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Ricostruire il museo con Minecraft

È possibile reinventare il mondo con un videogioco? Certamente. E perché non partire dal museo, un’istituzione che sta vivendo oggi una vera e propria rivoluzione?

Si tratta di raddoppiare (o sdoppiare) il museo: alla struttura architettonica di mattoni, si affianca un ambiente digitale fatto di blocchi digitali al cui interno è possibile organizzare iniziative ad hoc.

Non tutti sanno che Minecraft è il videogame di maggior successo commerciale di sempre dopo Tetris. L’innovativo gioco di costruzione ed esplorazione ideato dallo svedese Markus “Notch” Persson nel 2009 ha infatti venduto oltre 122 milioni di copie in poco più di un lustro e vanta oltre 55 milioni di utenti attivi. Minecraft consente agli utenti di costruire spazi, ambienti e strutture virtuali utilizzando infinite risorse, rappresentate sotto forma di cubetti. A differenza delle mega-produzioni per console e pc che inseguono il fotorealismo estremo, Minecraft emula l’estetica del Lego, al quale, non a caso, è spesso paragonato. Invece di manipolare componenti di plastica, gli utenti assemblano blocchi di pixel: non si vince, non si perde. Ciò che conta è l’esperienza.

Che Minecraft non sia un semplice passatempo ma un fenomeno sociale di rilevanza planetaria è noto: è stato oggetto di numerosi documentari, studi accademici e omaggi su YouTube, per tacere degli esperimenti transmediali, tra cui i romanzi di Max Brooks (l’autore di World War Z) e le collaborazioni con le Nazioni Unite. Aldilà del mercato e del disimpegno, ciò che lascia di stucco è la sua straordinaria popolarità nel contesto didattico, anch’essa tutt’altro che recente. Risale infatti al 2011 la creazione di MinecraftEdu, un’organizzazione che ne promuove l’utilizzo nelle scuole. L’interesse per il potenziale pedagogico di Minecraft è cresciuto con il passare degli anni ed è sfociato in Minecraft: Education Edition (2016), una versione ad hoc sviluppata grazie ai suggerimenti di oltre cinquantamila studenti e docenti sparsi per il mondo.

Oltre al contesto scolastico, da qualche anno Minecraft è diventata una presenza fissa nei più importanti musei internazionali, dove è utilizzato per iniziative che spaziano dalla formazione al marketing gamificato. Per quanto eclettiche, le applicazioni di Minecraft nei contesti museali sono riconducibili a tre approcci fondamentali che, lungi dall’escludersi, si prestano a efficaci integrazioni. Vediamoli brevemente.

Traduzione

Questa strategia prevede la replica dell’istituzione museale “di mattoni” attraverso Minecraft. Detto altrimenti, si tratta di raddoppiare (o sdoppiare) il contenitore: alla struttura architettonica materiale, si affianca la sua copia digitale, visitabile in forma elettronica. In concreto, l’approccio prevede la creazione di una mappa offline, scaricabile e installabile dagli utenti di Minecraft, o di uno spazio persistente e accessibile online che risiede su un server. Gli esempi non mancano. Talvolta includono l’intera città che ospita il museo, come nel caso di Blockthon, replica di Stoccolma creata con il centro svedese per l’Architettura e il Design. Progetti meno ambiziosi, ma non per questo meno interessanti, includono la riproduzione virtuale dell’Istituto Olandese del Suono e della Visione realizzato da Hay Kranen nel 2014, con risultati piuttosto convincenti, nonché la replica del George Eastman Museum di Rochester, New York, o la riproduzione di alcune gallerie del Bristol Museum of Art. Per una volta, l’Italia non sta a guardare: nel maggio 2017, il Museo Novecento di Firenze è stato interamente ricreato in Minecraft grazie agli sforzi di Marco Vigelini che ha coordinato il progetto in collaborazione con i digital producer Adam Clarke, in arte Wizard Keen e Stephen Reid.

Nella maggior parte dei casi, queste iniziative non prevedono alcuna retribuzione e sono intraprese volontariamente dagli appassionati di Minecraft in forza al museo. In altri, il finanziamento è interamente sostenuto da sponsor esterni. In altri casi ancora, il processo di (ri)costruzione è esternalizzato attraverso la formula del crowdsourcing: si consideri l’interessante esperimento del British Museum nel 2014, tuttora in corso, aperta a un pubblico globale.

Si noti che il modello della traduzione ha un illustre precursore: Second Life che, nel decennio scorso, ha goduto di quindici minuti di popolarità. Non solo musei, ma brand di varia fama e grandezza, hanno costruito loro avamposti nel mondo virtuale di Linden Lab, per poi abbandonarlo frettolosamente quando si sono accorti che i ritorni di investimento erano pari a zero. Corsi e ricorsi? No, perché in termini di target, interfaccia e successo commerciale, Minecraft e Second Life non potrebbero essere più diversi.

Sviluppo

Un secondo approccio prevede l’utilizzo di Minecraft nei workshop e nei laboratori del programma formativo (educational) offerto dal museo. Spesso prevede iniziative pedagogiche incentrate sul tema del design digitale, per esempio “Come si costruiscono gli spazi videoludici?”, “Come si ammobilia un mondo virtuale?”, “Quali sono le leggi fisiche che regolano l’universo di Minecraft?”, “Cosa significa creare una mostra all’interno di un videogioco?”, e così via. Detto altrimenti, non si tratta di creare un museo-bis ma di utilizzare Minecraft come piattaforma per esercitazioni coordinate dai cosiddetti Minecraft Mentor, come il britannico Adam Clarke, che ha curato progetti molto interessanti per numerose istituzioni museali o Barry Joseph, direttore associato per l’apprendimento digitale in forza all’American Museum of Natural History e autore di un lungo articolo per il seguitissimo blog di Henry Jenkins intitolato “Minecraft and the Future of Transmedia Learning”.

Uno degli esempi più interessanti è la ricostruzione del devastante incendio che ha distrutto interi distretti londinesi nel 1666, proposta nel 2016 dal Museum of London. Lo sviluppo degli spazi tridimensionali (tre mappe distinte che “fotografano” la situazione prima, durante e dopo la catastrofe) è stato realizzato da un team esterno all’istituzione museale: il digital producer Adam Clarke, il game designer Dragnoz e i mapbuilders Blockworks. In questo caso, l’istituzione britannica ha interamente finanziato l’operazione. Non meno ambizioso è il progetto dell’Auckland War Memorial Museum (AWMM), che nel 2014 ha coinvolto studenti e appassionati di Minecraft per ricreare la battaglia di Gallipoli del 1915. Sviluppata nell’ambito dell’Education Program dell’AWMM, questa iniziativa ha riscosso un grande successo al punto da essere successivamente trasformata in una mostra “fisica”. In questo caso, i curatori hanno sfruttato anche la realtà virtuale per aggiungere un ulteriore strato di ricorsività: un progetto nato in un videogioco è diventato un’esibizione a tutti gli effetti che sfrutta anche Oculus Rift. Le mappe di Minecraft sono state sviluppate da trentacinque studenti di un college locale, sotto la supervisione di tutor, coach e animatori (ci sono oltre trentamila educatori registrati sul sito della community di Minecraft). Il Royal Albert Memorial Museum & Art Gallery (RAMM) di Exeter, nel Regno Unito, ha commissionato al solito Clarke e agli “operai” digitali Blockworks quattro ricostruzioni virtuali della cittadina britannica del Diciottesimo secolo. La distribuzione della prima mappa ha coinciso con una giornata intera di workshop, attività e sessioni videoludiche. Il museo ha fatto registrare il tutto esaurito.

Da parte sua, il Metropolitan Museum usa da tempi non sospetti Minecraft come piattaforma di sperimentazione, divulgazione e outreach per il pubblico più giovane attraverso il progetto /Metcraft, coordinato dai due dipartimenti del MET: Education e MediaLab, branche digitali della celebre istituzione newyorkese. Applicando il modello della Traduzione, sono state riprodotte in Minecraft alcune gallerie del museo per poi impostare quest come “Saturday Antiquity Adventure”. In questo caso, gli studenti identificano gli artefatti romani e greci presenti nelle gallerie del museo fisico, li riproducono in digitale con Minecraft, e poi si mettono in cerca di oggetti virtuali disseminati negli ambienti elettronici. Così facendo, si crea un loop virtuoso tra il museo “materiale” e quello “immateriale” che ridefinisce le modalità di fruizione e la nozione stessa di “visita”. Un altro esempio è FoodCraft, espansione digitale di una mostra sul cibo organizzata dall’American Museum of Natural History di New York nel 2013, Our Global Kitchen.

Inoltre, numerosi musei utilizzano Minecraft per riprodurre quadri e sculture con l’obiettivo di avvicinare i più giovani all’arte. Il caso più eclatante è Tate Worlds, un progetto della Tate londinese che prevede la trasformazione di dipinti celebri in ambienti tridimensionali di Minecraft esplorabili dagli utenti. A tutt’oggi ne sono stati prodotti tre, basati sulle opere di André Derain, Christopher Nevinson e Peter Blake. Altri tre sono in stato di produzione: Surreal-craft (ispirato ai lavori di Giorgio De Chirico, Salvador Dalì e René Magritte), John Singer Sargent e John Martin. Realizzati in collaborazione con l’onnipresente Adam Clarke – che nel 2014 si è aggiudicato il premio di 70.000 sterline messo in palio dal museo grazie al progetto TateCraft – i Tate Worlds sono accessibili in rete a costo zero. Un’analoga iniziativa è la riproduzione dei dipinti del Canaletto in Minecraft commissionata dal Memphis Brooks Museum of Art di Memphis, nel Tennessee.

Va da sé che il successo di queste iniziative è legato anche (o soprattutto?) all’efficacia della loro documentazione e divulgazione attraverso video, gallerie di immagini, comunicati stampa eccetera, un aspetto fondamentale, eppure solitamente trascurato dalla maggior parte dei musei italiani, la cui comunicazione digitale lascia molto a desiderare: un post su Facebook, un tweet con hashtag e poco altro… Il pietoso stato di arretratezza tecnologica dei musei italiani riflette la tragica inadeguatezza della cultura digitale del Belpaese.

Gli studenti identificano gli artefatti romani e greci presenti nelle gallerie del museo fisico, li riproducono in digitale con Minecraft, e poi si mettono in cerca di oggetti virtuali disseminati negli ambienti elettronici. Così facendo, si crea un loop virtuoso tra il museo “materiale” e quello “immateriale” che ridefinisce le modalità di fruizione e la nozione stessa di “visita”.

Promozione

Numerose istituzioni ricorrono infine a Minecraft per finalità essenzialmente promozionali, sfruttando Minecraft per coinvolgere il pubblico attraverso eventi a tema. In questo caso, l’obiettivo è costruire ponti con i visitatori più giovani, usare i media digitali per scopi didattici nonché utilizzare l’escamotage ludico come strumento di marketing, applicando le logiche della gamification o ludicizzazione. Qui Minecraft non è usato come strumento per sdoppiare il museo (Traduzione), né per creare iniziative collaterali (Sviluppo): è semmai un cavallo di Troia, un catalizzatore, un magnete per attrarre bambini e curiosi. Gli esempi sono numerosi: nel 2014, il Museo Nazionale scozzese lo ha proposto al pubblico nell’ambito della mostra Game Masters per celebrare il talento creativo dei game designer, mentre il V&A Museum di Londra utilizza Minecraft dal 2013 per coinvolgere gli studenti delle scuole elementari e medie. Solitamente gratuiti, questi eventi – per esempio Digital Kids – sono curati dal reparto Digital in collaborazione con la divisione Education. Un altro esempio sono gli appuntamenti  “Minecraft al Museo” organizzati dal MOTI, lo Stedelijk Museum di Breda, in Olanda. Il Museo di Scienza e Cultura di Harvard invita i bambini a esplorare i “veri minerali” che hanno incontrato in Minecraft attraverso visite guidate alle sue collezioni.

Il museo si configura dunque come alternativa o integrazione alla scuola in quanto tale: i workshop su Minecraft si aggiungono alle iniziative esistenti che prevedono corsi di programmazione (Scratch), game design (GameMaker), stampa tridimensionale, animazione digitale eccetera. Rispetto a tecnologie quali la realtà aumentata – per il momento offerta solo da un numero ridotto di aziende a costi spesso proibitivi – Minecraft rappresenta una soluzione ideale per tutte quelle istituzioni museali che vogliono sperimentare con una piattaforma a basso costo, amata dai giovani, sviluppata appositamente per un consumo creativo, non violento e fortemente collaborativo. Si potrebbero benissimo estendere ai musei progetti come la Minecraft Hour of Code Designer, organizzata da Microsoft in collaborazione con Code.org dal 5 all’11 dicembre scorso in venti scuole italiane per permettere agli studenti di imparare in forma ludica i rudimenti della programmazione.

Il crescente interesse per Minecraft da parte delle scuole è tutt’altro che insolito: dopo tutto, c’è un fil rouge che lo unisce a Friedrich Fröbel, l’inventore dell’asilo moderno, e a Maria Montessori, l’educatrice italiana che ha rivoluzionato la didattica grazie a giochi logici e d’ingegno. Non a caso, nell’ultimo lustro, l’integrazione di Minecraft all’interno dei curricula scolastici è stata sollecitata da numerosi studiosi ed educatori, come Mizuko Ito, autrice di uno dei libri più importanti sulla storia degli educational games e co-fondatrice insieme a Katie Salen di Connected Camps, una sorta di associazione dei Boy & Girl Scout per appassionati di Minecraft. Come ha osservato Clive Thompson sul New York Times, Minecraft non è tanto un gioco, quanto “una destinazione, uno strumento, una scelta culturale o forse tutte e tre queste cose messe insieme”. Laddove la maggior parte dei videogiochi esistenti invitano gli utenti a distruggere interi mondi, Minecraft chiede ai suoi utenti di creare spazi alternativi, blocco per blocco. Laddove il videogioco commerciale è spesso nichilista e competitivo, Minecraft è costruttivo (letteralmente!) e cooperativo.

Oggi che Lego è diventato un banale strumento di co-marketing dell’industria del cinema – come attesta la proliferazione di set ispirati a decine di blockbuster hollywoodiani, da Star Wars a Harry Potter – non stupisce l’appeal di Minecraft su una generazione che usa il digitale per sperimentare, creare e reinventare la realtà, anziché riprodurre pedissequamente la logica capitalista che la sottende. Curiosamente, gli usi più interessanti di Minecraft sono stati “previsti” con quasi quindici anni di anticipo da un canadese illuminato. No, non Marshall McLuhan, ma il suo discepolo Douglas Coupland, che nel romanzo Microservi (1995) ha descritto il successo planetario di un rivoluzionario software in grado visualizzare oggetti blocchettosi sullo schermo – ebbene sì, una sorta di “Lego” digitale – sviluppato da un gruppo di esuli di Microsoft. Ironicamente, a) Minecraft è oggi uno degli asset più popolari dell’azienda fondata da Gates, che nel 2014 ha acquistato lo studio di Persson, Mojang, per la modica somma di 2,5 miliardi di dollari; b) Coupland, artista a tempo pieno con il vizio della penna, qualche anno fa ha realizzato una serie di sculture di Lego ispirate a Minecraft.  

Ultimo, ma non meno importante, Minecraft ha profondamente trasformato la percezione sociale e culturale del videogame in quanto tale, grazie a una robusta comunità di appassionati che producono mod, mappe, fan fiction, video, illustrazioni e altro ancora. Un’impresa ammirevole nell’era dell’ultraviolenza digitale, dell’istupidimento collettivo prodotto dagli smartphone e della distrazione imposta dal multitasking coatto. La sua presenza all’interno dei musei non è solo meritata – e il MoMa di New York, che di videogiochi se ne intende, lo ha capito benissimo – ma incoraggiante.


Matteo Bittanti

Artista, curatore e accademico, investiga gli aspetti culturali, sociali ed estetici delle tecnologie emergenti, interessandosi soprattutto del rapporto tra arte e videogame. Insegna media studies e game studies all'Università IULM. Vive tra Milano e San Francisco.

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