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Una nuova mappa per capire il mondo

Il centro dei media, forse, ha cambiato collocazione. Che siano le soap opera turche, il pop coreano o il cinema di Bollywood, le narrazioni e i volti globali più importanti ormai si creano altrove.

Pubblichiamo qui la prefazione all’edizione italiana di Fatima Bhutto, Nuovi re del mondo. Corrispondenze da Bollywood, dal dizi e dal k-pop, appena uscito per la collana “SuperTele” dell’editore minimum fax. 

Non si è mai consumato tanto intrattenimento come oggi. Il bisogno di nuovi contenuti non conosce confini, geografici e culturali. Basta guardare il catalogo italiano di Netflix per rendersene conto, con schermate intere di serie turche (dizi) o coreane (k-drama) che contendono alle produzioni occidentali l’attenzione dello spettatore. Oppure si possono scorrere i palinsesti delle televisioni, soprattutto in Spagna, dove Antena 3, il canale che ha lanciato La casa di carta, ha in programmazione per tre sere alla settimana solo dizi. Se poi volessimo spostare lo sguardo altrove, su quel che accade in Medio Oriente, nei paesi arabi o in Sud America, ci accorgeremmo che la geografia dell’immaginario culturale, e quindi anche politica, nell’ultimo decennio è profondamente cambiata. Hollywood non è più il riferimento centrale, o quantomeno non è più il solo perno attorno a cui ruota la produzione di intrattenimento globale. Lo è stato per molti anni, a partire dai Cinquanta, in parallelo con la diffusione delle basi militari statunitensi nel mondo, come ci racconta Fatima Bhutto in questo libro, ma ora che la sua presenza militare internazionale è ai minimi storici, anche il soft power del pop made in USA è meno efficace. L’emergere di nuovi distretti produttivi è senz’altro conseguenza della fame di contenuti che la sola industria occidentale non è in grado di soddisfare, ma sarebbe un errore ridurre il successo mondiale di dizi e k-pop a una semplice questione di fabbisogno produttivo. Come il cinema indiano di Bollywood – il terzo, grande protagonista di questa indagine che Fatima Bhutto ha condotto con piglio insieme analitico e narrativo in Pakistan, negli Emirati Arabi Uniti, in Perù, in Turchia, in Libano e in Corea del Sud – anche dizi e k-pop sono portatori di un immaginario alternativo a quello occidentale, capace di dare risposte ai bisogni espressivi ed esistenziali di buona parte del Sud globale.

Se le storie della produzione turca e di quella coreana sono tutto sommato recenti, con mercati interni di dimensioni limitate da superare con una studiata politica di esportazioni sostenuta attivamente dal governo, l’India ha una tradizione molto più articolata e un mercato interno decisamente più grande e autosufficiente. Fatima Bhutto dedica buona parte del suo Nuovi re del mondo a ricostruirne le fasi principali mettendole in relazione ai cambiamenti politici interni e, soprattutto, alla svolta neoliberista degli anni Novanta, incarnata cinematograficamente da alcuni eclatanti casi di divismo attoriale, e in particolar modo dalla figura complessa di Shah Rukh Khan, incontrata da Bhutto a Dubai alternando al suo profilo squarci di dialogo che rivelano la dimensione quotidiana del mito. Un mito che vive non solo nel vicino Medio Oriente ma in Paesi lontani che nulla hanno a che fare con l’India, come il Perù, che consuma il cinema di Bollywood fin dagli anni Cinquanta, dove Khan, tra gli altri, incarna un modello vincente per le popolazioni andine, strappate dalla loro terra e gettate nei meandri della capitale a condurre vite spesso miserabili.

Una parte importante della popolazione mondiale, per lungo tempo, ha consumato prodotti culturali occidentali, trovando in essi il fondamento delle proprie aspirazioni progressiste. Oggi però queste popolazioni rivolgono la loro attenzione altrove, verso produzioni sentite più vicine alla loro vita quotidiana, sconvolta dai cambiamenti economici e dalle migrazioni verso le grandi città.

Il libro di Bhutto, come una mappa del mondo vista dall’emisfero australe, costringe il lettore a riorientare lo sguardo e ad allargarlo fino ad abbracciare culture diverse che, nonostante tutto il portato dell’immigrazione, ci risultano ancora estranee, se non minacciose. Una parte importante della popolazione mondiale, per lungo tempo, ha consumato prodotti culturali occidentali, trovando in essi il fondamento delle proprie aspirazioni progressiste: “La popular culture americana non era attraente proprio per tutti, ma per molti decenni è stata l’unica cultura pop globale disponibile. Libertina e appariscente, si rivolgeva soprattutto all’élite del Terzo Mondo. Chi parlava inglese e aveva tendenze consumistiche internazionali, oltre ai mezzi per viaggiare e studiare all’estero, era particolarmente affascinato dalla cultura americana e desiderava tutto ciò che era americano: le abitudini, lo stile, il sapere e, soprattutto, il potere”. Oggi però queste popolazioni rivolgono la loro attenzione altrove, verso produzioni sentite più vicine alla loro vita quotidiana, sconvolta dai cambiamenti economici e dalle migrazioni verso le grandi città. Nel solo 2015, ci ricorda Fatima Bhutto, oltre un miliardo di persone ha lasciato la sua casa in cerca di una vita migliore. Alcuni sono emigrati all’estero, ma più del 75% si è trasferito dalle zone rurali alle aree urbane del proprio Paese.

Sradicati dalle proprie famiglie e comunità, si ritrovano in grandi città senza sapere bene come fare a viverci, alle prese con una modernità che faticano a comprendere, dove non solo il lavoro è diverso, ma anche i codici comportamentali e sessuali sono indecifrabili. Centinaia di milioni di persone si sentono perse, prive di punti di riferimento e di contatto tra la vita che conoscevano e quella che vivono. “Questi dilemmi, appannaggio esclusivo di chi è giunto tardi alla modernità, non sono affrontati dalle signore esuberanti e promiscue di Sex and the City o dai coinquilini sarcastici di Friends, bensì dalle nuove industrie culturali che offrono soluzioni temporanee ma confortanti. Come si fa a dare il meglio di sé in un ambiente moderno e competitivo mantenendo i valori tradizionali? Come si fa a prendere parte a un mondo all’insegna del mors tua vita mea senza sacrificare la propria identità, la propria famiglia o la propria cultura? E qual è lo spazio per la narrazione delle difficoltà e del dislocamento in un terreno sempre più vasto caratterizzato da facile celebrità, ricchezza e supremazia? La pop culture americana o occidentale non è più in grado di fornire risposte soddisfacenti a questi interrogativi […] Invece le fatiche e i modesti trionfi delle eroine turche che lottano per affermarsi sono accessibili a chiunque”.

“Come si fa a dare il meglio di sé in un ambiente moderno e competitivo mantenendo i valori tradizionali? Come si fa a prendere parte a un mondo all’insegna del mors tua vita mea senza sacrificare la propria identità, la propria famiglia o la propria cultura? La pop culture americana o occidentale non è più in grado di fornire risposte soddisfacenti a questi interrogativi. Invece le fatiche e i modesti trionfi delle eroine turche che lottano per affermarsi sono accessibili a chiunque”.

Oggi la Turchia è il secondo esportatore al mondo di serie tv, subito dopo gli Stati Uniti. Il secolo magnifico, dizi sulla vita del sultano Solimano, si calcola sia stato visto da 500 milioni di persone. Uno dei punti di svolta di questo lungo viaggio che ha portato l’export turco a raggiungere decine di Paesi e milioni di spettatori è iniziato dal Medio Oriente nel 2008, quando MBC, network panarabo con sede a Dubai, ha trasmesso Noor (Gümüş in turco), con un impressionante riscontro di pubblico (85 milioni di spettatori hanno visto l’ultima puntata), mettendo in moto l’intero fenomeno oggi noto come cool neo-ottomano. Al successo hanno fatto seguito sermoni nelle moschee, fatwa come quella del Mufti di Aleppo che ha proibito ai fedeli di presentarsi alla preghiera indossando t-shirt con le facce dei protagonisti di Noor, ma anche nuovi trend nella moda e nell’interior design, e perfino nelle acconciature in voga tra i giovani giordani che si decorano il capo con i nomi arabi dei protagonisti della serie, Noor e Muhammed. Considerando i trascorsi dell’Impero Ottomano in Medio Oriente pare difficile capire come tale successo sia possibile. Ma se si va sul piano degli immaginari, le ragioni emergono con chiarezza. Da un lato i dizi raccontano storie in cui gli abitanti del Medio Oriente non sono i cattivi, ma gli eroi. Dall’altro forniscono l’ingresso a una modernità che riesce a essere tale nel rispetto dell’Islam, a una specie di terra seducente e liberale a portata di mano in cui le proprie aspirazioni di vita non sono in contrasto con le proprie radici. All’interno di quest’idea di modernità anche il ruolo della donna mostra una dinamicità insospettabile. Noor è la storia di una giovane e umile disegnatrice di moda che sposa un uomo ricco su intercessione dello zio. Le scene più viste su YouTube sono quelle d’amore, specie quelle con maggiore tensione sessuale, in cui la camera si sofferma sul corpo dei protagonisti maschili a beneficio delle spettatrici. E la serie è stata causa di divorzio in Arabia Saudita, Siria e Sudan.

L’equilibrio che i dizi hanno saputo instaurare tra modernità e tradizione è anche la ragione del loro successo in Sud America, mecca delle telenovela. Oltre al fatto che gli attori turchi, come quelli indiani, sono percepiti molto simili agli attori latini di telenovela, i valori familiari sono condivisi, ed è comune anche l’utilizzo ricorrente di figure maschili inizialmente negative che nel corso della narrazione vivono un processo di redenzione che le porta a diventare eroi. Soprattutto sono narrazioni sorrette dal rifiuto netto della corruzione emotiva e spirituale della società moderna dove i più deboli, gli emarginati, possono essere protagonisti e artefici del proprio destino. Riportando le dichiarazioni di uno dei professionisti incontrati nei suoi viaggi, Fatima Bhutto scrive: “Le trame dei dizi, che vanno dagli stupri di gruppo ai complotti delle regine ottomane, sono un incrocio tra «Dickens e le sorelle Brontë. Raccontiamo almeno due versioni all’anno della storia di Cenerentola per la tv turca. A volte Cenerentola è una trentacinquenne single con un figlio, altre è un’attrice di ventidue anni che fa la fame»”. Sono narrazioni popolari buone per tutta la famiglia, dove il sesso è alluso ma non mostrato, così come il turpiloquio, o l’uso di alcolici e droghe. Lo stesso accade nell’universo del k-drama e dell’hallyu (l’onda coreana) in generale, che condivide il successo planetario dei dizi, e che non a caso è stato spesso adattato dai produttori turchi in remake di successo. C’è una parte consistente di mondo che chiede narrazioni semplici/non complesse, storie di resistenza e riscatto e personaggi facilmente riconoscibili, fondate su dilemmi morali basilari e storie d’amore difficili, a lenta cottura, protagonisti che sono idols da ammirare anche se negativi, narrazioni capaci soprattutto di mettere in scena problemi d’una quotidianità che non è la nostra anche se ne condivide l’epoca e, talvolta, gli stessi spazi urbani.


Fabio Guarnaccia

Direttore di Link. Idee per la televisione, Strategic Marketing Manager di RTI e condirettore della collana "SuperTele", pubblicata da minimum fax. Ha pubblicato racconti su riviste, oltre a diversi saggi su tv, cinema e fumetto. Ha scritto tre romanzi, Più leggero dell’aria (2010), Una specie di paradiso (2015) e Mentre tutto cambia (2021). Fa parte del comitato scientifico del corso Creare storie di Anica Academy.

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