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Un giorno useremo Zerocalcare per spiegare la nostra quarantena

Se da anni la sua popolarità era sancita dalle vendite dei suoi lavori, il passaggio all’animazione, la messa in onda tv e la circolazione online hanno reso Zerocalcare una voce di quest’emergenza.

I Monkeys Factory erano una di quelle band punk militanti e autoprodotte che popolavano una vivace e rimpianta scena negli anni Novanta. Venivano da Aprilia, provincia di Latina, e nel 1997 uscirono con un disco dal titolo paradigmatico che ne tradiva le origini: Voja de lavorà saltame addosso. Può far sorridere che un album con quel nome sia stato quello che ha cambiato la vita del fumettista più stakanovista nel panorama italiano, ma tant’è: oggi sappiamo che lo Zerocalcare “pischello” venne a contatto con tutto un mondo che lo ha formato anche grazie a quella perla underground e discretamente hardcore.

La settima traccia di Voja de lavorà si intitola “Scatole di carta” e parla della difficoltà nel restare chiusi in una stanza, mentre si ha letteralmente “il fuoco che ci brucia dentro”. Per uno scherzo del destino, Zerocalcare è definitivamente entrato nell’immaginario collettivo raccontando con la sua serie di shorts animati una situazione simile. Durante la quarantena, tutti ci siamo ritrovati a vivere una vita per certi versi analoga a quella di Zerocalcare/Michele Rech nella miniserie Rebibbia Quarantine e la sensazione è che un giorno useremo questi disegni animati anche solo per spiegare la quarantena vissuta da noi comuni mortali, che non potremmo raccontare gesti eroici o dimostrazioni di coraggio assortite ma solo un’esperienza comune, vissuta all’interno di personalissime “scatole di carta”.

Essere te quindi me stesso

Nel 2018, Eleonora Caruso su Wired evidenziava a ragione come “parlando del lavoro di Zerocalcare è raro sentire usare il termine autofiction, che pur sarebbe il più corretto: autofinzione, cioè la trasformazione di sé e del proprio vissuto in un’opera di narrativa”. A due anni di distanza, dopo l’esperimento di Rebibbia Quarantine, passato da Propaganda Live alle nostre bacheche Facebook in tempi record, possiamo dire che l’autofiction abbia fatto un altro passo avanti: non è più solo la vita del fumettista a trasformarsi in materiale narrativo ma l’intera esperienza collettiva a essere traslata in questo esperimento. Zerocalcare diventa uno, nessuno e centomila senza dover per forza affrontare di petto i grandi temi su cui si scatena il dibattito: questi sono piuttosto inseriti in brevi corti a prima vista incentrati su avvenimenti banali, come il tentativo di fare una corsa attorno al proprio palazzo o la coda per la spesa. Urtare una signora peruviana mentre ci si cimenta in uno scatto a due passi da casa diventa il pretesto per una riflessione più profonda. Siamo tutti più soli, alienati e poco propensi a capire gli altri: il lockdown che stiamo vivendo non è altro che la perfetta metafora di un processo sociale già in atto ben prima che Corona diventasse nelle nostre teste qualcosa di più di una birra da bere a Pasquetta.

Quello che emerge da tutta la serie è un sentimento di rabbia e insoddisfazione che c’era già prima nelle produzioni di Zerocalcare e non va pensato come del tutto negativo. Non è un caso che qualche anno fa i fumetti di Zero furono inseriti in un’antologia collettiva (assieme a quelli di altri colleghi più o meno della stessa generazione) intitolata La rabbia: un sentimento che non ha smesso di essere espressione di un mondo politico ma che si è anzi espanso, diventando la base che accomuna un’intera generazione, legata più da un certo modo di sentire che dall’età. Si tratta di persone abituate a convivere con quella “profezia dell’armadillo”, moderna legge di Murphy che dà il titolo al libro da cui tutto è partito. In una vignetta, la sintetizza così: “Si chiama profezia dell’armadillo qualsiasi previsione ottimistica fondata su elementi soggettivi e irrazionali spacciati per logici e oggettivi destinata ad alimentare delusione, frustrazione e rimpianti, nei secoli dei secoli, amen”.

Zerocalcare rimane oggi un po’ la maschera del suo autore, un po’ quella dei suoi lettori. A differenza di altri casi analoghi, però, l’identificazione non impedisce che la controparte disegnata sia consapevole e dotata di una personalità tanto definita quanto contraddittoria, esplicitata anche grazie all’utilizzo di monologhi/flussi di coscienza alla base della struttura narrativa su cui si fonda Rebibbia Quarantine. Ciò che più affascina in questo percorso evolutivo è notare come Michele Rech non abbia mai provato volutamente a passare per simbolo di un’intera generazione. Come dichiarato in più interviste, il suo intento è sempre quello di piacere in primis al suo mondo: un mondo formato sempre dagli stessi amici e legato al microcosmo dei centri sociali e a una precisa visione dello spazio politico. Un universo anche valoriale da cui il nostro non ha mai voluto staccarsi, continuando ancora a collaborare con determinate realtà. Anche quando il focus del suo lavoro è su altri luoghi, è chiaro quanto il mondo di Zerocalcare continui a girare attorno a una zona periferica della capitale: Rebibbia.

Rebibbia mon amour

Rebibbia è un posto particolare, associato immediatamente dai non-romani al carcere. Per tanti, rimane l’ultima stazione della metro B: bisogna arrivarci apposta, non ci si capita per caso, ma poi è complicato dimenticarsene. Negli anni Cinquanta, Pier Paolo Pasolini ha abitato da queste parti, al primo piano di via Tagliere. Di quegli anni di apprendistato, ricorderà poi, una volta spostatosi a Monteverde: “In ogni pagina, in ogni riga / che scrivevo nell’ esilio di Rebibbia / c’era quel fervore, quella presunzione / quella gratitudine. Nuovo / nella mia nuova condizione / di vecchio lavoro e di vecchia miseria, / i pochi amici che venivano / da me, nelle mattine o nelle sere / dimenticate sul Penitenziario / mi videro dentro una luce viva: / mite, violento rivoluzionario / nel cuore e nella lingua. Un uomo fioriva”.

Zerocalcare diventa uno, nessuno e centomila senza dover per forza affrontare di petto i grandi temi su cui si scatena il dibattito: questi sono piuttosto inseriti in brevi corti a prima vista incentrati su avvenimenti banali, come il tentativo di fare una corsa attorno al proprio palazzo o la coda per la spesa. Urtare una signora peruviana mentre ci si cimenta in uno scatto a due passi da casa diventa il pretesto per una riflessione più profonda. Siamo tutti più soli, alienati e poco propensi a capire gli altri: il lockdown che stiamo vivendo non è altro che la perfetta metafora di un processo sociale già in atto.

L’universo di Zerocalcare ha come epicentro il suo quartiere e il vignettista ne viene influenzato quanto e più di Pasolini in quel periodo, perché, semplicemente, lui da lì non si è mai schiodato. Non è un caso che la serie di corti che hanno proiettato Rech nel mondo dell’animazione porti il nome di Rebibbia Quarantine. In un’intervista al Fatto, il vignettista romano ha messo in chiaro quanto si identifichi senza mezzi termini con la zona in cui vive da sempre: “Rebibbia è la mia oasi di pace, non è il Bronx che tutti pensano. Su questo posso metterci la firma. La gente può venire a casa a menarmi coi bastoni se me ne vado. Anche tra 30 anni mi troverete lì”. Senza quel luogo, definito uno spazio che si situa poeticamente “a metà tra San Francisco e Pescara”, non esisterebbe Zerocalcare.

Il linguaggio stesso dei suoi lavori risente palesemente di tali radici. La sua produzione è da sempre caratterizzata dal continuo ricorso a espressioni gergali romane, ma è squisitamente romano anche il modo in cui vengono costruite le frasi e la loro sintassi. Per questo anche Rebibbia Quarantine, pur parlando di settimane di sostanziale isolamento casalingo, rimane legata a certi spazi e ambienti: non potrebbe mai essere scambiato per Bolognina Quarantine. Il quartiere è una presenza che aleggia pesantemente anche qui, quasi al pari di un personaggio. Alcune espressioni e modi di dire romani formano la grammatica di Zerocalcare al punto da non essere traducibili senza che si perda qualcosa: leggenda vuole che la traduttrice francese decise di non tradurre alcuni termini dopo essersi resa conto che a Genova non li capivano del tutto. Non si sa quanto di vero ci sia in questo aneddoto ma, come rivelato dallo stesso autore, ormai nella traduzione francese i localismi sono virati sul linguaggio delle banlieue e per le espressioni più romane e iconiche si sceglie di mettere un glossario alla fine. Trovare un sinonimo di “mortacci tua” resta difficile in italiano e quasi impossibile in qualunque altra lingua. Operare una sostituzione significherebbe sradicare le storie da quell’habitat che contribuisce a partorirle.

La citazione utile

Nel suo studio La oralidad fingida en La profezia dell’armadillo de Zerocalcare, Rosa María Rodríguez Abella evidenzia un tratto che accomuna tutta l’opera omnia del fumettista, poco importa che si tratti di brevi cartoon o graphic novel candidate allo Strega. La maniera di narrare di Zerocalcare “si discosta chiaramente dal tradizionale modello hollywoodiano di narrativa transmediale”. Se nel modo di raccontare classico i riferimenti cross-mediali servono principalmente per strizzare l’occhio al fruitore e confermargli l’appartenenza a uno stesso universo di citazioni, in Zerocalcare esiste “un modello indipendente”, in cui certi richiami agiscono attivamente per far proseguire la storia. Non sono solo un modo di creare un rapido engagement, ma anche una maniera per caratterizzare il personaggio in uno spazio breve (la striscia o il corto televisivo), in cui il tempo per approfondire i personaggi è poco: inserire Crudelia DeMon in un frame non serve solo a creare complicità con chi condivide lo stesso immaginario pop dall’infanzia, e non si tratta di bieca voglia di fare leva sulla nostalgia. Mettere Crudelia o Dart Fener significa ricorrere a un espediente in grado di far capire immediatamente a chi guarda che quel personaggio è cattivo e che la situazione cui si fa riferimento è quantomeno controversa.

Spesso Zerocalcare ha scelto di rappresentare anche le persone nella sua vita o le incarnazioni della sua coscienza come icone della cultura pop. Dare un volto familiare serve anche per superare un problema effettivo nelle storie del personaggio Zerocalcare: è sostanzialmente quasi sempre solo e parla più con se stesso che con chi gli è attorno. È un perfetto prodotto di una società che porta a sovra-analizzare e in cui è semi-impossibile non essere contraddittori, anche con se stessi. In questo l’alter ego somiglia effettivamente al suo autore, che ha confessato un’apparente contraddizione con cui, non solo lui, deve confrontarsi: “Sicuramente sono una persona molto insicura rispetto al rapporto con gli altri. Ci sono cose a livello valoriale su cui non ho dubbi o insicurezze o titubanze, però a livello relazionale sono una persona timida e insicura, quindi sicuramente una certa pressione la sento”. 

Il dio delle piccole cose

Il videogioco di calcio che ha cambiato completamente la percezione che si aveva di questa tipologia di game è stato quello dedicato alla Coppa del mondo del 1998. Vent’anni dopo, a rimanere nelle teste di chi ci ha giocato è soprattutto la canzone che si sentiva nell’intro, suonata da un gruppo dal nome oggettivamente curioso: Chumbawamba. Andavano forte quell’anno anche su Mtv e, grazie a quel brano, catturarono l’attenzione di un giovanissimo Zerocalcare. Nell’estate dei mondiali in Francia, il futuro fumettista si ritrovò quindi con sua madre al concerto di una band che non era affatto il classico gruppo pop inoffensivo che la hit faceva supporre. I Chumbawamba salirono in formazione ridotta sul palco, senza la cantante. Era rimasta gravemente contusa dopo aver partecipato a un corteo a Torino in memoria di due squatter suicidi, accusati dei primi sabotaggi alla TAV: Edoardo Massari e Maria Soledad Rosase. Al posto della loro voce, i restanti membri della band fecero salire sul palco i ragazzi dei centri sociali romani che esposero uno striscione su quanto accaduto. Quel giorno segnerà il quattordicenne Michele Rech, avvicinandolo a un certo tipo di universo e impegno politico. 

I primi lavori da fumettista di Zerocalcare nacquero infatti come attività di supporto a certe attività politiche, all’interno di un ecosistema formato da realtà oggi spesso sgomberate e/o chiuse. Neanche dopo il successo, Zerocalcare ha smesso di dare il suo supporto a determinate iniziative. Ma, se su se stesso e la sua quotidianità scherza molto, su questa parte importante della sua vita non fa mai ironia. Il perché lo ha spiegato lui stesso: “L’ironia potrebbe essere fraintesa, strumentalizzata da chi vuole raccontare quelli dei centri sociali come stereotipi, alieni fuori dal mondo. E non mi va”. A un certo punto, Zerocalcare si è trovato quindi a cercare una nuova maniera di usare il suo lavoro per portare alla ribalta temi impegnati e questioni politiche, senza al contempo svilirle o minimizzarle. Alla fine ha trovato la chiave di lettura giusta adattando il suo linguaggio, che sfrutta il racconto di tanti piccoli aspetti secondari e all’apparenza insignificanti per restituire riflessioni più complesse e stratificate.

Anche all’interno dell’alterata ma tutto sommato anonima normalità di Rebibbia Quarantine, si percepisce la voglia di portare all’attenzione questioni sociali rilevanti, attraverso uno strumento “leggero” come può essere un mini-intervento in forma di cartone animato. Ospite del podcast di Francesco Pacifico, Rech spiegava così la sua idea: “L’impegno si può fare restando comunque “reali” attraverso strisce in cui racconti il quotidiano, perché queste evitano di trasformarti in un asceta politico”. Il privato è politico, è lo è proprio perché i piccoli accadimenti restituiti con ironia dal fumettista romano in realtà raccontano molto di un Paese a tratti confuso e forse impreparato a fronteggiare, anche solo mentalmente, un evento imprevisto delle dimensioni quasi apocalittiche come questa pandemia.

Apocalypse Now

Nel marasma di storie dal tono realista, nel lavoro di Zerocalcare si nasconde anche una vena apocalittica. Un’inclinazione tornata utile per trovare il tono dei flussi di coscienza di cui si compone Rebibbia Quarantine. Dodici rimane il tentativo più celebre del romano di staccarsi dalla dimensione autobiografica per raccontare una Roma post-apocalittica, invasa da zombie ma forse soprattutto in preda alle sue mille contraddizioni di sempre. Pochi sanno però che l’abbinamento apocalisse-zombie era stato già provato ai suoi esordi da Michele Rech, ben prima di pensare a Dodici, in una storia che raccontava di persone costrette a rinchiudersi in casa per evitare il peggio (suona familiare?). Il breve fumetto ormai irreperibile era pensato per un concorso indetto dalla DC Comics, la casa di Batman e Superman. Zerocalcare lo vinse e poté proporre per un breve periodo sul sito della casa questa storia, ambientata in un futuro oggi neanche troppo distopico: un domani in cui la gente era obbligata a chiudersi in una cittadella fortificata dalla minaccia di un contagio che li avrebbe fatti diventare zombie. 

Qualche anno dopo, l’apocalisse, se è arrivata, resta molto meno appassionante da raccontare di quella immaginata allora (anche se ci ha costretto a restare in casa davvero). Per questo oggi, per narrarla, la strada migliore resta un fumetto incentrato sulla più banale normalità, costruito da un insieme di slice of life. Nell’Italia dei comics, questo tipo di narrazione non ha avuto mai la stessa fortuna che ha incontrato in altri Paesi, tipo la Francia. Almeno fino all’esplosione proprio di Zerocalcare: Michele Rech (che mezzo francese lo è davvero) quel modo di raccontare lo ha definitivamente sdoganato al grande pubblico italiano con i suoi disegni. Infelice adattamento cinematografico a parte, fino a prima del’8 marzo le sue idee erano rimaste confinate alla carta e al formato fumetto. Quando è stata pensata, Rebibbia Quarantene non doveva essere nulla di speciale: un segmento di cinque minuti all’interno di Propaganda Live, dove le strisce di Zerocalcare erano animate in maniera piuttosto semplice. Ma il successo della mini-serie è stato incredibile e trasversale: anche chi non conosceva il fumettista si è trovato a condividere questi racconti in cui era facile rivedersi tramite Whatsapp.

Con Zerocalcare si assiste quindi al ritorno di un’idea in voga negli anni Settanta: “il privato è politico”, e lo è proprio perché i piccoli accadimenti restituiti con ironia dal fumettista romano in realtà raccontano molto di un Paese a tratti confuso e forse impreparato a fronteggiare, anche solo mentalmente, un evento imprevisto delle dimensioni quasi apocalittiche come questa pandemia.

In pochi episodi, ha raccontato questi giorni monotoni e tutti uguali, facendo notare quanto questa “apocalisse casalinga” non abbia nulla di epico. Zerocalcare ci ha ricordato che non somigliamo a nessun eroe. Tuttalpiù, come il Giovanni Drogo de Il deserto dei Tartari, siamo confinati nelle nostre Fortezze Bastiani costretti a fare i conti con la solitudine, l’ansia per il futuro e il tempo che passa riempito da una sequela di dimenticabili azioni. La nostra quarantena, come quella di Zerocalcare, non è che un’accozzaglia di piccoli momenti insignificanti, e forse per questo la soffriamo tanto. Rebibbia Quarantine è il racconto di una generazione che si è ritrovata protagonista di un momento tristemente storico e si è accorta che non è poi così affascinante viverlo. La sensazione è che forse, tra qualche anno, questi piccoli corti racconteranno chi eravamo più di tanti saggi di prossima pubblicazione.


Manuel Santangelo

Manuel Santangelo scrive di cultura, attualità, sport e moda. Ha collaborato e collabora con testate come The Vision, Dude Mag e Rivista Undici. È stato tra i curatori di Youmanist, un progetto editoriale di BNP Paribas Wealth Management, e ha lavorato nel marketing sportivo.

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