e negozietti di noleggio di ogni angolo degli Stati Uniti, dalle praterie assolate del sud ai climi desertici dell’ovest, tramutandoli nelle astronavi dalla livrea blu e gialla che presto sarebbero atterrate in mezzo mondo. Nel 1994 la catena di videonoleggio fattura già 4 miliardi di dollari l’anno grazie a 3600 store dislocati su tutto il territorio americano, cioè più della somma dei ricavi dei suoi 375 competitor più prossimi. Quello stesso anno il gigante dei media Viacom si presenta alla porta con un piano di fusione che crea un behemot da oltre 7 miliardi di ricavi l’anno. Huizenga, come il suo predecessore, lascia il ruolo di Ceo per dedicarsi ad altro. Sull’impero di Blockbuster – che a cavallo del nuovo millennio, nella nuova America post-11 settembre, conta ormai oltre 9mila punti vendita in tutto il mondo – il sole sembra non tramontare mai.

Ma il destino quando non bussa entra sicuro, come la primavera cantata da De André. E sull’orizzonte di quello di Blockbuster già dalla fine degli anni Novanta, quando la vista del biglietto blu con la scritta gialla serviva da àncora di svago e salvezza per milioni di persone a ogni latitudine, avevano iniziato ad addensarsi nuvoloni neri. I servizi in streaming delle tv via cavo permettono agli utenti di non doversi alzare dal divano per l’ultimo film d’azione di grido o la commedia irriverente di cui parlano gli amici, e la diffusione e l’evoluzione di internet rendono obsoleto il modello di business dei dvd nel cassone.

Il crollo

Come tanti capolavori che ha ospitato sui suoi scaffali, anche la storia di Blockbuster ha una sliding door da premio Oscar per la migliore sceneggiatura. Nel 1997 un 37enne imprenditore tech, Reed Hastings, era particolarmente seccato dai 40 dollari di penali per restituzione tardiva che aveva accumulato da Blockbuster: una seccatura di cui aveva tenuto conto l’anno dopo, quando aveva fondato un servizio di noleggio di film per posta, Netflix. Nel 2000 Hastings, che iniziava a beneficiare della transizione dal vhs al dvd, più semplice da spedire, bussò alla porta del suo principale e allora più noto concorrente per mettere in vendita la sua creatura a 50 milioni di dollari. Marc Randolph, il co-fondatore di Netflix, ha ricordato che John Antioco, il ceo di Blockbuster, gli rise in faccia dopo aver sentito la cifra proposta.

È superfluo rifarsi all’antico adagio sul ridere bene e ridere ultimi. Nei primi anni Duemila Netflix tornò varie volte a bussare alla porta di Blockbuster, senza ricevere attenzione, mentre la società fondata da Cook si dedicava a un proprio pigro progetto di video on-demand in partnership con la disgraziata Enron, il cui nome rimarrà sempre legato al fragoroso crac del 2001. Da allora risulterà tutto too little, too late, una coazione a ripetere orchestrata dal fato avverso: Blockbuster aprirà il suo servizio di noleggio di dvd per corrispondenza, Total Access, nel 2004, un anno dopo i primi profitti milionari di Netflix; nel 2008 presenterà una sua piattaforma di contenuti on demand, quando quella di Hastings e Randolph aveva già iniziato a trasmettere in streaming da oltre un anno; nel 2009 introdurrà piccoli chioschi automatici per il noleggio di dvd, del tutto simili a quelli che Redbox aveva diffuso sei anni prima.

Alla fine del 2006 Netflix conta già poco meno di sei milioni e mezzo di iscritti al suo servizio. Nel 2020, in un mondo freneticamente diverso da quello dei conquistadores Cook e Huizenga, ha toccato quota 193 milioni, e da tempo nessun adolescente prova più il brivido dato dal dover affrontare un genitore adirato dalla penale corrisposta per la riconsegna tardiva di un videogioco.

E così per Blockbuster è arrivata la fine, non con uno schianto ma con un piagnisteo: nel 2010 la società aveva già un miliardo di debito, accumulato in larga parte con il buyback nel 2004, dopo la fine del matrimonio con Viacom. A settembre di quell’anno la compagnia ricorre al famigerato Chapter 11, quello che evita almeno temporaneamente la bancarotta, e viene comprata all’asta dal provider di servizi via satellite Dish per 228 milioni di dollari. Per qualche tempo – poco, in realtà – si spera in un’inversione di tendenza e un improvviso ritorno in piedi del gigante ferito, ma nel 2013 Dish annuncia ufficialmente la chiusura di tutti i punti vendita Blockbuster e del relativo servizio di noleggio per posta. L’ultimo punto vendita a chiudere è stato quello di Morley, nell’Australia occidentale, che ha detto addio al suo pubblico a marzo 2019. Oggi sopravvive un solo Blockbuster, più che altro una meta di pellegrinaggio per nostalgici e reduci: quello di Bend, in Oregon, il cui sito punta comprensibilmente sulla vendita di merchandising da magone malinconico brandizzato “Last Blockbuster”.

Più di ogni altra cosa, Blockbuster Inc. e il suo ricordo appartengono a un mondo sì datato, acerbo e senza dubbio migliorabile, ma in cui il consumo culturale era il frutto di una scelta consapevole, ponderata, spesso discussa. Di fronte allo scaffale nessun algoritmo sceglieva al posto tuo: eri tu a costruirti il tuo gusto, a incanalare i tuoi interessi, a capire cosa ti piaceva e da cosa volevi tenerti alla larga. Potevi Make it a Blockbuster night, come da slogan onnipresente, ma anche no, e niente e nessuno avrebbe cercato di manipolarti surrettiziamente per farti cambiare idea. Sarà pure il riflesso distorcente della nostalgia, non discuto, ma a vent’anni di distanza anche il ricordo di una banale passeggiata nei corridoi di una videoteca al neon di provincia si colora della luce azzurra dell’utopia.


Davide Piacenza

Scrive di attualità e cultura. Ha lavorato nelle redazioni di Rivista Studio, Forbes e Wired. La sua newsletter Culture Wars racconta e analizza ogni settimana i casi in cui i nuovi codici sociali e i discorsi intorno al politicamente corretto riplasmano il mondo in cui viviamo.

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