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Cinema

Non è proprio censura, è più voglia di qualcosa di adatto

L’annuncio ha avuto ampia risonanza: il ministro Franceschini ha abolito la censura. Ma cosa è davvero successo? Teoria e storia di una parola abusata, cercando di andare oltre i luoghi comuni.

Censura è un termine complicato, un discorso più che una categoria, una word cloud proteiforme, che fagocita tutto quello che passa a tiro, cambiando composizione e forma senza mai cambiare dimensione. Contiene (meglio: oggi mentre scrivo contiene e mette in evidenza): fine; Franceschini; Via col vento; cinema; Panni sporchi; Fedez; Totò che visse due volte; blackface; Ultimo tango; Pio e Amedeo; dittatura del politicamente corretto; Biancaneve; e mille altre parole. Ma che cos’è la censura dell’audiovisivo? O, per essere più precisi, come usiamo di solito questa parola sospesa tra descrizione e condanna, morale e burocrazia?

Abolizione?

Partiamo dall’attualità, se non dalle ultime notizie almeno dalle penultime, per ripercorrere una storia che sembra rievocazione di un tempo fatto di triplici copie e graffette arrugginite e che invece si salda con le questioni chiave del presente, provando magari a sgomberare il tavolo da una serie di luoghi comuni. Si parte dal cinema, ma inevitabilmente si finisce per parlare anche di altro. Con un’invidiabile scelta di tempo il Ministero della Cultura ha annunciato lo scorso lunedì di Pasqua di avere abolito la revisione cinematografica, superando “quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti” meglio noto come censura. Fino a oggi lo Stato valutava, attraverso il lavoro di apposite commissioni, i film presentati da produttori o distributori e poteva adottare una serie di provvedimenti che andavano dalla concessione diretta del nulla osta di proiezione al film fino alla richiesta di effettuare tagli più o meno sostanziosi, dall’interdizione per fasce di età fino al divieto assoluto di proiezione in pubblico. Quest’ultima misura nell’ultimo quarto di secolo è di fatto scomparsa e i casi di rifiuto del nulla osta sono stati solo due, il primo dei quali rientrato in appello.

Questo per quanto riguarda la proiezione a fini commerciali in sala, perché il discorso cambia se si parla di festival e rassegne (per cui non occorreva il nulla osta), riedizioni home video (per le quali gli aventi diritto potevano richiedere la riclassificazione della pellicola), passaggi televisivi (disciplinati secondo le regole e le consuetudini della programmazione tv). Primo luogo comune da rivedere quindi: la censura non era (non è) una macchina ottusa che bolla il film in maniera astratta, come opera d’arte data una volta per tutte, ma un insieme di pratiche che valuta un insieme di fattori legati alle situazioni di visione, alle finalità della proiezione e finanche alle condizioni materiali della pellicola. Piccola curiosità: quando i film erano distribuiti in copie in 35 e in 16 mm, rispettivamente nelle sale industriali e in quelle che oggi definiremmo di comunità (associazioni, parrocchie, etc.), i distributori erano tenuti a ottenere il nulla osta per ciascun formato. La censura fa impazzire il libero pensatore e gongolare il filologo.

Le buone intenzioni

Ma a che cosa serviva (serve) la revisione cinematografica? Il presupposto culturale che motiva l’esistenza di sistemi di revisione è che immagini come quelle del cinema e della tv abbiano effetti concreti sulla società e che possano quindi essere nocive per gli individui in via di formazione, offensive verso la sensibilità comune o di specifiche fasce di popolazione, destabilizzanti rispetto all’ordine sociale. Le istanze che stanno alla base della censura sono quindi molteplici: pedagogiche, religiose, ideologiche. La censura colpisce il film o il programma televisivo politicamente sgraditi, ma anche quelli ritenuti osceni ed eccessivamente violenti, il contenuto blasfemo, razzista e omofobo, ma anche il monologo in cui si rievoca il gusto perduto della carne di gatto. Ancora più che l’ufficio conta la funzione culturale, vale a dire quella di reprimere e abilitare al tempo stesso, regolare il flusso del visibile e del dicibile come entità determinate a livello storico e sociale. Secondo luogo comune da rivedere, quindi: se la revisione cinematografica era (è) un istituto giuridicamente definito, la censura dei contenuti è anche qualcosa di diffuso che investe la formazione dell’opinione pubblica, un discorso permanente a cui partecipano coloro che – in virtù di una data posizione o di un potere che deriva dal prestigio personale o dall’appartenenza a un gruppo di pressione – hanno voce in capitolo sulla produzione e circolazione di film, rappresentazioni teatrali, concerti del Primo maggio. È un discorso lastricato di buone intenzioni, perché nessuno, a parole, vuole censurare alcunché, ma tutti vogliamo prodotti migliori ed espressioni più piene. (E per questo siamo disposti a usare le forbici e la colla, se ciò rende il nostro discorso più diretto ed efficace, e a rovesciare il privato nel pubblico, nel nome della trasparenza dovuta alla collettività). Ecco perché la censura è sempre quella degli altri, ma quando tocca a noi – poco importa se parliamo come semplici cittadini, genitori, attivisti, burocrati – allora quello che stiamo chiedendo sono contenuti più adatti, rispetto di qualcosa, appendici che contestualizzano, chiarimenti ad usum Delphini.

Sistemi di revisione istituzionale dei prodotti culturali e dei film in particolare sono esistiti in ogni tempo e a ogni latitudine (quindi via velocemente anche il terzo luogo comune: l’esercizio della censura, in quanto tale, non qualifica i regimi autoritari e le dittature). Tuttavia si è creata storicamente una differenza di massima tra i sistemi europei continentali e quello statunitense. I primi sono basati su un controllo operato da organismi pubblici o comunque esterni, il secondo ha avuto come cardine l’auto-disciplina degli stessi produttori a partire da una serie di linee guida ampie e condivise, cristallizzate per la fase classica di Hollywood nel Motion Picture Production Code. Il Codice Hays, come è spesso chiamato, era responsabile secondo la vulgata di misure coercitive che influivano sul racconto, dalla durata dei baci alla messa in scena degli omicidi, dalla rappresentazione sobria di danze e balli alla ripresa proibita di letti matrimoniali. (Già che ci siamo, un quarto mito da smentire: il Codice Hays non contiene alcuna indicazione specifica rispetto alla necessità di avere letti separati per i coniugi, ma si limita a riportare che “The treatment of bedrooms must be governed by good taste and delicacy”. Come ha scritto Richard Maltby il divieto di mostrare sullo schermo letti matrimoniali in uso viene dalla coeva censura britannica, cui le case hollywoodiane si conformavano per non mettere a rischio l’esportazione dei loro film in un mercato lucroso).

Piccola storia della censura cinematografica italiana

Per quanto riguarda il nostro Paese, una cronologia degli interventi legislativi e dei casi celebri di censura può essere facilmente ricostruita grazie a due progetti promossi negli anni scorsi dall’attuale Ministero della Cultura, il sito di Italia Taglia e la mostra virtuale Cinecensura; l’atteggiamento della cultura cattolica è stato oggetto di un recente progetto di ricerca che ha raccolto e sistemato materiali preziosi. È una storia che ha più di un secolo ed è punteggiata da eventi o fasi cruciali. La revisione cinematografica nasce tra il 1913 e il 1914 per rispondere a un problema di ordine pubblico e infatti è inizialmente esercitata dai funzionari di polizia del Ministero degli Interni. Tra il 1934 e il 1935 la disciplina del cinema passa al Sottosegretariato di Stato per la Stampa e la Propaganda (poi Ministero della Cultura Popolare) e dal 1939 in avanti si ufficializza la revisione preventiva delle sceneggiature come condizione necessaria per ottenere il nulla osta alla produzione. Questo passaggio sarà caricato di un ulteriore e più sostanziale senso nel dopoguerra: l’insieme di provvedimenti legislativi e regolamenti interni emanati dal 1947 al 1949 farà sì che i produttori dovranno sottoporre soggetti e sceneggiature all’attenta lettura dei funzionari della Direzione Generale dello Spettacolo per accedere ai benefici di legge (programmazione obbligatoria nelle sale, ristorni erariali sugli incassi) e soprattutto ai vantaggiosi prestiti concessi dalla BNL, anch’essa controllata dallo Stato. 

La revisione preventiva ha fino all’inizio degli anni Sessanta una funzione ambigua e difficile da incasellare. Con l’obiettivo dichiarato di evitare ai produttori investimenti a rischio di valutazione negativa in sede di revisione del film finito, con conseguenze economiche disastrose nel caso in cui alla pellicola fosse negato il nulla osta alla proiezione, i funzionari consigliano, aggiustano e orientano trame sconce, episodi lesivi dell’onore nazionale, rappresentazioni politicamente tendenziose. In molti casi delicati la Direzione Generale agisce con un’abilità diplomatica fondata su letture sorprendentemente fini dei progetti presentati, facendo in modo che i film in un modo o nell’altro arrivino in sala. Talvolta reprime senza troppi convenevoli, e sarebbe miope non ricordare i tanti casi in cui la repressione ha la finalità trasparente di sopire il dissenso e limitare la libertà di espressione, anche e soprattutto nel cinema popolare di registi come Steno o Zampa. Nel 1962 una legge a lungo attesa modifica la composizione e il funzionamento delle commissioni di revisione, aumentando le possibilità di intervento dei rappresentanti della società civile, e introduce i due livelli di divieto fino a oggi in vigore (14 e 18 anni, in luogo del precedente divieto unico ai minori di 16 anni). Da lì in avanti non ci sono stati cambiamenti sostanziali fino al 2016, anno di promulgazione della legge 220, meglio nota con il nome del ministro che l’ha promossa. Ai sensi della legge Franceschini è stata istituita, e torniamo all’annuncio di queste settimane, una Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche composta da quarantanove membri che avrà il compito di verificare la congruità delle classificazioni proposte da produttori e distributori. 

Procedura e sostanza

Qualcuno si è chiesto se davvero Franceschini abbia abolito la censura nel cinema italiano; la risposta come al solito è: dipende. La riforma è epocale dal punto di vista procedurale, dato che introduce un principio di “responsabilizzazione degli operatori cinematografici in materia di classificazione del film prodotto“ e per la prima volta, se si escludono tentativi curiosi e poco conosciuti, sposta il sistema italiano verso l’autodisciplina: sono i titolari dei diritti a proporre una classificazione per fasce di età, che ricalca quella dei programmi tv, alla Commissione, che ne valuta la legittimità; è esclusa la possibilità che a un film sia negato il nulla osta di proiezione. Allo stesso tempo, però, il livello legislativo, come spesso capita nel nostro sistema, non fa altro che recepire un cambiamento già avvenuto altrove, nella cultura e nei comportamenti correnti. Come già detto, negli ultimi anni i casi controversi sono stati pochissimi ed è lontano il tempo delle polemiche feroci su Ultimo tango a Parigi e Salò. 

Resta poi il fantasma delle valutazioni del passato, che si ripresenta soprattutto in televisione. La normativa in vigore prevede infatti che i film vietati ai minori di 14 anni possano essere trasmessi solo in orari notturni, corredati dagli appositi avvertimenti acustici e bollini colorati che ben conosciamo, e che quelli vietati ai minori di 18 non possano passare in chiaro, a meno che non abbiano ottenuto una derubricazione del divieto, spesso in seguito a tagli più o meno estesi. Questo significa che molti film valutati nei decenni scorsi, secondo criteri oggi sorpassati, non possono essere trasmessi in televisione, perdendo quindi parte del loro valore culturale e commerciale, o che passano, ma in versioni assai distanti da quelle originarie. Infatti, come ha notato Alberto Pezzotta su FilmTV, anche le edizioni home video di classici del passato, per quanto ora di appannaggio quasi esclusivo del mercato collezionistico, riprendono spesso copie normalizzate per la distribuzione televisiva e non presentano versioni integrali e filologicamente corrette. Il problema non è semplice da risolvere, dal momento che un film che va in televisione si muove in un terreno scivoloso, tra lo statuto più o meno tutelato di opera dell’ingegno e dell’espressione e quello assai più prosaico di programma televisivo che si può comprimere nel tempo e nello spazio, aggiustandolo alle necessità della programmazione.
La censura come l’abbiamo conosciuta nel XX secolo insomma non c’è più, ma la funzione culturale e i fondamenti metagiuridici che l’hanno sostenuta rimangono vivi nei luoghi e nelle piattaforme attraverso cui i film arrivano a noi e acquistano valore. Lo stesso vale per la sua storia, anch’essa una commodity da valorizzare al meglio nei suoi tratti avvincenti. Per chiudere con un ultimo luogo comune, è opinione diffusa che la censura sia tra i responsabili della fine della stagione breve e coraggiosa del neorealismo italiano; i panni sporchi evocati da Giulio Andreotti a proposito di Umberto D. di De Sica sono diventati l’emblema di una fase storica e di un rapporto perverso tra politica e cinema. E come al solito c’è del vero. Il già citato cinecensura.com mostra per esempio la scheda di revisione preventiva di Ladri di biciclette, che riporta i “suggerimenti” dei funzionari della Direzione Generale dello Spettacolo e le risposte accomodanti del regista alle proposte di attenuazione di alcuni episodi, tra cui quello ambientato nella casa di tolleranza. Meno noto è il fatto che la Produzioni De Sica chiese con successo agli stessi funzionari responsabili della censura un intervento nei confronti della distribuzione del film (l’ENIC, di controllo pubblico, apparentemente poco fiduciosa nelle sorti commerciali del film), in modo da garantire una tenitura più lunga e vantaggiosa in prima e in seconda visione a Roma. In sintesi, il dispositivo che delimita i confini del visibile del film è lo stesso che, agito dalle stesse persone, fa sì che Ladri di biciclette stia in sala e compia efficacemente il suo percorso di merce, anche forzando il parere dei legittimi detentori dei suoi diritti di sfruttamento. Ma questa parte del fascicolo del film (CF 718, per la precisione) non è nella mostra virtuale. Dimenticanza, rimozione di un’informazione legittimamente ritenuta inessenziale o, forse, curioso caso di censura che censura la censura?

L’immagine di copertina è When the Towel Drops, Vol 1 | Italy, Radha May (Elisa Giardina Papa, Nupur Mathur, Bathsheba Okwenje), 2015-2019.  Fermo immagine dal video. Scena censurata di Silvana Pampanini da Sete D’Amore, Alfonso Corona Blake (1956). Per gentile concessione delle artiste e MiBACT.


Paolo Noto

Professore associato presso il Dipartimento delle Arti dell'Università di Bologna, dove insegna Analisi del film e Storia della critica cinematografica.

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