Tra progetti di fuga dalle grandi città e istruzioni per una vita autosufficiente, il movimento dell’homesteading mette in luce la ricerca di alternative da parte di una generazione precaria, ma anche i modi sottili e complessi attraverso cui le ideologie estremiste possono insinuarsi nel sogno di una vita autentica.
Su TikTok l’hashtag #homesteading raccoglie 107 milioni di post. Su Instagram sono molti meno, quasi tre milioni. Sono clip di giovani ragazze in ampi abiti lunghi che spiegano come produrre invidiabili scorte di conserve fatte in casa da utilizzare tutto l’anno; bambini che assaggiano il pane appena sfornato;coppie che curano giardini perfetti lambiti dal sole della golden hour. È uno stile di vita che sembra idilliaco e spesso viene venduto come tale.
Esistono molti tipi di homesteading ma tutti gli homesteader condividono un desiderio comune: allontanarsi dalla cultura consumistica per condurre uno stile di vita più semplice, autosufficiente e sostenibile. La maggior parte di loro produce parte, se non tutto, il cibo che consuma dedicandosi ad attività di agricoltura, pesca o caccia. Scelgono fonti di energia rinnovabile e cercano di produrre autonomamente i propri vestiti e i prodotti per la cura personale. Alcune famiglie decidono di istruire i figli a casa (#homeschooling), una scelta motivata dal desiderio di allontanarsi il più possibile dalle città. Altri, invece, restano nelle aree urbane, spesso in periferia, dove possono coltivare un giardino o allestire un orto urbano sul terrazzo.
Il mito del ritorno alla terra
L’ecosistema digitale dell’homesteading rivela un fenomeno sociologico multisfaccettato che trascende la mera tendenza estetica. Dall’analisi dei contenuti creati dagli utenti e delle interazioni nei commenti, emerge un profondo disincanto generazionale nei confronti dei paradigmi socio-economici dominanti. Questo disincanto si manifesta come una risposta complessa a una concatenazione di fattori strutturali che dobbiamo immaginare sovrapponibili come in un diagramma di Eulero Venn, ma che se dovessimo descrivere in una parola questa sarebbe instabilità. La progressiva crescita della gig economy ha generato un senso di insicurezza professionale e di precarietà economica che ben presto è diventata esistenziale.
La tensione tra un mondo sempre più virtuale e il desiderio di connessioni autentiche si riflette nell’approccio ambivalente degli homesteader alla tecnologia: da un lato c’è un rifiuto della dipendenza dai sistemi industriali, dall’altro i social media diventano strumenti fondamentali per condividere conoscenze e creare una comunità.
Da molti anni si parla di emergenza abitativa e l’inaccessibilità del mercato immobiliare per molti giovani non è solo un problema finanziario, ma un ostacolo alla realizzazione di progetti di vita a lungo termine. Come se non bastasse, la consapevolezza dell’antropocene e dei suoi effetti catastrofici, che non possiamo né anticipare né controllare pienamente, sta plasmando profondamente la visione del mondo delle nuove generazioni. È una condizione che è stata descritta in maniera efficace dal filosofo Timothy Morton, quando analizza il mutevole rapporto dell’uomo con quelli che lui chiama “iperoggetti”, entità che sfidano la nostra comprensione tradizionale e generano un’ansia esistenziale diffusa, come il riscaldamento globale. Di fronte a fenomeni globali incomprensibili e incontrollabili, il ritorno alla terra offre l’illusione di un controllo tangibile almeno della propria esistenza.
Autenticità fittizia
L’era dell’iperconnettività digitale ha poi esacerbato sentimenti di isolamento e disconnessione mentre scandali politici, disinformazione e polarizzazione hanno eroso la fiducia nelle istituzioni tradizionali. Questa tensione tra un mondo sempre più virtuale e il desiderio di connessioni autentiche si riflette nell’approccio degli homesteader alla tecnologia. Il loro rapporto con essa è infatti ambivalente: se da un lato c’è un rifiuto della dipendenza dai sistemi industriali, dall’altro i social media diventano strumenti fondamentali per condividere conoscenze e creare una comunità.
Questa contraddizione apparente riflette una più ampia tensione che attraversa la nostra epoca: il desiderio di ritorno a forme di vita “naturali” e l’impossibilità di un vero distacco dal mondo iperconnesso. Il filosofo Byung-Chul Han ha spesso discusso della perdita di autenticità nella società contemporanea. Nei suoi scritti, evidenzia come la distinzione tra naturale e artificiale sia sempre più sfumata nella nostra epoca. Viviamo in un’era di “iperculturalità”, dove ogni aspetto dell’esistenza, inclusa la natura, è stato trasformato in un prodotto culturale mediato dalla tecnologia. Questo porta a una paradossale situazione in cui più cerchiamo l’autenticità, più ci allontaniamo da essa, creando versioni idealizzate e artificiali di ciò che consideriamo “naturale”.
In una prospettiva complementare, il filosofo Bernard Stiegler ha approfondito il concetto di “tecnogenesi”, sostenendo che l’essere umano e la tecnologia sono co-evolutivi e inseparabili. Secondo Stiegler, la tecnica non è semplicemente uno strumento esterno, ma è costitutiva dell’esperienza umana stessa. Questa visione ci aiuta a comprendere perché il nostro desiderio di ritorno alla natura non può mai essere veramente “puro” o privo di mediazione tecnologica. Per Stiegler la vera sfida non è tentare un’impossibile fuga dalla tecnologia ma piuttosto sviluppare una “ecologia dell’attenzione” che ci permetta di usarla in modo più consapevole e meno alienante, riconoscendo che la nostra “naturalità” è da sempre “tecnologicamente mediata”.
In questo contesto, fenomeni come l’homesteading potrebbero essere interpretati come un modo per ricreare un’autenticità percepita come perduta, un tentativo di riappropriazione dell’agency in un mondo percepito come sempre più caotico e ostile, una forma di “micro-utopia” praticabile, per usare il termine del filosofo Ernst Bloch, dove l’individuo cerca di ricostruire un senso di controllo e autenticità.
Estremismo bucolico
Nel panorama dell’homesteading contemporaneo non mancano le criticità, come la presenza di nicchie ideologicamente connotate all’interno del movimento, dai gruppi ultraconservatori ai sostenitori di teorie antiscientifiche.
Alcuni contenuti, ad esempio, sono molto simili a quelli delle tradwife, le moglie tradizionali che sui social promuovono il ritorno a una divisione conservatrice e stereotipata dei ruoli di genere all’interno dell’ambiente domestico. In un reel su Tiktok una ragazza esalta la propria femminilità mostrando un vestito particolarmente casto mentre sullo schermo appare il claim: “Sono femminile, non femminista”. Questa retorica posiziona la femminilità tradizionale in netta opposizione al femminismo contemporaneo, rivelando una complessa rinegoziazione dei ruoli di genere all’interno del movimento homesteading. Altri si proclamano apertamente “novax” o producono lunghi video finalizzati a diffondere teorie complottiste.
In alcuni casi, i consigli sull’autosufficienza fungono da vettore per messaggi più insidiosi, che risuonano con la cosiddetta teoria della “Grande Sostituzione”, un costrutto ideologico di matrice suprematista che postula l’esistenza di un disegno volto a soppiantare la popolazione autoctona bianca delle nazioni occidentali con immigrati non bianchi.
C’è soprattutto una correlazione preoccupante con correnti ideologiche di estrema destra, come evidenziato da un’indagine di Media Matters. Questa ricerca mette in luce un fenomeno complesso in cui le pratiche apparentemente innocue di autosufficienza si intrecciano con narrative nativiste e xenofobe. Un caso emblematico citato nello studio è il canale YouTube The Prepared Homestead, la cui homepage funge da paradigma per comprendere la sottile ma pervasiva infiltrazione di ideologie estremiste all’interno del gruppo. L’estetica bucolica e i consigli pratici sull’autosufficienza fungono da vettore per messaggi più insidiosi, che risuonano con la cosiddetta teoria della “Grande Sostituzione”, un costrutto ideologico di matrice suprematista che postula l’esistenza di un disegno deliberato volto a soppiantare la popolazione autoctona bianca delle nazioni occidentali con immigrati non bianchi. Una narrazione che si manifesta attraverso un’enfasi sulla preservazione di un’idealizzata “purezza culturale” e un ritorno a valori tradizionali, spesso concepiti in termini etnocentrici.
Il rischio è che l’idealizzazione del passato porti a derive regressive e anti-progressiste. Un altro pericolo è la romanticizzazione della vita rurale che ignora le durissime condizioni di vita del passato e i progressi sociali degli ultimi secoli. Inoltre, l’homesteading moderno è spesso un privilegio messo in atto da persone con risorse economiche significative. L’autosufficienza richiede terra, tempo e capitale iniziale, risorse non universalmente disponibili, specialmente tra le comunità marginalizzate.
Sarebbe però sbagliato ridurre l’intero fenomeno a queste derive. Per molti giovani rappresenta una genuina ricerca di alternative sostenibili e di un rapporto più equilibrato con l’’ambiente. In un’epoca di crisi climatica e disuguaglianze crescenti, la riscoperta dell’autosufficienza può offrire spunti preziosi per ripensare i nostri modelli di sviluppo.
Lucia Antista
Giornalista pubblicista, scrive di cultura, arte e fenomeni digitali per diverse testate, tra cui Lampoon, Siamo Mine, Artribune e Artslife. Come autrice televisiva ha lavorato per i programmi di La7 e del gruppo Class editori.
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