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Lo Zecchino d’Oro fa 65. Un sorprendente prisma della società italiana

Lo Zecchino, creatura del dopoguerra, incarna una ricostruzione globale, realizzata a livello nazionale e agita nel locale. Oggi i bambini sono meno numerosi, e forse anche gli adulti. Ma la formula tiene.

“Vince la canzone, non l’interprete”. Era questo il mantra di Cino Tortorella, in arte mago Zurlì, tanto che solo dal 1973 dismise la calzamaglia e cominciò a condurre in abiti borghesi. A vincere lo “zecchino d’oro”, la moneta del Pinocchio di Collodi, non è mai stato il bambino che canta, ma l’adulto che ha scritto il brano. E, a guardare dietro le quinte, la storia dello Zecchino è innanzitutto degli adulti che lo hanno voluto e costruito. Capire le loro idee e seguire come si siano adattate ai tempi è un modo utile di guardare non solo alla storia della televisione, ma della società italiana, perché nessuna costruzione culturale racconta meglio dei prodotti per l’infanzia i momenti e i programmi di una società di massa.

Al pari della Costituzione e dell’Unione europea, al pari della Rai, lo Zecchino è una creatura del secondo dopoguerra: incarna una ricostruzione compresa nel globale, ma realizzata nel nazionale e agita nel locale. Le Nazioni Unite e la Chiesa cattolica da un lato, Collodi e Bologna dall’altra. Per dirla con un’insuperabile verso di Calcutta (che lo Zecchino l’ha guardato negli anni Novanta): “Leggo il giornale c’è Papa Francesco, e il Frosinone in serie A”.

Milano, e dove se no

Pare che l’idea di un “Sanremo dei piccoli” sia venuta a Niny Comolli, la prima musicista donna della Rai, a cui alcuni imprenditori chiesero di organizzare una trasmissione da mandare in onda dal Salone del Bambino di Milano (una fiera merceologica patrocinata dall’Ente provinciale per il turismo e dall’Associazione nazionale fabbricanti di giocattoli). Correva l’anno 1959, a scrivere e condurre le puntate fu chiamato Cino Tortorella, reduce dal successo della serie Zurlì il mago del giovedì. Quell’anno il Salone si ispirava al libro di Pinocchio, di conseguenza Tortorella sceneggiò una fiaba-varietà a tema: tre atti inframezzati dall’esecuzione di 10 canzoni, al termine delle quali Pinocchio, scampato ai tranelli del gatto e della volpe, consegna uno zecchino d’oro al vincitore (decretato già allora dall’alzata delle palette della giuria bambina: trovata rivoluzionaria, perché valorizzava la capacità di giudizio dei non adulti).

Il primo Zecchino andò in onda in diretta il 24, 25 e 26 settembre. Il successo di pubblico fu immediato, e Tortorella rimase in un certo senso prigioniero dei panni di Mago Zurlì. Eppure la stampa non se ne occupò in maniera rilevante, né uscirono edizioni discografiche (in assenza di registrazioni, di alcune canzoni si è perso financo il testo). Furono le famiglie, le scuole e le parrocchie i primi ripetitori della prima musica leggera per i piccoli. A vincere fu Quartetto, composta da Angelo Bignotti e cantata da Giusi Guercilena, ma a passare alla storia è stata Lettera a Pinocchio di Mario Panzeri, resa celebre dalla versione di Johnny Dorelli.

“Carissimo Pinocchio” non poteva arrivare al cuore della giuria bambina, perché narra di un adulto che ripercorre la sua infanzia, ma proprio per questo spopolò al pari di un successo sanremese. Nel testo c’è già tutta la nostalgia che proviamo se ci voltiamo indietro e ripensiamo ai nostri Zecchini. Ultimo dettaglio: quello stesso anno l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approva la Dichiarazione dei diritti del fanciullo, secondo cui “il bambino deve avere ogni possibilità di dedicarsi a giochi e attività ricreative orientati verso fini che l’educazione si propone; la società e le pubbliche autorità devono impegnarsi ad agevolare il godimento di questo diritto”. Insomma l’Italia e il mondo: difficile separarli.

Bologna, e dove altrimenti

L’idea originaria era quindi ben più commerciale di come è passata alla storia: rispondere alla domanda di un nuovo repertorio di canzoni per l’infanzia, facendole comporre da musicisti professionisti ed eseguire da bambini in diretta televisiva. Essendo milanese, l’intuizione funzionò: ed è a quel punto che in genere subentra Roma, ed è a quel punto che in genere la media tra economia e politica fa Bologna.

Dopo i successi delle due edizioni milanesi (nel 1960 lo sponsor fu sempre il Salone del Bambino, la messa in onda fu dalla Sala Cicogna della Fiera Campionaria), la dirigenza Rai, al tempo con un solo canale, consigliò a Tortorella di trovare un organizzatore che non avesse solo finalità di lucro. Con l’accordo del funzionario Luciano Budigna, Tortorella indicò i conoscenti dell’Antoniano: un’istituzione ecclesiastica votata ad azioni di solidarietà che era stata fondata nel 1953 a Bologna, da quattro frati francescani del convento di Sant’Antonio: padre Gabriele Adani (1927-1993), padre Ernesto Caroli (1917-2009), padre Benedetto Dalmastri (1926-2009) e padre Berardo Rossi (1922-2013).

I “quattro moschettieri” – così erano chiamati, per tempra, unità e spirito di servizio – ritennero la richiesta della Rai conforme ai propri fini sociali, e dissero il sì di chi crede e non pensa alle implicazioni organizzative. Tortorella aveva detto loro: “Bastano ragazzi (e ce ne sono finché si vuole); bastano 12 canzoni (e ne arrivano a vagoni); voi avete un bellissimo cinema teatro. La ripresa la fa la Rai”. Mariele Ventre, una parrocchiana dell’Antoniano neodiplomata in pianoforte, fu reclutata da Padre Rossi a margine di una messa nel settembre 1961. Le chiesero se poteva “insegnare le canzoni ai bambini”. Come spesso accade per le cose grosse, chi ha cominciato lo Zecchino non sapeva di iniziare ciò per cui sarebbe stato ricordato.

Mariele, al principio di tutto

Il primo Zecchino bolognese Mariele lo prepara nel salotto di casa sua in viale Oriani, dove ospita i bambini e li fa provare accompagnandoli al pianoforte. Il codice deontologico della manifestazione si deve ad alcune sue scelte casalinghe, mai più rinegoziate: la gara è tra le canzoni, si va in tv ma non bisogna cedere al divismo; perciò tutti devono essere vestiti uguali, le famiglie sono ospitate nello stesso albergo, il rapporto è di fiducia e nessun genitore può interferire nelle attività di preparazione. Erano sane regole di buon catechismo: divennero un ingrediente tv. Sia perché la disciplina ha una forma e un carisma, sia perché l’ordine di Mariele fu da subito funzionale alla preparazione di uno spettacolo irto di variabili infantili.

Resasi conto dell’importanza che per i bambini aveva il contatto visivo con Mariele, la regista Carla Lyda Ripandelli decise di mettere la direttrice attaccata alla telecamera, in maniera che cantassero rivolti al pubblico a casa: un’inquadratura che poi nel mondo a colori è stata recuperata anche per gusto estetico, perché la soggettiva della direttrice ha il suo perché. Ma si parla di molti anni dopo, quando Mariele ha già accettato la sua immagine. Al suo primo Zecchino, andato in onda dal cinema teatro dell’Antoniano, fu visibile solo per pochi secondi, solo perché Tortorella volle svelare il trucco in diretta: “Avrete notato che i bambini cantano guardando sempre là, verso lo stesso punto. Cosa guardano? Quella signorina, ecco quella signorina che adesso anche voi vedete…”.

L’idea originaria era quindi ben più commerciale di come è passata alla storia: rispondere alla domanda di un nuovo repertorio di canzoni per l’infanzia, facendole comporre da musicisti professionisti ed eseguire da bambini in diretta televisiva. Essendo milanese, l’intuizione funzionò: ed è a quel punto che in genere subentra Roma, ed è a quel punto che in genere la media tra economia e politica fa Bologna.

Le versioni che noi bolognesi abbiamo raccolto a scuola negli anni Novanta dai compagni che facevano parte del Piccolo Coro sono più o meno convergenti: Mariele era una maestra autorevole; la si seguiva sentendosi importanti perché consapevoli di partecipare a qualcosa di più grande, ma proprio per questo nei suoi confronti vigeva sempre un po’ di soggezione. Cresciuta in mezzo a piccoli che come per magia le ubbidivano, Mariele non è sembrata a nessuna generazione che l’ha amata una madre. È sempre stata animata da qualcosa di molto più “complessivo”. Nella migliore biografia a disposizione (da cui sono tratte molte delle informazioni che riporto), Padre Rossi riconduce l’essere di Mariele pure a una precisa scelta di castità: “Ci fu, molto palese, anche l’attenzione di qualche ragazzo, ma lei diede un indirizzo definitivo alla sua vita, riservandosi alla maternità dei bambini dello Zecchino d’Oro, estesa tramite loro ai bambini di tutto il mondo. Il periodo definitivo, come io penso, fu il triennio 1963-66. I passaggi e le circostanze della decisione sono chiusi nello scrigno d’oro dell’anima di Mariele”.

Dinanzi alla madre dello Zecchino affrettati occhi contemporanei rischiano di vedere la castità fuori dal tempo di una suora laica, o al contrario la moderna affermazione di una donna che seppe sentirsi madre al di fuori di ogni legame biologico. Quando Mariele morì, Irene Pivetti, conduttrice e Presidente della Camera eletta dal primo governo Berlusconi, mischiò per il Corriere della Sera le due interpretazioni: “Ci sono modi diversi per vivere la vocazione materna e di rinunciare a una famiglia propria per qualcosa di importante. Non penso solo a Madre Teresa. Penso anche a Mariele Ventre. Chi potrebbe dire che quella donna non era madre di tutti i bambini dello Zecchino d’Oro?”. Pronunciate per apprezzamento, queste parole non restituiscono la complessità della persona e delle sue motivazioni profonde. La non riducibilità della figura di Mariele, che per seguire la fede imparò a fare tv, è tipica dei personaggi in epoche di trapasso. È la cifra di una qualità, di una misura e di una coerenza intime, che Sabrina Simoni, pur essendo una donna molto diversa, ha inteso proseguire dopo la sua scomparsa, nel 1995.

La televisione come atto di fede

Insomma, le ragioni storiche e commerciali dello Zecchino prescindono dalle scelte dei singoli, hanno radici nel sorpasso demografico, economico e tecnologico della società del dopoguerra, per cui il bambino smise di essere un prolungamento della volontà genitoriale e divenne finalmente soggetto (come proclamato dalle Nazioni Unite). Ma perché questo cambiamento alla prova della traduzione televisiva si valse dei frati dell’Antoniano e di una loro parrocchiana? Perché proprio loro, come Mariele per scelta senza figli, seppero cimentarsi nella transizione post-bellica vissuta anche dal difficile pianeta dell’infanzia? I dubbi ci furono anche allora, e sul finire degli anni Sessanta genitori, insegnanti e altri sacerdoti posero queste e altre domande, inviando all’Antoniano lettere non sempre benevolenti. Dalle risposte emerge il profondo movente religioso che animò un’autentica e consapevole scelta di campo.

L’idea dei cattolici che sposarono lo Zecchino d’Oro era di rispondere alla modernità sul suo stesso piano: di riconoscere “la ineguagliabile potenza della televisione”, per promuovere canzoni “non solo innocue, ma sane e fantasiose”, come disse proprio Mariele Ventre. Rispondendo a un insegnante, nel 1968 lei in persona giustificava così la scelta fatta dall’Antoniano: “Lei è a contatto ogni giorno con i bambini e sa bene che la loro evoluzione, diciamo così, conoscitiva si sviluppa globalmente e radicalmente. Lei sa che il bambino, oggi, è un bambino diverso, senza buccia e senza riparo di fronte all’ondata di stimoli nuovi e suggestivi che gli giungono da un mondo frenetico, scintillante, oppressivo e ossessivo. Lei sa che anche una canzoncina che ne popoli la fantasia con immagini e gesta colorate può corroborare la sua nascente personalità e impermeabilizzarlo a sensazioni vulneranti o venefiche. Per questo l’Antoniano crede di aver collaborato con gli insegnanti. Le colonie, le scuole, gli asili sono invasi ormai da pulcini ballerini, da passerotti innamorati, da fratelli del far West, da pecorelle al bosco e il cosacco Popoff e il pinguino Belisario e il pirata Jack sono amici dei bambini come Pinocchio e Peter Pan”.

Dinanzi al nuovo e scintillante rumore mediale, la protezione dei piccoli non poteva passare dalla ritirata, dalla messa in latino: quei cattolici si sentirono in dovere di partecipare, di portare dentro, di aggiornare in tv Pinocchio con il pirata Jack; solo così sarebbe stato possibile rimanere nella Storia.

Con argomenti e ragioni simili, in quegli anni si tenne il Concilio Vaticano II. Con argomenti e ragioni simili, nel 1970 la DC votò la legge sul divorzio. Con argomenti e ragioni simili, oggi il piccolo coro dell’Antoniano è su YouTube. La formula dello Zecchino è la più antica e funzionante formula del riformismo italiano, che da sempre poggia più sull’impossibilità (teologica, dei credenti) di esimersi dallo svolgersi della Storia che sull’atea presunzione di farla. Lo Zecchino è, anche, una tv nata per fede.

Gli eroici Sessanta: il programma prende forma

Ma veniamo al programma. Il contenitore è precisato durante il sorpasso italiano, negli anni Sessanta. Prima di proporvi un thread di canzoni vediamone brevemente le tappe. Il 1961 (l’anno della costruzione del muro di Berlino e del centenario dell’Unità d’Italia), Lorenzo Caregato disegna il logo a lungo rivisitato: quattro bambini di diverse età che cantano davanti al microfono. Non solo: per iniziativa dell’Antoniano, che coinvolge la casa discografica Sahara di Modena, le canzoni escono finalmente in LP (la raccolta completa esce in 33 giri, i 45 giri ospitano coppie di canzoni). È il primo cambio di passo, commerciale e culturale.

Già nel 1962 (l’anno della crisi di Cuba, dell’aereo di Mattei che precipita, della nascita dell’Enel) la popolarità dello Zecchino d’Oro è molto alta: arrivano all’Antoniano 216 canzoni, di conseguenza bisogna creare una giuria e regole condivise per la selezione (è questo ancora oggi uno dei momenti artistici più importanti della trasmissione). La prima edizione era stata vinta da un maestro elementare, poi iniziano a partecipare musicisti e parolieri professionisti: quell’anno vince per la prima volta il Maestro Mario Pagano, che sarà protagonista di decine di edizioni con successi del livello di Volevo un gatto nero. Dal punto di vista strettamente televisivo, le novità del 1962 sono ancor più notevoli: la manifestazione si sposta dall’autunno alla primavera, l’età massima dei partecipanti si abbassa da 14 a 11 anni, per la prima volta le canzoni sono accompagnate non solo dall’orchestra (diretta da Henghel Gualdi) ma da un coretto (4 bambini e tre bambine). Ospite in studio quell’anno c’è anche una giuria di adulti chiamata a conferire lo “zecchino di latta”. Sorpresa delle sorprese: le due giurie votano uguale ed entrambi gli zecchini vanno a La giacca rotta, scritta appunto dal Maestro Pagano e interpretata dal bambino maltese Raymond Delbono. Raymond è stato il primo bambino straniero a esibirsi allo Zecchino d’oro, quindici edizioni prima dell’esordio degli stranieri in gara e trent’anni prima della rete del “fiore della solidarietà”.

Raymond partecipò quasi per caso, prima per un disguido tra Tortorella e Malta, poi perché il bambino titolare si ammalò e Mariele riuscì a insegnargli il testo a tempo record sebbene non parlasse l’italiano; ma il “bimbo per caso” fece jackpot e all’aeroporto di La Valletta fu accolto come un eroe, alla presenza del presidente della repubblica maltese. Raymond fu il simbolo di una vocazione internazionale che lo Zecchino ha avuto dalla nascita, ma fu anche il primo grande lutto della famiglia dell’Antoniano, perché invece di ritornare a Bologna con i suoi bimbi (cosa che hanno fatto in molti ex vincitori), morì prematuramente 22 anni dopo, per tossicodipendenza. Attraversare generazioni di bambini per Mariele significò anche questo: accettare numerose, “statistiche”, perdite premature.

Il 1963 (l’anno del Vajont e della morte di Papa Giovanni XXIII) è sempre fondativo, perché esordisce il piccolo coro dell’Antoniano: sette coristi (quattro bambini e tre bambine), tutti bolognesi in quanto ex concorrenti desiderosi di poter cantare tutto l’anno – nel corso degli anni il coro si limitò ai locali, a cui invece fu via via preclusa la competizione canora. La ratio era educativa: i bambini bolognesi hanno già la fortuna di avere il coro in città, “non possono avere tutto”. Sempre nel ’63 la finale è per la prima volta trasmessa in altre nazioni, inclusa l’Unione Sovietica e i paesi dell’Est Europa. Quello stesso anno l’Antoniano celebra la prima festa della mamma, con una trasmissione televisiva ad hoc tarata sul formato dello Zecchino. Il 1964 (l’anno del nobel a Martin Luther King e dell’inaugurazione dell’Autosole) è l’unico in cui la trasmissione è registrata (per uno sciopero Rai). A vincere è il “pulcino ballerino”, interpretata dalla deliziosa Viviana Stucchi e scritta dal pluridecorato maestro Pagano: è uno dei brani che per il mix di testo innocuo, arrangiamento raffinato e tenera interpretazione hanno fatto la storia della manifestazione, e ancora oggi è ricordato come serenità di un’Italia perduta (la piccola Stucchi fu inviata a cantare per gli operai italiani della Volkswagen in Germania).

Il 1965 (l’anno della morte di Churchill e dell’inizio della rivoluzione culturale in Cina) segna in qualche modo il definitivo passaggio alla forma tv: infatti per la prima volta la manifestazione non è trasmessa dal teatro dell’Antoniano, ma da uno studio apposito e adiacente (dove si svolge tutt’ora). Quell’anno vinse Dagli una spinta, che racconta le bizze di una macchina troppo vecchia (iniziavano a esserci auto vecchie!). Seduto tra il pubblico c’era anche il Cardinale Giacomo Lercaro. E arriviamo così al 1968 (l’anno del Sessantotto!). Per il primo decennale lo scenografo Filippo Corradi Cervi ricrea in studio un negozio pieno di giocattoli giganti. È l’anno in cui Barbara Ferigo canta Quarantaquattro gatti, l’anno in cui una treenne Cristina D’Avena canta Il valzer del moscerino, piazzandosi terza (un po’ come Sofia Loren che vinse Miss Eleganza…). Insomma, siamo al cuore degli anni d’oro: anche per lo Zecchino il 1968 è l’anno del mito fondativo. L’anno dopo (a pochi mesi dal concerto di Woodstock!) è a ben vedere altrettanto importante, perché per la prima volta si trasmette in Eurovisione: l’internazionalizzazione che era sempre stata uno dei moventi dei frati dell’Antoniano trova finalmente uno sfogo catodico. Lo spettacolo è seguito da 150 milioni di persone del mondo (solo lo sbarco sulla Luna quell’anno fece meglio: eppure le due canzoni sul tema non salirono sul podio). Dall’altra parte del mondo, la traduzione in giapponese di Volevo un gatto nero vende diversi milioni di dischi.

Insieme al successo planetario, arrivano le polemiche. Lo si capisce dalla forma esasperatamente “corale” dell’edizione 1971, che a fianco del Piccolo Coro chiama in studio il “coretto delle Regioni” (nate l’anno prima) e un coro composto da 26 ex solisti: più di cento bambini! Questa collettivizzazione della performance canora cercava di rispondere alla crescente accusa di “incoraggiamento al divismo infantile”, che si diffuse in diversi settori della politica e dell’opinione pubblica, e che culminò in un’interrogazione parlamentare sull’opportunità che la Rai trasmettesse l’evento. La tredicesima edizione (vinta dal successone Il caffè della peppina) segna in un certo senso la fine dell’età dell’oro (per quanto possibile trattandosi dello Zecchino: dell’innocenza). Non per caso l’anno successivo è l’ultimo anno di Mago Zurlì in costume e l’ultimo con l’orchestra dal vivo. Sempre nel 1972 il Piccolo Coro è ricevuto al Quirinale da Giovanni Leone, per esibirsi nel Salone dei Corazzieri. Alle soglie della tv a colori lo Zecchino non era più piccolo: aveva girato il mondo, aveva conosciuto le polemiche, era entrato nelle istituzioni. Con l’edizione del 1973, di cui è trasmessa solo la finale, comincia in un certo senso il presente in cui ancora ci troviamo.

Al di sopra di ogni cosa, le parole e la musica

Tortorella in maglioncino, la basi pre-registrate e la decisione della Rai di trasmettere solo l’ultimo dei tre appuntamenti (scelta che sarà rivista solo nel 1981) costarono la protesta di una buona parte del pubblico adulto, che voleva per i secondogeniti la meraviglia vissuta dai primi. Ma di questo e di altri rumori genitoriali di fondo le canzoni, in realtà, non si sono mai curate più di tanto. Con la loro qualità, fatta di testi e musiche scritte da professionisti e selezionati da un serio e coerente filtro culturale, l’arte ha avvertito le epoche molto meno del contenitore, disegnando la vera continuità di tutta la vicenda dello Zecchino. Per rendersene conto basta navigare l’archivio online. Anche quando l’epoca (sonora e lirica) è dominante, non è mai il momento a governare, perché in ogni tempo l’adulto che ha composto per lo Zecchino si è seduto al tavolo per connettersi al luogo senza tempo dell’immaginazione infantile. 

“L’Antoniano ha collaborato con gli insegnanti. Le colonie, le scuole, gli asili sono invasi ormai da pulcini ballerini, da passerotti innamorati, da fratelli del far West, da pecorelle al bosco e il cosacco Popoff e il pinguino Belisario e il pirata Jack sono amici dei bambini come Pinocchio e Peter Pan”.

Un po’ come avviene nei classici Disney, nelle canzoni dello Zecchino l’eterno sovrasta lo storico anche quando lo storico è molto forte. Ciò che continua è sempre più di ciò che cambia. Persino nei temi. Cambia la società ma restano i cowboy, che almeno fino agli anni Novanta sono i personaggi di semi-fantasia più presenti (senza mai entrare in conflitto con il “fiore della solidarietà”). Restano i papà, che rispetto alle mamme sono da subito sovra-rappresentati (per disparità di genere, per compensarla, per combatterla: le intenzioni cambiano, nei testi i papà rimangono importantissimi). Resta il regno animale: uccellini, giraffe, coniglietti (nel 1969 vinse la dimenticabile Tippy il coniglietto Hippy, mentre L’omino della luna e La luna è matta non si piazzarono, perché l’immaginazione dei bambini non segue l’attualità). E soprattutto resta il cristianesimo, declinato sulla solidarietà tra i popoli e nella curiosità del diverso. Certo, tra le nuvole della fantasia, ogni tanto fanno capolino le faide degli adulti, ma non è mai quello l’obiettivo. Ho provato a testare queste teorie sulle canzoni meno note, che non hanno vinto o che abbiamo dimenticato: pensavo che il non ricordarsele fosse dovuto alla loro caducità, all’incapacità di separarsi dall’epoca che le ha partorite. Il più delle volte ho scoperto che non è vero: i successi arrivati ai posteri non sono per forza i più senza tempo, così come le canzoni che non sono sopravvissute alla selezione della memoria spesso ci parlano ancora.

Ecco qualche esempio a mo’ di thread amarcord, per dare un’occasione di riascolto cronologico. Quarantaquattro gatti, di cui già dicevamo, è evidentemente una canzone del Sessantotto operaio e studentesco: i gattini sono “senza padrone” e “organizzano una riunione” prima di marciare compatti e allineati per chiedere di mangiare e dormire meglio. C’è dentro un’epoca, ma i bambini che l’hanno cantata negli anni Ottanta, Novanta, Duemila e che ancora oggi la cantano pensano ai gattini. La sua forza artistica non è nella sottotrama adulta.

Ma andiamo tra le meno famose e ribaltiamo il test: chiediamoci se due canzoni evidentemente fuori dal tempo non abbiano più niente da dire. Prendiamo il 1973. La giuria bambina premia la Sveglia Birichina ma in gara ci sono molte canzoni stupende, due delle quali a tema famiglia. Sono l’ottavo di sette fratelli, la cui trama è già tutta nel titolo, racconta i problemi di una demografia che non esiste più: quando arriva il nono fratellino finalmente l’ottavo non è più l’ultimo e in cambio di questo sollievo promette di dargli “un po’ della mamma che ho”. Il contesto è talmente superato da sembrare iperbolico, eppure il bimbo di oggi che la ascolta lo vuole rifare: perché il ritornello del coro è irresistibile ma anche perché il problema di condividere le attenzioni dei genitori è sempre lì.

Una seconda canzone ancora più interessante è Io con chi sto. Manca un anno al referendum sul divorzio, la legge del 1970 è in vigore, e il grande Alberto Testa scrive una canzone difficilissima, mettendosi nei panni di una bambina dispiaciuta per la separazione dei genitori. La musica è del grande Walter Malgoni (il già allora celebre autore di Guarda che luna). “Lo so, non andate d’accordo / E non vi scambiate uno sguardo; / Se non c’è più niente da dirsi / Voi dite che è giusto lasciarsi / Voi dite che è giusto lasciarsi, però / Io con chi sto? // Avete parlato di affari, / Di mobili e di denari, / E senza scenate furiose / Avete diviso le cose / Avete diviso le cose, però / Io con chi sto? // Mille lacrime cancellano un dolore, / Ma non possono cambiare quel che è, / E voi due / Siete in tre”.

Se fossi un docente di storia della tv commissionerei volentieri una tesina sulle intenzioni e le ricezioni politiche di questo brano, a un anno da un referendum che ha cambiato la società italiana. Non avendo studiato a riguardo, non posso che immaginare si sia trattato anche, almeno in parte, di una presa di posizione dell’Antoniano: il momento non era neutro e Mariele dichiarò pubblicamente che quella canzone era la sua preferita. Ma, al di là di questo, il punto è che si tratta di un capolavoro musicale. E che ad ascoltarla oggi, fuori da quel frangente politico e sociale, arriva solo il sentimento di un bambino in una situazione difficile, che non essendo una vittima angelicata non esita a fare un ricatto morale: “se avrò tutto quel che mi piace, sarà più leggera la croce”. Insomma, persino in questo caso l’eterno vince sul contingente, la canzone sulla politica, il bambino sull’adulto: non c’è niente da fare.

Al lettore che trovasse un po’ benevolente questa mia interpretazione, propongo alcune “cose che non ti aspetti” al contrario, che fanno comprendere come l’Antoniano pur non essendo un luogo neutro sia sempre stato un luogo di tutti. Nel 1976 a pari merito con Gugù bambino all’età della pietra arriva Nozze nel bosco, una ballata semipagana interpretata dal bambino tedesco Olaf Stief (è il primo Zecchino d’oro vinto ufficialmente da uno straniero). La prima notte di nozze non è di certo un concept del progressismo, ma la disinvolta vitalità corporea che promana da questo testo della tradizione teutonica è il contrario del cattolicesimo mediterraneo. È notevole che in ossequio al dialogo interculturale si sia scelto di tradurlo e di farlo cantare. “La festa fu bellissima / E durò fino alla se-e-ra / Viridallalla – viridallalla / Viridalla lallallà! // L’allodolo condusse / Nella stanza la sua allodola / E il fringuello – llo / Da lontano – no / Col suo canto li seguì…! // Socchiusero le imposte / E poi spensero la lampada / “Buona notte-tte” / Disse il gallo-llo / Con il suo chicchirichì! // Adesso gli sposini / Sono soli e son feli-i-ci. / Ma chi batte-tte alla porta-ta? / La cicogna è già qui…!”.

Ma quello del 1973 non è il solo testa a testa tra sacro e profano. Del derby più avvincente sono stato testimone diretto. Siamo nel 1997: è l’anno del Katalicamello. L’Unione Europea è appena nata e le politiche comunitarie cominciano a chiedere sforzi ambientali alle imprese: tre anni dopo entrerà in vigore l’euro e in gara c’è anche Gira gira con la lira, un viaggio attraverso le valute europee che letto con gli occhi di oggi sarebbe tacciabile di sovranismo monetario. Due canzoni arrivano a parimerito e per la prima volta si decide di fare uno spareggio. Alla giuria è chiesta una netta scelta di campo: tra Caro Gesù ti scrivo, che è sostanzialmente un canto di parrocchia postconciliare ispirata al successo di Lucio Dalla, e Un bambino terribile, che ha al centro una piccola peste che ama la musica rock e suona i coperchi e le pentole, nel disappunto generale del mondo adulto. Spoiler: il rock la spuntò su Gesù (peraltro con mio dispiacere, perché mi ero un po’ innamorato della bambina di Caro Gesù ti scrivo: altra cosa importante da sapere è che i bambini che guardano lo Zecchino spesso si innamorano degli interpreti).Ma la canzone più “progressista” dello Zecchino risale al 1989. Sta per cadere il Muro e si sente: la cantante rumena Roxana Costantinescu è bloccata alla frontiera e non può partecipare. Cino Tortorella è per la prima volta affiancato alla conduzione, dal volto materno e sorridente di Maria Teresa Ruta. Vince Corri topolino ma, attenzione, in gara c’è anche Il triangolo Paiù. Paiù è un triangolo che desidera essere altro da sé, e che a causa dei suoi tre spigoli continua a invidiare le altre forme, le sfere e i parallelepipedi, arrivando addirittura a ipotizzare il suicidio. Alla fine, grazie al fatto di essere un triangolo, riesce a sventare un incidente stradale, e capisce che non c’è nulla di male nell’essere quello che si è: “chissà che male c’è, se ognuno, ho detto ognuno, proprio ognuno, è quel che è!”.

Ora, senza che la malizia ci porti sino al “triangolo non considerato” che Renato Zero canta il decennio prima, possiamo davvero pensare alla scelta del triangolo come a una casualità non simbolica? Nel 1989 la parola bodyshaming vive ancora in America, e certo l’omosessualità non era un tema, sicuramente non infantile. Eppure Alberto Testa, autore della “canzone antidivorzista” del 1973, quell’anno allo Zecchino propone una canzone che se fosse in gara oggi qualcuno twitterebbe che è un dazio pagato all’ideologia gender. La verità del 1989 è la stessa del 1973: Testa ha scritto ancora una splendida e difficile canzone per bambini. Che era dentro al presente e oltre, come solo le cose di valore sanno essere. Come solo allo Zecchino può accadere.

E adesso?

E niente, adesso che abbiamo ripassato ci sediamo e ci godiamo lo spettacolo: come ogni anno alla ricerca sia della nostra nostalgia sia di una speranza per il futuro. Sappiate che le canzoni dell’edizione 65 sono già online da qualche mese: un’idea poco sanremese, ma che consente ai piccoli di cantare parole già note durante la diretta, in modo che la fruizione del programma si approssimi a quella dei sempre più numerosi canali YouTube che i bambini si godono on demand (in testa quello di Carolina Benvenga, che infatti da anni è ospite della trasmissione). Come tutto il televisivo, anche lo Zecchino è al centro di un’interessante e ormai classica ibridazione tra catodico e online, che l’Antoniano sta risolvendo con la creatività e la coerenza di sempre (navigare per credere).

Certo moltissimo è cambiato, a cominciare dalla domanda, perché anche solo dagli anni Ottanta il numero di minori nella società italiana è quasi dimezzato. Ma il problema peggiore per il sistema Zecchino è che i bambini calano insieme agli adulti, perché i due processi, di adultizzazione dei bambini e di infantilizzazione della società (una crasi resa artistica dal supporto del Coro dell’Antoniano a Lo stato sociale sul palco dell’Ariston nel 2018) sono a ben vedere le due facce di una medaglia sociologica che è il contrario delle premesse commerciali, sociali e morali dello Zecchino: un’invenzione che ha nel Dna una sana e robusta divisione tra adulto e bambino, mantenuta a beneficio dei bambini stessi, che sono trattati sempre con intelligenza, ma mai come pari. Riuscirà lo Zecchino a scollinare il problema demografico, mantenendo la sua originalissima postura sull’infanzia?La qualità delle canzoni in gara fa ben sperare. Il tema dei genitori fuori tempo biologico e che per di più non accettano di invecchiare quest’anno lo affrontano di petto Antonio Iammarino e Luca Medici, in arte Checco Zalone. La canzone si chiama Giovanissimo papà, e a cantarla sarà Giorgia Nocentini. Insomma anche quest’anno ci sarà da divertirsi. Spiace per gli Z, che per questo spettacolo sono già troppo vecchi e ancora troppo giovani. Ma il bisogno di Zecchino tornerà anche per loro!


Nicola Pedrazzi

Nato l'estate di Chernobyl a Bologna, dove vive. Giornalista pubblicista, è redattore della rivista il Mulino e scrive per diverse testate, tra cui Osservatorio Balcani Caucaso, Kosovo 2.0, Riforma, Confronti. Dal 2012 al 2016 ha vissuto e lavorato a Tirana, in Albania: ufficialmente per una ricerca sulle relazioni italo-albanesi durante il comunismo (L'Italia che sognava Enver. Partigiani, comunisti, marxisti-leninisti. Gli amici italiani dell'Albania Popolare, Besa, 2017), ma noi sappiamo che era là per seguire Agon Channel.

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