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Veleno: intervista a Pablo Trincia

Anche l’Italia ha finalmente il suo Serial, un podcast crime capace di avvincere un pubblico ampio e inatteso. È Veleno, su Repubblica.it, e il suo autore ce lo racconta.

“La sensazione è che sia andato molto bene, abbiamo avuto ottimi riscontri, feedback, email, un sacco di persone che l’hanno ascoltato e continuano ad ascoltarlo, che ci dicono che hanno scoperto un modo nuovo di fruire le storie, di fruire un prodotto giornalistico. È stata una scommessa vinta da un punto di vista del formato, ma lo sapevamo già, perché avendo visto l’esperienza degli Stati Uniti sapevamo che questa cosa aveva un potenziale. Ci siamo stupiti più che altro della velocità con cui è avvenuta la cosa. È il segno di una strada che si può percorrere”.

A parlare è Pablo Trincia, l’autore e la voce narrante di Veleno, un podcast crime, a metà tra inchiesta e racconto, lanciato a fine ottobre sul sito di Repubblica. Fatto inedito per l’Italia, Veleno ha suscitato un interesse e un coinvolgimento – sui social o anche solo al livello di chiacchiere tra amici e colleghi – che per un podcast non si era mai visto. La vicenda che racconta è inaudita: si tratta di un caso giudiziario di fine anni Novanta, con accuse di abusi sessuali e riti satanici, che coinvolse diverse famiglie della provincia di Modena (tra Massa Finalese e Mirandola). È descritto come un caso di contagio psicologico che condusse alla sottrazione da parte dei tribunali di un numero impressionante di bambini dalle loro famiglie d’origine. Una storia quindi con un quoziente emotivo fortissimo, che la squadra di Trincia (composta da Alessia Rafanelli, Gipo Gurrado, Marco Boarino e Debora Campanella) ha scelto di trattare con un approccio narrativo, con il tipo di effetto per chi ascolta da “orecchie incollate alle cuffie”, ma che pone anche questioni etiche rispetto al coinvolgimento dei protagonisti nel programma. Con Trincia abbiamo parlato di questo e di come il podcast sia al tempo stesso una novità e un’opportunità nel paesaggio italiano dei format.

Pablo, l’origine di Veleno è “voglio fare un podcast e quindi cerco una storia adatta” oppure è “ho una storia e il podcast è il formato migliore per raccontarla”?

L’origine è “voglio fare anch’io Serial, adesso trovo una storia”. Quando l’ho trovata, ho fatto la serie. L’idea è partita dal format, non dalla storia in sé. Poi questa storia ha avuto diverse vicissitudini, perché dopo aver trovato i video dei bambini degli incidenti probatori e delle audizioni protette, ho pensato di farci una docu-serie. La Rai inizialmente mi aveva detto di sì, ma dopo si è molto spaventata, non ho neanche capito se abbiano letto fino in fondo quello che avevamo mandato loro, ma diciamo che si sono molto spaventati. A quel punto è tornata l’idea del podcast.

“Voglio fare anch’io Serial, adesso trovo una storia. Quando l’ho trovata, ho fatto la serie. L’idea è partita dal format, non dalla storia in sé. Poi questa storia ha avuto diverse vicissitudini”.

Quanto tempo poi ci avete messo per convincere qualcuno a produrre il podcast?

Ci abbiamo messo un paio d’anni, poi abbiamo consultato Repubblica, che si è dimostrata interessata e a quel punto siamo andati avanti. Prima l’abbiamo proposta alle radio, anche a qualche casa editrice, ma erano tutti un po’ spaventati o dubbiosi, non so se del formato o della storia. Oggi alcuni ci stanno richiamando per richiedercela, ma dovevano pensarci prima…

Invece, facendo un passo indietro: come hai incontrato questa storia? La conoscevi già? Te la ricordavi? La cosa che mi ha colpito è che io che sono del ’75 e ho l’età per ricordarmela non penso di averla mai ascoltata o letta.

Non me la ricordavo neanch’io, è una storia rimasta sempre molto confinata nella regione dell’Emilia Romagna, nella provincia di Modena, addirittura non se la ricordano a Massa Finalese questa storia, e Massa Finalese è una frazione di 4 mila abitanti, molti ragazzi ci hanno scritto da lì dicendo: “Noi non ne sapevamo nulla, i nostri genitori non ce ne hanno mai parlato”. È nato tutto con una ricerca su Google. Abbiamo digitato delle parole chiave, non mi ricordo adesso quale fosse la ricerca, ma insomma “satanismo”… “abusi satanici”… “rituali”, queste cose qui e ci è apparsa la notizia di Lorena Covezzi che era stata appena assolta dopo 16 anni e che dal 1998 non vedeva i suoi 4 figli. E da lì l’ho chiamata e ho scoperto che erano coinvolti molti altri bambini. Più o meno in questo periodo, era il 2014, mi sono ritrovato a passare con lei una sera intera su Skype e lei mi tirava fuori bambini, storie, numeri. Ma è stato difficile, perché pochi conoscevano il quadro completo della storia. Per fortuna c’era stato questo prete, don Ettore, che aveva raccolto un gigantesco archivio e aveva tenuto uno zibaldone con appunti che ricostruivano tutta la storia dal principio.

Quanto tempo hai studiato prima di iniziare a scrivere?

La scrittura è arrivata proprio alla fine. Prima abbiamo raccolto tutto il materiale per tre anni. Tre anni diluiti perché nel frattempo ognuno di noi faceva il suo lavoro. Il processo di studio, di raccolta di informazioni, di ricerche, interviste, pedinamenti per rintracciare le persone è durato due anni, poi in ultimo ci siamo messi a scrivere, ma è stata una cosa che è arrivata proprio alla fine. Fino a quel momento non abbiamo scritto nulla. Ci siamo limitati a collocare mentalmente le cose all’interno di una serie di sette puntate, quindi “questo va all’inizio… questo alla fine… questo sta in mezzo…”.

Ma come funziona il processo di scrittura di un podcast? Che regole bisogna seguire? Che cosa c’è di diverso dallo scrivere per il video?

Non lo avevo mai fatto prima. Hai molta più libertà del video perché puoi raccontare molto di più. Il video ti limita perché o lo filmi o non lo racconti. Con l’audio puoi fare quello che vuoi, ma il processo di scrittura è molto più lento perché devi scrivere per una persona che non vede. Devi rendergli comprensibile un luogo, un contesto, dei nomi, dei personaggi… E soprattutto, in una storia come questa, in cui i personaggi erano così tanti e non c’erano veri protagonisti, è stato molto difficile il processo di selezione. Con tutto il materiale potevamo fare dieci puntate almeno. Abbiamo buttato chilometri di roba. Queste grandi storie si scrivono per sottrazione, è un lavoro di scelta… Secondo me è fondamentale quando scrivi una serie sapere come inizia e come vuoi che finisca. Io magari ho un metodo un po’ meno organizzato, che va un po’ più a istinto. La struttura di Veleno è ad albero, cioè le prime 4 puntate sono il tronco, una cronologia che parte dal 1997 e arriva fino alla storia di Lorena, dopodiché si abbandona la cronologia, si approfondisce il metodo e si va alle conclusioni. Fai conto che siamo professionisti che vengono dal mondo della tv, del teatro… però nessuno di noi aveva mai scritto una serie o aveva esperienza di sceneggiatura o di scrittura a questi livelli. Venivamo tutti dal reportage, dal racconto o dal pezzo per le Iene. Scrivere per l’audio è difficile perché devi tenere sempre alta l’attenzione e far capire di chi stai parlando. Se c’è un video, ti vedo una volta e associo il tuo volto a una voce e non ho bisogno di ripresentarlo, mentre se ascolto il tuo nome ho bisogno di ripeterlo.

Con tutti i nomi che ci sono in Veleno si rischiava di perdersi, è vero…

Qui ci ha facilitato la scuola delle Iene, perché sono un programma scritto per essere fondamentalmente semplice, quindi io ti spiego le cose come se fossi un bambino di 5 anni, parto dal presupposto che magari tu sia in casa, magari stai facendo la maglia e quindi non mi dai molta retta.

A proposito delle Iene, mi sembra che Veleno sia stato accolto molto positivamente, come una novità del panorama italiano. Le poche cose negative che mi è capitato di ascoltare o incontrare sui social sono legate forse a qualche critica sulla spettacolarizzazione del dolore o sulla drammatizzazione di vicende già drammatiche… anche il fatto di venire dalle Iene ti espone forse a questo tipo di obiezione.

Ti dico la verità, è la prima volta che sento questa cosa qui. La cosa che mi ha fatto molto piacere, poi magari mi sono perso qualche commento, è che tutti quelli che ho letto ci hanno detto “complimenti perché avete trattato un tema molto spinoso, molto delicato, in modo professionale, rispettoso”. L’unica critica che ho letto, ma poco, ti parlo di un paio di post, era sul tono delle mie interviste alla fine, quando andavo alla resa dei conti. In realtà mi aspettavo più critiche, e invece ho visto un grande coinvolgimento… Venendo al cuore della domanda, abbiamo cercato di creare un’esperienza più che un semplice podcast. Se ascolti Serial, è un prodotto molto diverso dal nostro, è più asciutto, più voce su bianco, meno musica, meno effetti, noi invece abbiamo voluto creare un’esperienza, un qualcosa che oltre a proporti tutta una serie di argomenti, ti proponesse anche un’esperienza, che ci fosse una sottotraccia sonora, un mood, un’emotività… abbiamo cercato di stare attenti, dove c’è sofferenza, ci siamo detti, non carichiamo. Però devo dire… per esempio, prendi l’intervista a Daniela della settima puntata, lì c’è una traccia di violoncello che accompagna il dramma di questa donna, sai lì è una questione di gusti e di sensibilità, magari a qualcuno dà fastidio e dice “perché me lo devi mettere?” e c’erano dei punti dove sceglievamo di non mettere niente, ma a me non mi è mai stato detto “avete spettacolarizzato”. È una storia e il nostro mestiere è quello di renderla il più coinvolgente possibile, altrimenti nessuno la ascolterebbe… credo però che la percezione generale sia stata quella di un prodotto comunque rispettoso anche nelle scelte di mood, di atmosfera, o di sound design, o di effetti.

È chiaro che Veleno lascia nell’ascoltatore un profondo senso di ingiustizia. Ora, premesso che non è compito tuo prevederlo, che fine ti auspichi per questa vicenda? Il tuo lavoro aveva l’obiettivo di produrre degli effetti nella realtà?

Questa è una storia che non ti lascia indifferente. Io auspico, proprio perché non siamo automi, che oltre a essere fatta chiarezza, e lo auspico come cittadino e non come giornalista, soprattutto mi piacerebbe, mi sarebbe piaciuto molto, che i ragazzi coinvolti ascoltassero questa serie e si facessero una loro idea, una loro opinione e magari decidessero di guardare questa storia con occhi nuovi.

Che però sono alla fine gli occhi vostri, da questo punto di vista c’è una questione etica…

Sì ma noi non siamo i genitori, siamo persone che hanno preso il caso, lo hanno analizzato, hanno scelto di andare avanti e lo hanno affrontato in maniera del tutto neutrale. Io non sono un amico di Lorena Covezzi, infatti quello che abbiamo detto a tutti i ragazzi quando li abbiamo avvicinati è stato: “Guarda che non ci mandano i tuoi genitori, ci manda la storia”, e la storia per come l’abbiamo studiata in maniera indipendente ha delle pecche. Quei video con quegli interrogatori e domande raccontano una storia che è oggettiva, non soggettiva.  È diventato un caso studiato da psicologi e psichiatri che hanno scritto libri su questo, e parlo di letteratura scientifica. C’è una realtà oggettiva che questi bambini non conoscono. Se ci fai caso, abbiamo utilizzato un linguaggio che è la domanda. Per tutta la serie ci facciamo in continuazione delle domande, è una domanda unica Veleno.

“La scrittura è arrivata proprio alla fine. Prima abbiamo raccolto tutto il materiale per tre anni. Il processo di studio, di raccolta di informazioni, di ricerche, interviste, pedinamenti per rintracciare le persone è durato due anni, solo allora ci siamo messi a scrivere”.

E tu hai notizie di effetti che l’ascolto di Veleno ha avuto su queste persone, o anche a livelli più istituzionali?

So che a breve ci sarà un’interrogazione parlamentare. Sugli effetti che ha avuto sui protagonisti per il momento non mi esprimo, perché tenderei a tenere protetto quello che li riguarda. È stato difficile, l’argomento, la scelta etica di andare a cercare questi bambini, per quello ti dicevo che mi aspettavo molte più critiche. Sono state fatte scelte che, giuste o sbagliate, sono coraggiose. Andare a cercare un ragazzo e sconvolgergli l’esistenza è una scelta che abbiamo fatto, ma l’abbiamo fatta perché abbiamo detto: loro hanno il diritto di vedere questa storia con occhi nuovi, che significa occhi di adulto, perché all’epoca gli occhi per vedere questa storia non li avevano. È una questione di scelte. Avresti potuto dirmi: “lo sai che sei stato stronzo a fare quello che hai fatto?” Ed era legittimo, perché è il rischio di tutto quello che fai nel momento in cui scegli di avvicinarti a una persona. Noi ci siamo posti mille volte la domanda: “cazzo, non è che stiamo traumatizzando una persona?”, però a un certo punto abbiamo detto: “perché non dare loro questa possibilità?” e ci siamo detti: “facciamolo per loro”. Io ho detto a tutti i ragazzi: “non c’è problema se non vuoi concedermi l’intervista, ma sappi che in qualsiasi momento della tua vita, oggi, domani, tra vent’anni, se tu volessi cercarne di capire di più, io sarò a tua disposizione per darti una mano e mostrarti tutto il materiale che abbiamo raccolto”. Se ti ha toccato come ascoltatore, pensa averci a che fare per tre anni, questa storia ti devasta. È stato brutto vedere i video, perché poi non li abbiamo fatti sentire tutti, c’erano cose allucinanti dentro. Tornavo dalla Bassa e a casa c’erano i miei figli, immagina le paure che mi sono venute, le paranoie totalmente ingiustificate.

Perché secondo te in Italia, fino a questo momento, il podcast narrativo ha fatto fatica ad affermarsi? Tu stesso mi ha detto che hai girato per radio, per case editrici… è un problema culturale?

La domanda te la rigiro io. Tolto il formato del podcast, quante inchieste sono fatte seguendo questo modello, che non è il modello Veleno, perché noi non abbiamo inventato nulla, ma un modello anglosassone, quello di dare voce alle persone, fare un fact-checking, dare voce al racconto e ricostruire il racconto in maniera approfondita. Quante volte l’hai visto, al di là del podcast? Credo che questo approccio manchi in generale, sui giornali, in editoria, nel documentario. Rispetto al podcast, fai conto che anche in America è nuovo, è nato con Serial, poi ora stanno nascendo un sacco di podcast di questo tipo che richiamano o si ispirano a Serial. Probabilmente a nessuno è mai venuto in mente di farlo, ma soprattutto da noi c’è la divisione: o inchiesta o racconto, ma l’inchiesta-racconto, chiamiamola così, non è mai stata considerata. Quest’esperienza abbiamo potuto farla perché veniva da noi e volevamo farla come dicevamo noi. Ci siamo presi il tempo di cui avevamo bisogno. Non avevamo nessuno che ci diceva: “tra un mese dev’essere consegnato tutto”. Quando siamo stati pronti, quando abbiamo avuto abbastanza materiale, siamo partiti. È venuto in questo modo perché abbiamo avuto tempo da dedicargli e perché ci abbiamo messo le nostre risorse: Veleno è stato autoprodotto. Non con cifre spaventose, ma lo abbiamo fatto perché volevamo fare qualcosa di bello. Non ti capita spesso in questo mestiere di fare una cosa come la vuoi tu al mille per mille. Nessuno ci è venuto a dire nulla.

Quindi Repubblica non è intervenuta sul lato editoriale?

Ovviamente mandavamo a Repubblica i contenuti, c’è stato uno scambio, ma loro sono stati molto rispettosi. Hanno detto: “a noi il vostro prodotto piace, ci piace come lo state facendo”, non ci hanno imposto una linea. Ci siamo presentati con una puntata già fatta e loro ci hanno detto di andare avanti.

Hai dei dati sugli ascolti?

I dati che ho io, ma non sono aggiornati, parlano di 200mila ascolti a puntata tra streaming e iTunes. Il grosso viene da iTunes, in streaming su Repubblica avevano fatto 200mila su tutte le sette puntate, ma è solo una frazione del numero complessivo, perché il grosso, credo il 90 o l’80%, viene da iTunes, molti lo sentono lì, in più ci sono tutte le app per ascoltare i podcast. Il numero esatto non è semplice da ricostruire, ma secondo me siamo oltre il milione, il milione e mezzo.


Cristiano de Majo

Scrittore, giornalista, editor a Rivista Studio.

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