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Comedy

Si ride sempre con le vocali

Perché la comicità, pur essendo un elemento cruciale dei palinsesti e dei botteghini di tutto il mondo, non riesce a travalicare i confini nazionali?

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 18 - Comedy del 08 aprile 2015

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Ogni anno leggo con curiosità le classifiche di incassi dei film in ciascuna nazione. E tutte le volte vedo la grande difficoltà che ha il genere comico nel viaggiare in un mondo globale. Ogni paese ha sempre sul podio almeno un film comico nazionale, accompagnato dai blockbuster internazionali. Nella nostra stagione passata si vede come i grandi successi americani pensati per il mercato globale (Frozen o Transformers) si siano comportati dappertutto nello stesso modo: infatti sono, più o meno, nelle medesime posizioni in quasi tutti i mercati. Tuttavia non si capirebbe correttamente la nostra classifica senza notare l’enorme peso di Sole a catinelle. Un titolo d’importanza capitale per l’Italia, che tuttavia non supera Ventimiglia, non ha distribuzione significativa negli altri paesi e non riesce a fare soldi all’estero. Per tutti gli altri generi è molto facile, se guardiamo i casi di titoli italiani di successo oltreconfine c’è l’horror (Zampaglione, Argento), il cinema d’autore (Sorrentino, Garrone), ma mai un vero e proprio film comico. Lo stesso procedimento si osserva anche all’inverso – sono sicuro che pochi saprebbero citare titoli o autori comici popolari in Germania o in Spagna, per restare tra i cugini europei. I film di Herzog e Almodovar sono stati distribuiti in Italia, recensiti e passati in tv, mentre i nomi di Klaus Myers o Kev Adams sono sconosciuti ai più. Anche gli americani, nonostante la grande incisività di Hollywood nel nostro immaginario, fanno sempre fatica su questo genere. Per esempio, Adam Sandler negli Stati Uniti è una star di prima grandezza, al pari di Tom Cruise, capace di rovesciare il destino economico di un progetto, mentre qui non è un attore popolare. Lo stesso insuccesso è riscosso dai nostri comici fuori dai confini. Sembra quindi che non ci sia niente da fare sul comedy, la sua forza è nell’essere locale.

Archetipi italiani

Anche se ci sono milioni di modi per fare comicità, la maggior parte di essi racconta di un mondo di esperienze comuni tra il comico e il pubblico; è un ribaltamento iperbolico di aspetti conosciuti, esperiti, vicini. È più esportabile, quindi, un racconto che si muove sui terreni dell’immaginario di uno che si nutre delle esperienze e delle quotidianità. In Italia uno dei cliché comici più comuni è il contrasto tra nord e sud: dopo Totò, il filone dei film di Natale (franchise, si direbbe oggi) ha abbondantemente attinto a questa vena. Non sempre funziona così negli altri paesi, spesso il contrasto archetipico è quello tra campagna e grande città. La comicità, comunque, parte sempre da ciò che ci circonda e ci è noto. Questo spiega anche la moda contemporanea di acquistare i diritti di film esteri e rifarli quasi fotocopiati in Italia (Fuga di cervelli, Benvenuti al Sud, La peggiore settimana eccetera); un’abitudine che sembra essere di appannaggio esclusivo del genere comedy. La ragione è proprio dovuta alla natura ontologica della risata. Abbiamo bisogno di ridere attraverso facce che raccontano chi siamo, attraverso le nostre mosse, i nostri modi di dire. Abbiamo bisogno che sia la voce di Bisio o di De Luigi a dire quella battuta. Aveva ragione Moretti, ce lo meritiamo Alberto Sordi, nel bene e nel male.

Oltre al cinema anche la tv fa fatica a digerire la comicità americana. Le sitcom che negli Stati Uniti sono show da prime time, qui da noi vengono usate per lo più a striscia e un po’ a riempimento. Anche sulla tv satellitare, più incline ad assomigliare ai palinsesti statunitensi, si vede questo femomeno. Per esempio The Big Bang Theory è un pilastro degli ascolti CBS, tanto da essere usato come grimaldello per lanciare i nuovi show, e da anni guida la classifica dei programmi più visti. In Italia è quasi sempre stata una striscia da metà pomeriggio, in fascia protetta, e non ha mai brillato particolarmente per i suoi risultati. Molto meglio avere i nostri volti e ricalcare con attori italiani alcuni modelli esteri (Camera café, I Cesaroni).

Quando invece sappiamo produrre con farina del nostro sacco, il modello non è nel mondo scripted ma è il cabaret. Con questo termine gli anglosassoni hanno in mente più il varietà, il film con Liza Minelli, una forma ibrida di spettacolo, gli spagnoli pensano più al nostro vecchio avanspettacolo, intrattenimento notturno e un po’ osé, mentre per i francesi il rimando è al Café Chantant. In Italia invece è quella forma di spettacolo in cui si alternano numeri comici di breve durata, sketch con personaggi ricorrenti. Anche se esiste il monologo, i cabarettisti frequentemente si travestono in maniera buffa, assumendo un’identità differente, immaginaria o parodica, e costruiscono l’esibizione sempre con lo stesso schema, basato sulla ripetizione e la riconoscibilità, talvolta creando tormentoni caratterizzanti.

Anche se ci sono milioni di modi per fare comicità, la maggior parte di essi racconta di un mondo di esperienze comuni tra il comico e il pubblico; è un ribaltamento iperbolico di aspetti conosciuti e vicini.

Conta solo quello che fa ridere

Il modello anglosassone, che si è ampiamente diffuso negli altri paesi, è un altro “formato”, basato sul monologo, spesso con intenti satirici. La parola satira è cruciale ed è il perno più interessante attorno a cui ruota il dibattito sul genere. Per chiarire: satira non necessariamente significa satira politica. Delinea però un punto di vista forte, anche estremo, che ribalta i luoghi comuni e che coraggiosamente osa scherzare su argomenti “pericolosi”: la religione, il sesso, la morte, e soprattutto il potere. La satira, se è valida, deve poter disturbare le certezze e i luoghi comuni. L’ambizione dei comici che praticano questo genere è formare l’opinione pubblica, non assecondarla, offrendo un punto di vista non convenzionale, in grado di destabilizzare le certezze e di farle deflagrare in una risata.
Le ragioni per la scarsa affermazione di questo genere in Italia sono numerose: ci sono motivi di business (la satira deve essere indipendente e la nostra tv è sempre stata molto intrecciata con i poteri forti), storici (l’affermazione del cabaret ha inglobato ogni altro genere comico), religiosi (i cattolici sono tanto permalosi quanto numerosi), legali (nessuna legge dice chiaramente che in un contesto comico una battuta è una battuta e non può avere limiti), territoriali (tutti i piccoli localini si sono convertiti a laboratori di cabaret e palestre di satira) e via dicendo. Tuttavia abbiamo un caso unico al mondo: Beppe Grillo. Non si può capire Grillo senza aver assimilato profondamente la lezione degli stand up comedian americani, il loro desiderio di incisività e la loro carica eversiva. Grillo ha rielaborato tutto questo, trascurando però la regola base, quella che ci ricorda Conan O’Brien: “Per tutti noi alla fine, conta solo quello che fa ridere”.

E quello che fa ridere è ciò che lo spettatore osserva, attraversa, vive. Gli spagnoli distinguono vari tipi di stand up e hanno inventato l’espressione “monologo d’osservazione” per descrivere una sua forma accessibile, senza riferimenti particolarmente aggressivi e che, proprio per questo, funziona su un pubblico ampio. Ci sono alcuni esempi di argomenti oggetto di monologhi comici molto simili in tutti i paesi, con battute analoghe e costruzioni spesso sovrapponibili. Si tratta di tutti quei testi che si riferiscono a un mondo contemporaneo, condiviso e globalizzato. Ho personalmente sentito in spagnolo e in francese alcuni monologhi su Ikea (montare i mobili da soli a partire da banale truciolato), le compagnie low cost (il prezzo del biglietto che su internet cresce a ogni click), i teenager attaccati al cellulare (immersi in una realtà unicamente virtuale) eccetera. In Italia argomenti di questo tipo sono stati trattati infinitamente da un gran numero di comici, da Fiorello a Brignano, da Paolo Migone a Dario Cassini.

Come network di canali Comedy Central, ci interroghiamo frequentemente su questi argomenti. L’idea di base è trovare il minimo comun denominatore tra le diverse forme di comicità, con il sogno di costruire un prodotto nuovo che possa incontrare le risate di un pubblico che si assomiglia per caratteristiche demografiche, ma che vive a moltissimi chilometri di distanza. Il progetto è ambizioso e forse impossibile. Per scrivere queste righe, mi sono confrontato con i direttori dei vari canali Comedy Central nel mondo. È emerso che ovunque ridiamo delle stesse cose ma che queste sono declinate e vestite con un aspetto locale. Scavando in profondità, abbiamo osservato che in quasi tutti i paesi gli archetipi comici sono spesso analoghi, ma poi si declinano all’interno della storia culturale dei diversi popoli. Per esempio, i contrasti e le differenze sono un tema comico essenziale, affrontati attraverso tutte le tipologie del genere, dalla satira al cabaret, dal monologo al demenziale. La differenza geografica permette una gran varietà di spunti comici. Tuttavia, il contrasto tra catalani e spagnoli è del tutto particolare e non è comprensibile per chi non lo vive. Ho assistito a un monologo di Toni Moog, un comico di Barcellona, in cui le battute erano incentrate sulla contrapposizione, spesso di significato, dell’idioma castigliano e quello catalano. Il pubblico impazziva, noi “stranieri” non abbiamo capito nulla. Questo genere di contrasti si trova ovunque: per esempio svedesi e norvegesi sono i soggetti delle barzellette nei rispettivi paesi confinanti.

Nelle realtà multietniche la convivenza razziale genera un gran numero di battute comiche che hanno diversi gradi di irriverenza e cattiveria direttamente proporzionali alla difficoltà di integrazione. Per esempio: in Sudafrica il razzismo è sempre stato un problema, e anche oggi lo sguardo comico su questi aspetti è estremamente diffuso e spesso ha punte di satira molto efficaci. In quel paese praticamente ogni razza ha una religione diversa e, anche se dal punto di vista legislativo vi è tolleranza, non sempre le cose vanno di pari passo nei costumi e nell’atteggiamento comune. John Vlisman, uno dei più brillanti comedian sudafricani, in uno show radiofonico notturno si è finto un prete cristiano che parlava di induismo (in quel caso l’idea era sfottere le scarse conoscenze che i cristiani hanno delle altre religioni). Replicato la domenica mattina in un altro contesto, è stato scambiato per un vero prete e gli induisti, incazzati, lo hanno fatto cacciare dalla stazione radiofonica.

Esistono invece alcuni generi comici che hanno maggiori possibilità di successo nell’esportazione. Uno di essi è la parodia, laddove chiaramente l’oggetto del dileggio abbia gran notorietà e sia parte del cosiddetto mercato globale. Al cinema questo filone sembra dare risultati confortanti. Un altro genere universale nel comedy è poi il prank show, ovvero gli scherzi, le candid camera, ma anche la gente che si fa male nei modi più assurdi o gli imprevisti nella vita di tutti i giorni. Su questo parecchi paesi hanno costruito molte produzioni di successo, utilizzando lo stesso materiale. Gli sforzi di localizzazione sono spesso limitati a un voice over semplice da costruire e spesso poco incisivo sui budget. Sia nel caso della parodia sia nel mondo delle candid, abbiamo una declinazione del genere comedy molto leggera, sicura, poco caratterizzante e spesso ripetitiva.

I contrasti e le differenze sono un tema comico essenziale. Per esempio, la differenza geografica permette una gran varietà di spunti. Tuttavia, il contrasto tra catalani e spagnoli è del tutto particolare e non è comprensibile per chi non lo vive.

Se te lo spiego, non fa ridere

Credo che i comici migliori, quelli che lasciano un segno nella gloriosa storia di questo genere, abbiano sempre avuto il coraggio di sorprendere, di uscire fuori dalle righe, di provocare, senza porsi remore di carattere morale e senza aver paura di offendere qualcuno, anzi restando convinti di aver centrato l’obiettivo se questo accade. I migliori esempi sono Stephen Colbert che ha sparato in faccia a Bush battute al vetriolo sulla guerra, o in Australia Jeff Jeffries che è stato addirittura preso a pugni sul palco durante una sua esibizione e ha cercato di integrare le botte all’interno dello spettacolo (trovate tutto nel suo dvd capolavoro Contraband). Anche Daniele Luttazzi, per fare un esempio italiano, sta pagando duramente il prezzo per aver fatto una satira pura e coraggiosa. Siamo di fronte ad artisti unici, che non sopportano etichette nazionali. Ogni paese ha il suo, e spesso si tratta anche di pionieri delle nuove forme del genere, spostando il limite del dicibile (e, ahimé, scontrandosi frequentemente con la censura). Ovviamente, essendo la comicità, almeno quella del monologo e della parola, basata sui tempi, sulla capacità di afferrare l’esatto istante della risata (“battuta” è infatti un termine ritmico e musicale), sono per definizione in-doppiabili e non sortiscono lo stesso effetto laddove sottotitolati. Bisogna sapere la loro lingua, e saperla bene. Questo è il limite principale al poter fruire dei monologhi di altri paesi, ma l’arte della comicità non ha regole e non sopporta mai nessun confine.

C’è quindi una certa carica turbativa negli effetti che i comici creano nel quotidiano. Alcune volte avviene che vengano travisati e non capiti, che il punto di vista ironico sia preso per vero e si perda l’effetto comico, o peggio: che siano presi sul serio. Altre volte i comici provocano, e lo fanno proprio con l’intento di far arrabbiare, e quindi o i dileggiati cascano nella trappola e gonfiano i muscoli o trovano modi più subdoli per rendere la vita difficile ai giullari. La lezione degli americani, che da anni hanno preso seriamente tale dibattito, ci insegna che il comico ha comunque l’esigenza strutturale di provocare una reazione. È l’ontologia del ridere, anche se l’asticella della provocazione può assumere varie gradazioni di altezza, e vertigine: dai comedian più estremi, impegnati politicamente, come Jeneane Garofalo (“Se un comico deve aver paura di pestare i piedi a qualcuno o non vuole fare incazzare nessuno, allora a che serve?”), a quelli più mainstream come Jay Leno (“La mia prima responsabilità da comico è cercare di far ridere; se il pubblico ne riesce a trarre qualcosa, tanto meglio, ma io scrivo solo battute e cerco di non offendere nessuno”).

C’è però un punto, forse banale ma che accomuna tutti: la risata è comunque il fine a cui tendere. Ridere è (parafraso Bergson) un movimento spontaneo del nostro corpo, qualcosa che non possiamo controllare, uno shock improvviso per la nostra pancia. È una questione irrazionale. Per questo una battuta se spiegata non fa più ridere. Per questo nella comicità l’immediatezza, anche linguistica, politica, sociale è tutto: basta un attimo e il colpo ci sfiora e non ci percuote, missione fallita. Le battute si chiamano così mica per niente, devono colpirci lì, nel mezzo. È tutta una questione di ombelico.


Alessandro Grieco

È stato redattore per Bompiani Cinema, poi distributore per Mikado. La maggior parte del tempo l'ha passata tra programmazione tv, acquisizione diritti e costruzione dei programmi, lavorando a Tele+, poi a Mediaset e a Comedy Central Italia.

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