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Testimonianza

Scene dalla televisione russa

A metà degli anni Zero, la politica e i media russi sembravano al centro di un cambiamento. Ma questi indizi, raccolti sul campo da chi era là e rimessi in fila ora, assumono un sapore molto diverso.

Se penso al 2006, mi viene subito in mente un’immagine: un telefono antracite dai tasti consumati e, accanto, un piccolo televisore che trasmette Kadetstvo, una serie che in tre stagioni ha raccontato la vita dei cadetti di un’accademia militare russa. Nel 2006 ero a Mosca e la sera il tempo era scandito da questi due apparecchi. Prima che cominciasse la programmazione del prime time, io e le mie compagne di studi ci alternavamo al telefono per chiamare le nostre famiglie, seguendo una procedura astrusa e snervante: digitavamo con pazienza i lunghi codici contenuti in una tessera telefonica prepagata, seguiti dal nostro numero di casa, finché non si imbroccava il codice “giusto”, quello che in quel momento corrispondeva a una linea libera, e finalmente il confine si rompeva e si parlava con l’Italia.

Cambiamenti veloci

Un anno e mezzo prima, il sistema era lo stesso ma non avevamo il lusso di un telefono in camera. Nello studentato, un ragazzo mongolo vendeva queste schede a prezzo maggiorato concedendo in cambio l’uso del suo apparecchio. In puro stile sovietico, si faceva la fila nella sua stanza, che sembrava avere la porta perennemente aperta, con una mancanza di privacy degna di una kommunalka. Io, quando parlavo con mia madre, non sapevo dove guardare. Non volevo invadere con il mio sguardo lo studente che aspettava accanto, taciturno, alla sua scrivania, in quel suo piccolo spazio già invaso da perfetti sconosciuti. Così fissavo la cartina della Mongolia appesa a una parete. L’avrò guardata per molti minuti, per settimane, senza memorizzarne nulla. Era un oggetto estraneo, come ero estranea in quella stanza, e guardandola mi rimandava, come uno specchio, questa immagine di ignoranza reciproca. Di televisori, non ce n’erano.

Nel giro di poco le cose erano migliorate. Nel 2006 con il mio visto studentesco potevo acquistare una Sim russa, ma non era abilitata alle chiamate internazionali. Non restava che sperare di prendere subito la linea sul telefono accanto al televisore, in tempo per guardare i programmi tv. La serie Tridcatiletnie (32 episodi nel 2007) raccontava proprio i rapidi cambiamenti della Russia, portando sullo schermo la generazione dei trentenni: coloro che, nati nell’Urss, si ritrovavano a vivere nella Federazione Russa, un Paese i cui valori e costumi stavano mutando nel giro di pochissimo. Nelle pause tra un programma e l’altro, mettevo a mollo vestiti e lenzuola nella vasca da bagno scrostata, domandandomi quanti russi possedessero il Retona, un aggeggio a ultrasuoni costantemente pubblicizzato in tv, che consentiva di fare il bucato a mano disinfettando i capi, supplendo all’assenza della lavatrice nelle case.

Alle 22 sul canale TV-Centr compariva una scritta su fondo rosso e una voce profonda e perentoria diceva: “Sono le dieci: i vostri figli sono a casa?”. Mi metteva ansia quell’invito a responsabilizzare i genitori, l’implicito stato di abbandono dei figli (o la loro implicita propensione alla criminalità), quel taglio netto operato da quello schermo del colore dell’allarme: oltre le dieci di sera la città diventa pericolosa, i più piccoli devono rincasare ed essere difesi dalle coltri che calano sulle imperscrutabili notti russe. Mi chiedevo se anch’io, le sere in cui uscivo, avrei fatto meglio a non stare in giro fino a tardi, se non stessi camminando in una giungla, ignara dei predatori che la popolano, senza uomini forti dalla voce baritonale a proteggermi. Nel 2009 il coprifuoco delle 22 fu imposto per legge ai minorenni.

Ordine pubblico

Kadetstvo, andata in onda dal 2006 al 2007 per un totale di ben 160 episodi in due anni, non era l’unica serie tv incentrata su figure militari o attinente all’ordine pubblico. C’era Soldaty, sedici stagioni dal 2004 al 2014 più almeno due spin-off, che raccontava l’addestramento e gli amori di un gruppo di soldati, e le cui locandine testimoniavano entrambi gli aspetti della narrazione: un paltò grigio-Paša Antipov con una margherita infilata nella martingala, un collage di foto dei protagonisti in uniforme mimetica con un gatto rosso al collo di uno dei personaggi. C’era Oficery, a tema guerresco ma più drammatico; Morskie D’javoly (sei stagioni più diversi spin-off iniziata nel 2005 e terminata nel 2019), una delle tante serie incentrate su un gruppo di valorosi membri delle forze speciali; Morskaja duša, sul comandante della nave da guerra Vladimir; Vozrašenie Muchtara, serie di 990 episodi sulle indagini di un’unità cinofila della polizia; Zakon i porjadok (remake di Law and Order), e soprattutto la più longeva di tutti, Ulizy razbitych fonarej, serie crime ambientata a San Pietroburgo di cui furono girati 500 episodi, dal 1998 al 2019, e che diede vita ad almeno due spin-off (Ubojnaja sila e Banditskij Peterburg). Ce n’erano molte altre. Nel 2007 si contavano almeno 16 serie tv ad ambientazione militare. Quello stesso anno uscì anche un musical dedicato a una banda musicale dell’esercito. In quegli anni si combatteva in Cecenia, il nonnismo nell’esercito causava la morte di molti militari di leva, i cadetti che incrociavo per le strade moscovite sembravano spensierati come nella serie tv. Le proteste per la guerra in Cecenia erano permesse, ma poco frequentate, e guardate a vista da poliziotti con il fucile semi-automatico in spalla. Specnaz, una miniserie del 2002 sulle imprese delle forze speciali russe, fu bandita in Ucraina all’indomani dell’invasione del 2014, in quanto propaganda di un corpo militare della Federazione russa.

Alle 22 sul canale TV-Centr compariva una scritta su fondo rosso e una voce profonda e perentoria diceva: “Sono le dieci: i vostri figli sono a casa?”. Mi metteva ansia quell’invito a responsabilizzare i genitori, l’implicito stato di abbandono dei figli (o la loro implicita propensione alla criminalità), quel taglio netto operato da quello schermo del colore dell’allarme: oltre le dieci di sera la città diventa pericolosa, i più piccoli devono rincasare ed essere difesi dalle imperscrutabili notti russe.

Queste serie-fiume avevano una qualità di scrittura e recitazione bassissime, ma si alternavano sporadicamente alle riduzioni tv dei classici della letteratura russa, dove superbi attori di teatro compensavano il misero budget per la fotografia e gli effetti speciali, capaci di retrodatare visivamente di una ventina d’anni una produzione attuale. Poi c’erano le telenovele, molte incentrate su storie di giovani e belle provinciali čechoviane che andavano a Mosca in cerca di successo. Nel complesso, questi prodotti erano di gran lunga inferiori alle fiction italiane, a cui invece somigliavano quanto ad aspirazione di rassicurante fenomeno nazional-popolare, diretto a un pubblico interno.

Il paragone con i prodotti americani sarebbe inutile, se non fosse che in quegli anni andava in onda Moja prekrasnaja njanja, l’adattamento russo della sitcom La tata (The Nanny). Qui l’espansiva e sgargiante tata di un ceto meno abbiente (ebrea del Queens nell’originale, ciociara nella versione doppiata in italiano grazie a mirabolanti acrobazie traduttive e retoriche, che pure ressero per anni) era incarnata da un’ucraina. Era una sitcom inguardabile ma dal grande successo: sette stagioni, 173 episodi. L’estetica dei personaggi era prevedibile quanto la trama e la scrittura. Mora e procace lei, nuovo ricco lui, con la frangetta corta tanto diffusa tra gli uomini russi, che a noi ricorda il taglio pigro e infantilizzante che da noi si propinava ai residenti dei manicomi e suggerisce involontariamente un’area di stolidità, oltre che di arretratezza e di “sovieticume”. I personaggi della tv, i cadetti, gli uomini allampanati che incontravi in metropolitana avevano questo taglio, oppure erano calvi o rasati a zero. Con l’eccezione di Putin.

Lui aveva i capelli all’europea, lo sguardo gelido e misterioso e il raffinato accento di San Pietroburgo. La sua faccia era ovunque, sulle matrioske (accanto a quelle che raffiguravano Berlusconi e il presidente degli Stati Uniti, ai due poli dei rapporti diplomatici russi), sulle magliette, alle pareti degli edifici pubblici. Al suo ritratto non facevi caso, come in Italia non si fa caso al crocifisso nelle scuole e al commissariato. Associamo il volto di un capo di stato alla dittatura, il crocifisso all’italianità, alla cultura o propaganda cattoliche. In entrambi i casi, sono immagini neutre per chi le guarda, l’occhio a malapena le registra. In entrambi i casi, se vengono notate, è perché fanno storcere il naso. Noi non lo sapevamo, ma Putin si era trasformato in un meme quando ancora non esistevano i meme. Lo aveva fatto da solo, controllando alla perfezione la sua immagine, prestandosi allo scherzo, riducendosi a innocua caricatura su un souvenir kitsch (ma pur sempre attorniato da altri capi di Stato souvenirizzati), moltiplicandosi.

Sosia e ritratti

In un episodio di Moja prekrasnaja njanja ambientato a Courchevel, meta per eccellenza dei nuovi ricchi post-Urss, i protagonisti incontrano Putin, che è interpretato da Anatolij Gorbunov, considerato uno dei suoi sosia. Quando i giornali italiani parlano dei diversi sosia di Putin immaginando pittoresche strategie da Kgb (d’altra parte, il passato del presidente della Federazione russa si presta ad alimentare tali fantasie), penso a quanto sia più prosaica la realtà. Putin è un segno che si autoreplica e i suoi sosia sono attori che gli somigliano e lo perpetuano in tv, ricordando ai russi della sua presenza, ritraendolo a volte anche in toni satirici, ma sempre pre-approvati, come nel caso delle imitazioni del comico Dmitrij Gračev (altro suo “sosia”), che Putin commenta divertito, affettando la capacità di ridere di se stesso. 

Nel 2007 si contavano almeno 16 serie tv ad ambientazione militare. Quello stesso anno uscì anche un musical dedicato a una banda musicale dell’esercito. In quegli anni si combatteva in Cecenia, il nonnismo nell’esercito causava la morte di molti militari di leva, i cadetti che incrociavo per le strade moscovite sembravano spensierati come nella serie tv. Le proteste per la guerra in Cecenia erano permesse, ma poco frequentate, e guardate a vista da poliziotti con il fucile semi-automatico in spalla.

Mentre mi destreggiavo con la burocrazia universitaria, nell’autunno 2006, il ritratto di Putin era appeso nelle stanze degli uffici amministrativi dell’università, dove babe scorbutiche stavano ore attaccate a chiacchierare al telefono, piluccando pannose torte da discount che ogni giorno apparivano misteriosamente sulle loro scrivanie. Era appeso anche nella biglietteria della prima Biennale d’arte contemporanea di Mosca, dove l’ammirazione di una manciata di opere mi offriva riparo dal gelo un pomeriggio di gennaio del 2005. C’era una grande sala, occupata per un terzo da un’enorme scultura astratta e architettonica di cui non ricordo quasi nulla, né la forma né i colori esatti, né chi fosse l’artista. Ricordo però che io e l’amica italiana che era con me la guardavamo scoraggiate, forse perché ci aspettavamo qualcosa di più da una Biennale, forse perché quei solidi aggettanti, apparentemente casuali, erano estranei, fuori posto. Mosca stava cambiando, ma non tutto si incastrava alla perfezione con l’Europa che aveva coltivato una classe borghese capace di produrre arte non didascalica o puramente ludica. Il guardiano della sala notò il nostro sguardo malinconico e ci chiese come mai eravamo tristi, cosa in quella scultura ci desse tanto scoramento. Prima che potessimo rispondere, ci fece un’altra domanda: “Di dove siete?” Italiane. “Ah! Ma lo sapete che io sono nato il 28 settembre?” Noi ci guardammo attonite. “Non sapete chi è nato il 28 settembre?” Ancora nulla. “Marcello Mastroianni!” Mastroianni era venerato in quanto incarnazione maschile della dolce vita, simbolo dei film italiani, tra i pochi prodotti culturali che penetravano la cortina quando l’Urss censurava l’Occidente (oggi, in un’inversione di ruoli, è l’Occidente a non inviare in Russia i prodotti culturali).

Invasioni

Con il crollo dell’Urss penetrò tutto. Entrarono la musica metal, McDonald’s (che, come il cinema e altri prodotti occidentali, non è sopravvissuto agli ultimi eventi) e telenovele come Beautiful, che non erano doppiate né sottotitolate ma trattate con un voice-over totalmente monocorde, robotico, che impediva di distinguere alcuna emozione, con il risultato che i dialoghi apparivano insovrapponibili alle immagini sullo schermo. Il tono, vagamente minaccioso, era quello di certi interpreti simultanei che traducono in italiano i giornalisti russi nei nostri talk show, facendoli sembrare ancora più freddi e distanti, capaci, persino loro, di imbracciare un’arma senza battere ciglio e dirigere un plotone o di avvelenare un dissidente. Eppure, la fame di prodotti occidentali e in particolare americani, mai visti prima, compensava questo trattamento de-umanizzante. 

Più tardi vennero i programmi su medium e fenomeni paranormali, stavolta prodotti in casa e trasmessi sulle reti nazionali e private con una bulimia di puntate paragonabile a quella delle telenovele o delle serie a tema poliziesco-militare. Nel 2007 il canale Tnt cominciò a produrre lo spettacolo probabilmente di maggior successo su questi temi, Bitva extrasensov, che ricalcava il format dello show inglese Britain’s Psychic Challenge. La “sfida tra medium” va avanti da 22 stagioni e quest’anno è approdata alla 23esima col titolo Novaja bitva extrasensov (Nuova sfida tra medium). Nelle foto del sito ufficiale, i concorrenti e i vincitori delle passate edizioni sembrano usciti dal cast di House of the Dragon. Alla trasmissione partecipano sensitivi non solo russi, ma anche cittadini russofoni delle ex repubbliche dell’Unione Sovietica (come Bielorussia, Azerbaigian, Georgia, Kazakistan), i quali hanno dalla loro l’esoticità e quindi, parrebbe, indirettamente un legame più intimo con il paranormale.

Era il programma a cui si abbeverava quotidianamente T., la badante di mia nonna. Moscovita, da ingegnera iperspecializzata si era trasferita insieme al marito nel compound di un centro di ricerca in Siberia. Con il crollo dell’Urss non si vide più recapitare lo stipendio e scoprì ben presto che le sue mansioni non sarebbero state più richieste. Il matrimonio non sopravvisse allo sconquasso, alla lotta per uscire dalla povertà affrontata da chi, come lei, lavorava per un governo che all’improvviso non esisteva più. Quando T., e con lei milioni di russi, poterono tirare il fiato e sperare in un futuro migliore per i propri figli (chi era riuscito a tenerseli, e a nutrirli, i figli, anziché soccombere all’alcolismo), c’erano Putin al potere e questi programmi in televisione. L’anno che mia nonna peggiorò, sarà forse stato il 2011, passai diversi pomeriggi a chiacchierare di letteratura con questa donna di scienza che, a una certa ora, si annullava davanti allo schermo del suo portatile e guardava in streaming persone che si muovevano nella neve, tra grigi palazzoni identici, mentre spiegavano, gesticolando con gli amuleti tra le mani, come avevano fatto a trovare una persona scomparsa o a parlare con gli extraterrestri. T. prolungava la sua catartica esperienza televisiva riepilogando per me i fatti salienti di una puntata o raccontandomi con tono iniziatico a cosa aveva assistito in uno dei vari altri programmi dedicati allo spiritismo. Anche le serie tv sul paranormale cominciavano ad affermarsi: dai soli quattro titoli dedicati al genere “misticismo” del 2007 si è arrivati ai quattordici nel 2022.

Oggi la mia frequentazione dei contenuti video russi è limitata a Tiktok e a un uomo che quasi ogni giorno si filma mentre trangugia vodka, cetrioli sottaceto e imponenti fette di maiale mentre in sottofondo si ripete sempre la stessa musica: la versione al kazoo di una hit di una rock band mongola. Lui ha i denti di metallo, i lineamenti vagamente asiatici che fanno supporre viva nella Siberia orientale (magari proprio al confine con la Mongolia), indossa a rotazione quattro t-shirt e nello stesso angolo del suo rifugio di legno celebra ogni volta un rito preciso, senza mai concedere nulla di più che quello: si versa la vodka, porta il bicchierino al naso e poi alla bocca, beve, e sventola la mano come un bambino che ha mangiato un piatto troppo piccante. Quindi comincia ad affettare la sua colazione a base di lardo o zoccolo di qualche ungulato e, dimostrando la robustezza delle sue protesi dentali e la croccantezza del prodotto, azzanna un cetriolo, che non mangia mai per intero, ma ripone, mezzo morsicato, nel barattolo. I suoi follower aspettano ogni giorno un nuovo contenuto, commentano con affetto, notano con perplessità ogni minima differenza fra i video, come la posizione delle bottiglie di vodka, delle grappe cinesi o del pane in cassetta, l’uso di un pugnale più o meno esotico per affettare il cibo o l’origine del pesce al sale appeso dietro la sua testa. Si domandano quanti anni abbia, dove viva, cosa mangi di preciso. Senza mai ricevere risposta.


Francesca Mastruzzo

Lavora in editoria come redattrice e traduttrice dall’inglese e dal russo. Ha scritto per A, The Towner, Finzioni, il Venerdì di Repubblica.

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