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Vie di fuga dal Novecento. I casi Disney e Warner Bros. Discovery

L’affermazione del modello distributivo delle piattaforme sta introducendo tensioni e discontinuità nei comportamenti e nei paradigmi di business dei soggetti editoriali prima dominanti. A partire dai gruppi più importanti.

Le piattaforme sono degli outlet, luoghi dove domanda e offerta si incontrano. Vi avvengono interazioni, scambi, transazioni. In un mondo come quello dell’intrattenimento audiovisivo, governato fin dagli anni Dieci del Novecento dagli intermediari (esercenti, distributori, broadcaster, aggregatori via cavo e via satellite), il modello-piattaforma ha dischiuso ai produttori la possibilità di avere un rapporto diretto con il pubblico. Certo, anche in questo nuovo mondo esistono intermediari, di nuova generazione: soggetti che si sono posti come tramite imprescindibile tra produttore e consumatore. Netflix e Amazon sono esempi lampanti. Ma i content provider che lo desiderano possono provare a fare a meno della mediazione: e qui vengono subito in mente Disney e Warner, con le rispettive piattaforme on demand.

Questa rivoluzione è stata inizialmente salutata come liberatoria. I content provider potevano (possono) avere finalmente uno “sbocco al mare”, stabilendo una relazione end-to-end con il proprio cliente (direct-to-consumer è il nuovo mantra…). Una relazione non-mediata che porta in dote anche la possibilità di conoscere meglio i consumatori, di registrarne i dati, di raccogliere informazioni, di costruire una customer base proprietaria che ha il valore di un vero asset aziendale. Tuttavia, ci sono anche delle difficoltà. I content provider stanno sperimentando che non si può operare questo passaggio senza mettere in crisi il loro business storico. Non è facile abbracciare il nuovo modello senza rinunciare ai benefici del vecchio. Gli intermediari tradizionali avevano costruito formidabili rendite di posizione sulla loro posizione intermedia. Ma l’avevano anche pagata profumatamente tanto che, per i content provider, il modello intermediato era magari molto vincolante, ma pure molto redditizio. Disney, per esempio, traeva una bella fetta dei suoi ricavi e dei relativi margini dalla vendita delle licenze di sfruttamento televisivo (free e pay), sia dei singoli contenuti – film e serie – sia dei canali da essa confezionati con tale materia prima (come Disney Channel). La major non aveva un rapporto diretto con gli spettatori dei suoi film e serie (se non quando si presentavano al cancello dei propri parchi), ma riscuoteva license fee considerevoli dai soggetti che gestivano questa relazione. Una filiera così articolata aveva dunque sia svantaggi sia vantaggi: non permetteva la relazione diretta produttore-consumatore, esponendo il primo anche agli arbitri e ai possibili abusi di potere negoziale da parte dei distributori-packager, ma garantiva significativi ritorni economici perché la concorrenza degli outlet distributivi free e pay teneva il mercato in una condizione di perpetua effervescenza e faceva del contenuto premium una merce contesa.

La piattaformizzazione del mercato dell’intrattenimento ha generato mutamenti non solo nei posizionamenti dei soggetti lungo la filiera e nei modelli di business, ma anche nel modo di concepire, realizzare e distribuire i prodotti.

Temendo che alla lunga gli svantaggi sopravanzassero i vantaggi, soprattutto alla luce dell’affermazione dei modelli Svod e alla straordinaria concentrazione di potere nelle mani di pochi servizi, Disney ha deciso qualche anno fa di cambiare direzione e aprire un proprio outlet distributivo diretto. E lo ha fatto con convinzione. Più morbido e accorto, invece, è stato il percorso di Warner e Paramount (e ancor più timido quello di Universal). La differenza nei modi di affrontare il cambiamento che riscontriamo tra i vari gruppi rende ragione non tanto di una diversa visione strategica (nel lungo periodo, credo che tutti i player più forti si orienteranno su forme dirette), quanto di un diverso modo di gestire la transizione. Disney ha avuto, perlomeno in un primo tempo, un approccio radicale al direct-to-consumer. Ha convogliato tutto il suo prodotto sulla piattaforma di casa, a cui ha garantito completezza di approvvigionamento ed esclusive. Questo però ha causato il rapido deterioramento dei rapporti con gli intermediari più forti che fino ad allora erano stati il vero partner-in-business di Disney: i grandi aggregatori televisivi via cavo e satellite (Sky in Italia). E così oggi i canali di Disney non si trovano più su Sky e anche i prodotti sfusi, film e serie, iniziano a scarseggiare. Tutto ciò ha sicuramente avuto un impatto positivo sulla crescita degli abbonamenti alla piattaforma; ma di contro ha avuto una ricaduta negativa sui ricavi, causandone una drammatica riduzione perché le licenze pagate da tali intermediari erano assai ghiotte. La tensione che questo passaggio traumatico ha portato sui conti della società è stata la prima causa delle defenestrazione del suo Ceo Bob Chapek e del ritorno al comando del vecchio Ceo Bob Iger, fautore di una transizione più graduale e accorta. Warner Bros. Discovery ha invece deciso di adottare da subito un approccio graduale, gestendo con attenzione la compresenza delle nuove modalità con le tradizionali relazioni di business. Sintomatica la decisione di non lanciare la piattaforma Max nei Paesi in cui c’è Sky o ci sono altri aggregatori con una posizione di rilievo sul mercato.

Come cambia il contenuto?

La piattaformizzazione del mercato dell’intrattenimento ha generato mutamenti non solo nei posizionamenti dei soggetti lungo la filiera e nei modelli di business, ma anche nel modo di concepire, realizzare e distribuire i prodotti. Vent’anni fa la pianificazione delle uscite di Disney era guidata dalla consapevolezza che il valore economico di un prodotto era strettamente legato alla sua “scarsità” e alla parsimonia della sua esposizione, alla dimensione dell’attesa e del desiderio. I grandi classici Disney non erano sempre disponibili per chi li voleva semplicemente vedere (noleggiandoli o accedendo a un canale televisivo free o pay): passavano anni in cui Biancaneve non si trovava se non comprando la cassetta o il dvd. E ogni uscita era accompagnata da un’ingente campagna di comunicazione che andava a ri-eventizzare la library. La coda lunga non era intesa come il fondo del magazzino, ma come la teca dei gioielli di famiglia, da curare con molta attenzione.

Oggi invece siamo in un mondo completamente diverso, in cui i grandi brand non sono più preservati e gestiti con parsimonia, ma iper-sfruttati, sia attraverso la loro perenne esposizione, sia attraverso la loro continua rielaborazione creativa. Si pensi al franchise di Star Wars e all’enorme quantità di contenuti a esso connessi, che vanno inevitabilmente a intaccare la magia del nucleo “originale” e del suo mondo. Avviene insomma una commoditization del franchise: se in passato era un totem sacro da preservare e valorizzare con un’opera di tutela, ora lo si trova dappertutto e peraltro non tutti gli sviluppi su di esso basati ne stanno arricchendo il valore (anzi…). Lo sfruttamento intensivo ed estensivo inevitabilmente lo condanna a una rapida usura, che solo un continuo lavorìo di sviluppo (sequel, prequel, reboot, spin-off) può controbilanciare.

Branding e posizionamento dell’offerta

Quando un content provider crea la sua piattaforma deve necessariamente definirla come l’unico luogo di distribuzione di tutti i contenuti. In Disney+ troviamo tutto il contenuto scripted del gruppo Disney: sia quello direttamente riconducibile all’ambito di afferenza del marchio (i prodotti per bambini e ragazzi), sia quello non direttamente ascrivibile, ma facilmente riconducibile (i contenuti Marvel, Star Wars e National Geographic); sia quello più difficilmente compatibile con i valori originari del brand (I Simpson, per esempio, e molti prodotti di 20th Century Fox, acquisita da Disney qualche anno fa). La necessità di predisporre un unico outlet e identificarlo con un solo marchio hanno costretto Disney a creare delle severe gerarchie di branding (sopra, il marchio ombrello Disney; sotto i marchi dei diversi “mondi” tematici); a eliminare marchi la cui forza avrebbe generato distonie (è quanto è successo al marchio Fox, soppresso senza rimpianti, a dispetto del suo avviamento); e a creare marchi nuovi, ancorché pallidi, ma di maggior utilità d’uso nella nuova architettura di brand (quell’etichetta Star che in piattaforma raggruppa appunto i prodotti di origine Fox e altri contenuti meno “familiari”).

Poi, la creazione di un’unica destination “ombrello” ha generato (e sta generando) problemi di coerenza interna dell’offerta e di compatibilità con i valori del marchio. La forza di Disney, infatti, si è sempre costruita sulla identità dei valori del suo brand, primo fra tutti quello di essere una realtà safe e family-oriented. Ma oggi, come detto, in piattaforma rientrano prodotti molto eterogenei, che spesso non corrispondono a questi valori: l’azione violenta dei film e delle serie Fox, l’umorismo urticante e politicamente scorretto dell’animazione per adulti dei Simpson e dei Griffin. Tale situazione sta cambiando il dna dell’azienda. Disney non vuole più essere riconducibile solo al mondo simbolico che ha sempre rappresentato, la major dei bambini e delle famiglie, ma vuole (e deve) giocare la partita a tutto campo. Una scelta comprensibile, considerando anche che la platea di bambini si è molto ridotta e che sta venendo meno la percezione che il prodotto per questo target sia un prodotto premium. Anche qui, però, bisogna capire quali siano la giusta velocità e la giusta dimensione del cambiamento: è bene procedere per strappi e con decisione o è meglio effettuare una virata graduale?

Disney è giunta alla conclusione che il legame tra il suo marchio e i valori familiari tradizionali rischia oggi di costituire una gabbia e dunque un limite, in una presa di coscienza e un cambio di rotta che senza dubbio sono stati indotti dall’adozione del modello-piattaforma.

C’è il tempo strategico per la progressività? A esaminare le scelte compiute dalla major in Italia sembrerebbe che, finora, abbia prevalso l’approccio forte, radicale. Basta guardare alle scelte relative alle produzioni originali italiane, da una serie come Le fate ignoranti alla docu-fiction sul delitto di Avetrana. Due prodotti che, per molti aspetti, si allontanano dal modello di famiglia da sempre rappresentato e promosso da Disney: il primo mettendo in scena amori diversi da quello canonico eterosessuale; il secondo raccontando la storia dell’omicidio di una familiare. Si può a buon diritto parlare per questi casi di negazione-sovvertimento dell’universo simbolico Disney: evidentemente la major è giunta alla conclusione che il legame tra il suo marchio e i valori familiari tradizionali – che per molto tempo è stato un patrimonio da salvaguardare con cura – rischia oggi di costituire una gabbia e dunque un limite, in una presa di coscienza e un cambio di rotta che senza dubbio sono stati indotti dall’adozione del modello-piattaforma.

Interessante è anche il caso di Warner Bros. Discovery che, ancor più di Disney, è un player che gestisce linee di prodotto molto diverse: dai film dello studio Warner Bros ai cartoni animati di Turner; dalle serie di qualità di Hbo al factual entertainment di casa Discovery; DC Comics e Cartoon Network, Casablanca e Looney Tunes, I Sopranos e Malattie imbarazzanti. Per contenere tutta questa eterogeneità si è deciso di lavorare sul naming della piattaforma, chiamandola semplicemente Max. Sono di fatto scomparsi i nomi dei marchi storici Warner, Discovery, Hbo, e tutta la brand identity che si portano dietro. Una scelta difficile – anche da comprendere – che tuttavia prova a rispondere a un’esigenza strategica (semplicità, flessibilità).

La massa critica e il futuro del mercato delle piattaforme

La piattaforma obbliga a costruire un outlet quanto più ampio possibile. Ci sarà spazio solo per pochi grandi servizi: chi arriva primo e chi copre prima e meglio i vari territori l’avrà vinta. Gli altri dovranno soccombere o relegarsi in posizioni secondarie, perché non potranno convivere più di tre o quattro grandi outlet. Di qui la necessità di portare a termine una serie di fusioni e acquisizioni. Tutte le operazioni degli scorsi anni sono andate in questa direzione: Disney, Abc, Lucas, Marvel, Pixar, 20th Century Fox; Warner Bros. Turner, Hbo, Discovery, Eurosport; Viacom, Cbs, Paramount; Comcast, Nbc, Universal, Sky. La corsa è appena iniziata e non sappiamo chi ce la farà, anche perché i primi a partire sono stati due outsider: Netflix e Amazon, che hanno già guadagnato un discreto vantaggio. Tra i soggetti storici, Disney e Warner Bros. Discovery sembrano quelli meglio posizionati. Viacom-Paramount-Cbs e Comcast-NbcUniversal-Sky seguono ma con parecchio ritardo e qualche titubanza. Sony-Columbia non è neanche partita e tutto lascia pensare che non voglia competere, riservandosi semmai il ruolo di content provider opportunista di tutti gli altri. Scelta che potrebbe rivelarsi vincente. In un futuro non troppo lontano, alcuni soggetti che oggi producono e distribuiscono in proprio potrebbero abbracciare questa strategia, concentrandosi sulla produzione di contenuti originali per terzi. Altri, di contro, potrebbero scegliere di fare gli aggregatori di contenuti prodotti da altri, focalizzandosi sulla distribuzione. Altri ancora potrebbero diventare meta-piattaforme che ne aggregano altre, proponendo al pubblico esperienze di consumo integrate e semplificate e bundle commerciali convenienti (Amazon è l’operatore meglio posizionato per quest’ultima strada). Infine, alcuni operatori oggi attivi scompariranno, schiacciati dalla concorrenza. È come il gioco delle sedie: man mano che il mercato si concentra, qualcuno prima o poi resta senza un posto e viene eliminato.

Su tutto aleggia dunque il tema della sostenibilità del business: tra costi del contenuto, delle tecnologie e del marketing, considerando che si sta rinunciando alle entrate ricavate dalla vendita dei contenuti e dei canali, è possibile mantenere il business in attivo? Si riesce a gestire in maniera ottimale la transizione, alimentando contemporaneamente entrambi i modelli? Oppure è necessario operare una scelta netta, costi quel che costi? Difficile dirlo. A oggi non esiste un modello chiaro, né è possibile sapere quale modello sarà premiante sul lungo periodo e quale operatore dunque vincerà la partita.


Federico di Chio

Direttore Marketing strategico di Mediaset e direttore editoriale di Link. Idee per la televisione. Insegna Media Management all’Università di Bologna e all’Università Cattolica di Milano. È stato Ceo di Medusa Film e vicedirettore generale contenuti di Mediaset. Tra i suoi libri, Analisi del film (con Francesco Casetti, 1990), L’illusione difficile (2011), American Storytelling (2016) e Il cinema americano in Italia (2021).

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