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Estetica videoludica

Cervi, birilli e piattaforme

Le operazioni artistiche dentro i videogame, come quelle autogiocanti di Brent Watanabe e Cory Arcangel, e quello che ci rivelano della società in cui viviamo.

Un cervo attraversa la metropoli californiana di San Andreas, facendo lo slalom tra automobili e pedoni. Questa scena genera il medesimo effetto di dissonanza cognitiva prodotto dal fugace incontro tra il killer e il coyote di Collateral (Michael Mann, 2004). Ma in questo caso parliamo di videogiochi anziché di cinema, di simulazione anziché di rappresentazione. Non a caso, San Andreas è uno spazio insieme atipico e utopico, il classico luogo-che-non-c’è: si tratta, infatti, della traslitterazione virtuale di Los Angeles, teatro delle azioni efferate di Grand Theft Auto V. Ma nel bestseller di Rockstar Games non troverete cervi né tantomeno coyote. L’animale è stato appositamente creato dall’artista americano Brent Watanabe modificando il codice della versione per pc. Watanabe ha poi documentato in forma audiovisiva i movimenti del quadrupede negli ambienti urbani. Il risultato è San Andreas Streaming Deer Cam (2016), uno stream video in diretta fruibile in rete ventiquattro ore su ventiquattro. Watanabe ha sostituito al protagonista – lo stereotipo del gangster – un cervo digitale, delegando agli algoritmi il compito di gestire il suo comportamento all’interno della fittizia metropoli. Detto altrimenti, nessun essere umano controlla le azioni dell’animale: la creatura attraversa l’enorme area simulata – oltre cento miglia di strade, quartieri residenziali, edifici – in modo del tutto autonomo. Le sue imprese sono trasmesse in diretta anche su un canale di Twitch da una macchina da presa virtuale predisposta dallo stesso Watanabe. Introdotta nel marzo 2016, questa finestra aperta sul mondo di Grand Theft Auto V ha registrato centinaia di ore-uomo di imprese bestiali, tra cui un colossale ingorgo stradale, brutali sparatorie tra gang, nonché inseguimenti automobilistici modello Fast & Furious.

Watanabe non è il primo artista ad aver prodotto installazioni videoludiche auto-giocanti. In questo ambito, il fuoriclasse è Cory Arcangel. Da qualche anno a questa parte, l’autore di Super Mario Clouds (2002) si dedica alla creazione di videogame automatici nei quali console obsolete giocano contro se stesse, perdendo sistematicamente. È il caso di Self Playing Sony Playstation I Bowling (2008), un controller modificato per la console Sony che simula una partita a bowling, senza mai colpire un singolo birillo. Analogamente, in Various Self Playing Bowling Games (2011), differenti controller modificati giocano da soli, fallendo inesorabilmente. Presentata al Whitney Museum of Art di New York e al Barbican di Londra nel 2011, quest’opera celebra l’insuccesso sistematico, il flop dell’intelligenza artificiale, il collasso della simulazione. Analogamente, in Self Playing Nintendo 64 NBA Courtside 2 (2011), Arcangel ha modificato il controller di Nintendo 64 per “costringerlo” a giocare – fallendo in modo persistente – alla simulazione di pallacanestro NBA Courtside 2. Detto altrimenti, i recenti game mods di Arcangel sono deliberati sabotaggi videoludici. Al pari di Watanabe, Arcangel “castra” il videogame, eliminando l’elemento interattivo e trasformandolo dunque in mero game video, ossia in un gioco visivo. Come ha dichiarato l’artista in un breve documentario prodotto dal Whitney Museum of Art nel 2011, “Nel momento in cui il videogioco diventa cinema, assistiamo a fenomeni affascinanti, inaspettati”.

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San Andreas Streaming Deer Cam

Le opere di Watanabe e Arcangel sono riconducibili al più ampio genere dei videogiochi auto-giocanti, simulazioni elettroniche di natura giocosa che prescindono dall’utente umano e che potremmo pertanto definire post-umane. Assai popolari nel contesto dell’informatica e dell’ingegneria elettronica, queste simulazioni assegnano alla macchina il compito di performare in vece del giocatore in carne e ossa attraverso routine di intelligenza artificiale. Si pensi al celebre programma di Seth Bling, MarI/O (2015), nel quale algoritmi e network neurali giocano incessantemente a Super Mario World. Autentica rockstar di Twitch, Bling ha documentato innumerevoli performance macchiniche su YouTube. A sua volta, MarI/0 è riconducibile alla celebre Mario AI Championship, una competizione inaugurata nel 2010, in cui i più talentuosi esperti di intelligenza artificiale del mondo competono tra di loro per creare algoritmi in grado di completare Super Mario World (e, nelle successive iterazioni, altri videogiochi) nel minor tempo possibile, speedrun-style.

La domanda sorge spontanea: per quale ragione un individuo dovrebbe affidare alla macchina, il piacere/dovere di giocare al suo posto? Perché farsi sostituire da un algoritmo per svolgere pratiche teoricamente piacevoli? Per sciogliere l’apparente paradosso è utile richiamare il concetto di interpassività formulato dal filosofo Robert Pfaller (2003). Originariamente concepita nel contesto della critica d’arte per illustrare la differenza tra artefatti inerti e artefatti la cui fruizione richiede la partecipazione attiva dell’osservatore, la nozione di interpassività si applica perfettamente al videogame. Pfeller la definisce in questi termini: “L’interpassività è una ‘passività’ delegata – nel senso di piacere delegato o consumo delegato. Un individuo interpassivo desidera delegare il proprio godimento o consumo. E i media interpassivi sono gli agenti – macchine, gente, animali etc. – ai quali il soggetto interpassivo può delegare il proprio godimento”.

“Nel momento in cui il videogioco diventa cinema, assistiamo a fenomeni affascinanti, inaspettati”.

Nel seminale saggio “Little Gestures of Disappearances. Interpassivity and the Theory of Ritual”, Pfaller presenta numerosi esempi. In questa sede, ne cito due:

Esistono individui che usano il loro videoregistratore in modo interpassivo: delegano alla macchina il compito di guardare un programma interessante per loro, programmandolo per la registrazione. Questo gesto li rilassa, permettendo loro di uscire di casa e incontrare degli amici, mentre la macchina registra diligentemente il programma. Una volta rientrati a casa, verificano che tutto è stato registrato e, con grande soddisfazione, ripongono la cassetta sullo scaffale senza mai consumarla. È come se la macchina avesse guardato il programma al loro posto, in forma vicaria (§ 12).
È noto il comportamento di alcuni intellettuali nelle biblioteche: dopo aver scoperto un libro interessante, raggiungono di gran fretta la macchina fotocopiatrice, copiano un centinaio di pagine e quindi lo ripongono sullo scaffale con un grande senso di soddisfazione – come se la macchina avesse letto il testo al loro posto. L’aspetto cruciale in questo caso di comportamento interpassivo è la figuratività del gesto: l’intellettuale, spesso senza saperlo, agisce come se fosse egli stesso la macchina Xerox che legge il testo. Letteralmente, egli performa l’atto della lettura attraverso la macchina (§ 14, corsivo aggiunto, in originale “play reading by means of the machine”).

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In altre parole, l’interpassività prevede la proiezione del sé su oggetti, persone e soprattutto dispositivi, gadget e gingilli. È proprio a questi che un individuo delega il compito di acquisire informazioni e performare, consumare e godere in sua vece. Nel contesto ludo-digitale, questo fenomeno ha raggiunto un livello parossistico, per cui gli avatar che ci rappresentano online performano, consumano e godono per noi. La cosa non deve sorprenderci: oggi memorizziamo sugli hard drive gigabyte di informazioni che non avremo il tempo di consumare, registriamo annate di serie tv che non vedremo mai, scarichiamo discografie che non ascolteremo mai, come ha spiegato il critico musicale Simon Reynolds nell’indispensabile saggio Retromania. In altre parole, l’interpassività esprime il significato perverso dell’interattività nonché tutti i limiti della pseudo-partecipazione professata dai fondamentalisti tecno-neoliberisti di Wired.

Le opere di Watanabe e Arcangel, pertanto, hanno colto la Zeitgeist: nel momento in cui gli esseri umani sono diventati del tutto superflui nella macchina capitalistica – non a caso, la loro sostituzione da parte di algoritmi, bot e robot è in corso ormai da un lustro – i videogiochi sono diventati giochi video per macchine senzienti. Per assistere in diretta al game over dell’umanità, basta visitare Twitch.


Matteo Bittanti

Artista, curatore e accademico, investiga gli aspetti culturali, sociali ed estetici delle tecnologie emergenti, interessandosi soprattutto del rapporto tra arte e videogame. Insegna media studies e game studies all'Università IULM. Vive tra Milano e San Francisco.

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