immagine di copertina per articolo Perché Roma è un film per la televisione
Cinema e tv

Perché Roma è un film per la televisione

Tra i premiati della serata degli Oscar, Roma di Cuarón è anche l’emblema di una nuova, inevitabile permeabilità tra cinema e televisione. Per la gioia di Netflix.

Padre padrone è un film dei fratelli Taviani del 1977. Cosa c’entra con il titolo e il tema di questo pezzo? Semplice: tra i primi film prodotti direttamente dalla Rai, realizzato con risorse limitate (a partire dal romanzo autobiografico di Gavino Ledda) per essere trasmesso come sceneggiato su Raidue, Padre padrone fu invece trascinato al Festival di Cannes del 1977. Il film vinse quell’edizione, suscitando qualche polemica per l’origine televisiva del lavoro e per il ruolo avuto nella scelta dal presidente della giuria, Roberto Rossellini. Questo per dare un’idea, restando sul familiare, di quanto sia nuovo e inedito il tema dei film prodotti dalla televisione, destinati alla televisione, dirottati con successo nei festival di prestigio e distribuiti anche in sala. (Tra l’altro, quanti curiosi elementi di somiglianza: autobiografia, marginalità, violenza patriarcale, ricorso ad attori non professionisti…).

Roma non è Padre padrone, è evidente. Il film di Alfonso Cuarón, Leone d’Oro all’ultimo Festival di Venezia e vincitore di tre statuette all’ultima edizione degli Oscar, sembra però suscitare presso cinefili e addetti ai lavori lo stesso sgomento per l’invasione di campo operata da un player televisivo nel tempio dell’arte cinematografica. Il fatto che poi Roma sia stato percepito da subito come un serio contendente agli Oscar 2019 non ha fatto che aumentare il valore simbolico dell’intera operazione. Netflix ha avuto chiara la posta in palio da subito, tanto da chiamare a curare la promozione del film, in vista delle votazioni dell’Academy, Lisa Taback, già collaboratrice della Miramax negli anni Novanta e specialista di Oscar-campaign (e anche qui, ci sarebbe da ragionare sulla continuità di politica editoriale tra la società del disgraziato Weinstein e la scintillante creatura di Reed Hastings nella gestione ottimale di prodotti arthouse dal budget medio, capaci di coniugare un moderato esotismo da world cinema e solide esigenze narrative e spettacolari).

Roma è frustrante perché non si capisce cosa succede, perché spesso non succede niente, perché gli accadimenti sono raggruppati in episodi la cui concatenazione è aleatoria. La scansione narrativa dispersiva è paradossalmente perfetta sia per un film d’arte sia per la televisione “senza qualità”. È il neorealismo di Umberto D. in cui però Anche i ricchi piangono, per dirla con una battuta.

Le ragioni di un panico estetico

Intensificato dagli Oscar, questa sorta di panico estetico nel caso di Roma fa leva su due questioni correlate. In primo luogo, molti osservatori ritengono che il film prodotto da Netflix sia stato distribuito secondo una modalità che ne ha limitato la disponibilità a poche, selezionate sale per periodi assai ridotti, così da rendere ancora più redditizia la presenza del film sul servizio on demand, e non in quello che dovrebbe essere il suo spazio naturale e rituale, vale a dire la sala cinematografica. L’idea che il film, in quanto tale e soprattutto in quanto opera d’arte, debba essere visto al cinema è facilmente criticabile come antistorica: sono anni che il piccolo schermo non è più tale e che l’espressione “tubo catodico” (così come quella “film”, ahimè) va intesa più come metafora che come metonimia. Ma soprattutto, come ha notato in modo brillante Kameron Austin Collins, le condizioni ottimali di visione del film – in sala, in silenzio, al buio, con efficienti impianti di proiezione e riproduzione del suono – sono da sempre l’eccezione e non la norma. Per dirla diversamente, lo schermo televisivo non ha più, ammesso che l’abbia mai avuta, la freddezza mcluhaniana che lo contrapponeva a quello cinematografico.

La questione della “rarità”, della “indisponibilità” in sala di Roma va poi valutata con un po’ di cautela, per provare a definire il limite tra realtà e strategia pubblicitaria, come spesso accade con le operazioni di Netflix. È vero che il film è stato distribuito con il contagocce perfino a Città del Messico, cioè dove è stato girato, ma questo è avvenuto a causa del mancato accordo con i circuiti locali di sale Cinemex e Cinépolis, dal momento che Netflix si è rifiutata di rispettare la finestra distributiva di tre mesi di norma riservata allo sfruttamento cinematografico. E, comunque, questa apparente mancanza è stata abilmente convertita da Netflix in una retorica della scarsità che ha consolidato l’aura di prestigio attorno al film. Per quanto riguarda il nostro Paese, poi, il film è uscito all’inizio di dicembre in 58 copie e al 15 febbraio è ancora disponibile in dieci sale, in città come Roma, Milano e Bologna, ma anche a Sondrio, Mantova, Ravenna e Carbonia-Iglesias. Si tratta di una tenitura notevole, in linea con la tipologia di prodotto. Quello che c’è di sicuro è che, almeno per quanto riguarda il mercato italiano, non è vero che l’Academy rischia di premiare un film che molte persone non hanno potuto vedere al cinema. Il problema, semmai, è che Netflix, in piena coerenza con le sue policy aziendali, non ha fornito dati sulle presenze e sugli incassi realizzati dal film e ha vincolato gli esercenti al massimo riserbo sulla questione.

Un secondo tema, forse più fondato, riguarda l’uso, secondo alcuni operatori improprio, degli snodi fondamentali della catena di creazione di valore del film, e in particolare dei festival. A Venezia come a Berlino gli esercenti europei si sono detti preoccupati del fatto che godessero dell’apparato promozionale e del passaparola generati da questi eventi film il cui valore di mercato viene invece sfruttato altrove. Gli strumenti di solito al servizio del prodotto cinematografico, questo è il timore, finiscono per portare vantaggi a un aggressivo concorrente, che, come si capisce anche dalla posizione tenuta rispetto a finestre di distribuzione e condivisione dei dati sulle presenze, non ha per il momento intenzione di attenersi al galateo in uso nel settore. Anche in questo caso, la preoccupazione è analoga: l’operatore televisivo, sia pure particolarissimo come Netflix, usa lo spazio reale e simbolico del cinema come la vetrina di un pop-up store e la categoria merceologica del film d’autore come un cavallo di Troia, un seducente meccanismo che permette agli achei over-the-top di penetrare la cittadella sempre meno fortificata del cinema, guadagnare in termini di prestigio e prosciugare il bacino di utenza del cinema d’essai.

Netflix usa lo spazio reale e simbolico del cinema come la vetrina di un pop-up store e la categoria merceologica del film d’autore come un cavallo di Troia, un seducente meccanismo che permette agli achei over-the-top di penetrare la cittadella sempre meno fortificata del cinema, guadagnare in termini di prestigio e prosciugare il bacino di utenza del cinema d’essai.

Un film a metà

In mezzo a tutte queste discussioni c’è un film che sembra fatto apposta per mettere in crisi le tradizionali suddivisioni di campo tra cinema e tv. Si potrebbe andare oltre la semplice constatazione dell’insussistenza di steccati produttivi e gerarchie di valore per sostenere, in modo nemmeno troppo provocatorio, che Roma è un film fatto anche e soprattutto avendo in mente la televisione, per almeno tre ordini di motivi, che hanno a che fare con la struttura del racconto, lo stile visivo e la rappresentazione del mezzo.

Partendo dal primo punto, il film di Cuarón ha parecchi elementi in comune con uno dei più tipici e reietti generi del racconto televisivo: la telenovela. Il racconto della vita e dei sogni della domestica Cleodegaria “Cleo” Gutiérrez (Yalitza Aparicio) in una famiglia benestante e disfunzionale di Città del Messico non ha niente di così complesso da richiedere l’attenta attività di scavo e interpretazione degli spettatori. Si compone invece di elementi stereotipati, azioni inconcludenti, dialoghi che sostituiscono le azioni, segreti inconfessati, premonizioni enfatizzate, epifanie improvvise, all’insegna della virtù punita e infine premiata. Come nelle telenovelas, appunto, e nei melodrammi popolari, il conflitto di classe è sempre presente, ma sullo sfondo, in una versione manichea che lo consegna più a stati dello Spirito che a fasi della Storia. Questa costruzione attorno a nuclei semantici facilmente riconoscibili, ma che per buona parte del film non sono compiutamente sviluppati in racconti, autorizza una fruizione lenta, quasi distratta: Roma è frustrante perché non si capisce cosa succede, perché spesso non succede niente, perché gli accadimenti sono raggruppati in episodi la cui concatenazione è aleatoria. La scansione narrativa dispersiva è paradossalmente perfetta sia per un film d’arte per come lo si intende abitualmente sia per la televisione “senza qualità”. È il neorealismo di Umberto D. in cui però Anche i ricchi piangono, per dirla con una battuta.

Anche lo stile visivo adottato dal regista tiene insieme i due mondi: la fotografia in bianco e nero e i lunghi movimenti di macchina eccitano l’occhio cinefilo, ma si rivelano al contempo curiosamente adatti alla fruizione tv. Cuarón, qui all’opera anche come direttore della fotografia, sceglie un’illuminazione high key, pulita, luminosa, con ricorso assai moderato al contrasto. Il paragone con un altro film protagonista agli Oscar, l’astuto Cold War di Paweł Pawlikowski, dove invece l’operazione nostalgia è condotta fino in fondo, con tanto di quadro in formato Academy e bianco e nero ultra contrastato, è indicativo dello sforzo attuato in Roma per ottenere immagini chiare ed eleganti insieme. L’impressione è rafforzata dal ricorso a movimenti di macchina stilizzati quanto leggibili. L’uso sistematico e finanche estenuante del carrello e, soprattutto, della panoramica laterale appare perfetto per la visione al cinema e perfetto per la visione tv: da un lato ricorda i vecchi pan and scan con cui il formato panoramico del cinema era tradotto in immagini per l’home video, dall’altro aggiunge una nota di innegabile cura formale al film. Per gli utenti più esperti sono in ogni caso disponibili le istruzioni per il settaggio del televisore al fine di avere una visione ottimale del film.

Infine, senza volerla buttare necessariamente sul metalinguistico, in Roma troviamo una decisa tematizzazione della televisione e, per contrasto, del cinema nel sistema di vita e valori dei personaggi rappresentati. Il cinema, soprattutto come luogo (sì, proprio la sala), è il luogo dell’inganno, della disgregazione, dell’utopia, della minaccia. Un pomeriggio libero inizialmente progettato per andare al cinema, e poi passato in una camera in affitto con l’infido Fermin, procura a Cleo la gravidanza indesiderata che segna il crescendo drammatico del film. È ancora al cinema che Firmin abbandona Cleo al suo destino. Fuori da una sala cinematografica i piccoli protagonisti rischiano di apprendere che il padre non è partito per il Québec come pensano, ma vive nella loro stessa città con un’altra donna. La televisione è invece associata alla famiglia, alla stabilità (per quanto precaria), all’ambiente domestico. L’unico momento in cui vediamo il nucleo familiare riunito e sereno è quando i protagonisti assistono divertiti al programma tv del gruppo comico Los Polivoces, mangiando fragole con la panna. Un bizzarro divo televisivo, il forzuto Profesor Zovek, anch’esso a quanto pare ricalcato su un personaggio realmente esistito, è il protagonista delle sequenza centrale del film, quella dell’addestramento paramilitare al campo sportivo, in cui, prima ancora che sia sottoposta alle prove che quasi la annienteranno nella seconda parte, capiamo che Cleo ha la forza e l’equilibrio per sopravvivere e far sopravvivere.

Televisione come serbatoio di modelli narrativi, come dispositivo di visione, come oggetto di rappresentazione: c’è tutto questo e c’è il rischio, confessabile solo in parte per la critica cinefila, di un cinema troppo televisivo, in cui l’autore scompare perché perde il controllo sul modo in cui il film può essere visto dal pubblico. “This is where the director’s symbolic agency ends and the producer’s agency begins”, ha scritto Belén Vidal. Ma ci si può chiedere se questa agency sia davvero mai esistita in termini assoluti e se, oggi come ieri, il ruolo dell’autore cinematografico sia quello del creatore e responsabile artistico o, piuttosto, quello di mediatore tra forme tradizionali e modelli produttivi innovativi, che si tratti dell’adozione del suono, del colore, dello schermo panoramico, dell’immagine digitale, o – come in questo caso – di sistemi inediti di circolazione del prodotto.


Paolo Noto

Professore associato presso il Dipartimento delle Arti dell'Università di Bologna, dove insegna Analisi del film e Storia della critica cinematografica.

Vedi tutti gli articoli di Paolo Noto

Restiamo in contatto!

Iscriviti alla newsletter di Link per restare aggiornato sulle nostre pubblicazioni e per ricevere contenuti esclusivi.