immagine di copertina per articolo Ok Zoomer. Media, linguaggi e scontri generazionali

Ok Zoomer. Media, linguaggi e scontri generazionali

A esplodere è stato il corsivo, ma quella polemica è solo il coronamento di un latente scontro tra generazioni che passa anche per la lingua. Come è stato sempre, ma nei più recenti sviluppi delle culture digitali sembra succedere più che mai.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 29 - Mediamorfosi 3. Gli anni delle piattaforme del 10 ottobre 2023

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“Maestro, che cosa vuoi che faccia io per te? E lui rispose: love, love, love”, racconta il Carlo Verdone hippy di Un sacco bello alla riunione familiare indetta da Mario Brega per contrastare la deriva porno-anarchica della gioventù che pratica l’amore libero e si affida alla guida di un santone. Quando Verdone parla nei panni del figlio dei fiori, fascetta in testa e tuniche larghe, ripete ossessivamente la locuzione “un sacco”: un sacco di fiori, un sacco di profumo, un sacco di uccelli, mi sentivo un sacco caldo, poi un sacco freddo. Per certi versi, ricorda il personaggio femminile di Ecce bombo, film uscito due anni prima di Un sacco bello, nel 1978, con cui Nanni Moretti chiacchiera in mezzo al prato per farsi spiegare come sopravvive la ragazza nel suo nomadismo bohemien. “Faccio cose, vedo gente, giro”, è la citazione quasi letterale rimasta tra le più memorabili di quel ritratto generazionale – non lo era, ma lo è diventato – che fu il secondo lungometraggio di Moretti. Una generazione, appunto, quella dei ventenni italiani degli anni Settanta, di cui sono rimaste vivide le parole, gli slogan, i modi di dire, oltre che gli abiti e le idee. La lingua come testimonianza di un sentire che non necessariamente nasce collettivo ma che, per forza di cose, resta nel tempo come etichetta, come forma rappresentativa di un dato momento e di un gruppo sociale che, fino a un secolo fa, neanche esisteva, i giovani. Cosa direbbero quarant’anni dopo i due hippy nel salotto di Mario Brega? Al posto di fascio magari un ok boomer, al posto di love, love, love, un amioe?

Boomerissimi noi

Sono passati ormai tanti anni da quando l’espressione “Ok, boomer” è diventata di dominio pubblico, fino a staccarsi quasi completamente dal significato originario e a estendersi verso un campo semantico nuovo. In origine, il meme era una risposta degli zoomer, i nati tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Zero, al paternalismo dei cosiddetti baby boomer, le persone nate tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Sessanta. Con una certa aria di sufficienza tipica dell’adolescenza, ok boomer aveva il compito di liquidare qualsiasi polemica che si ripete puntualmente a ogni passaggio generazionale sui giovani che non hanno voglia di fare nulla, che non si rimboccano le maniche, e che, novità dell’ultimo decennio, stanno sempre al cellulare. Fin qui tutto bene. Poi però, la questione si è allargata in modo incontrollabile: abbiamo cominciato a chiamare boomer qualsiasi persona che, a prescindere dall’età, stesse manifestando poca padronanza di usi e costumi dei teenager e quindi di internet. Boomer è chi sta su Facebook e scrive cose cringe, boomer è chi non sa usare bene le emoji, boomer è chi ti telefona invece di mandarti un messaggio, boomer è chi ascolta i video a tutto volume in autobus. 

Boomer, in sostanza, è un luogo dell’anima. Soprattutto, boomer è chi non capisce i trend del momento, che si tratti di musica o di abiti: durante il sessantatreesimo Festival di Sanremo, il presentatore Amadeus lo ripeteva parlando di sé ogni volta che si trovava uno smartphone in mano per una gag da mettere in scena con l’influencer Chiara Ferragni basata, per esempio, sul leggere i meme, tipica attività da millennial e Gen Z. Su Raidue, il ritorno trionfale di Alessia Marcuzzi è avvenuto tramite un format che fa dello scontro tra boomer e millennial il cuore pulsante del racconto, Boomerissima. Poco importa poi se i concorrenti della faida, come Paola Barale, nata nel 1967, o Francesco Facchinetti, nato nel 1980, non siano certo figli del boom economico ma semmai, a essere precisi, della Generazione X.

L’importante è il fine, testare quanto si può spingere il pedale della nostalgia attraverso la tifoseria. Un meccanismo che funziona bene per la sua semplicità elementare non solo in televisione ma anche, soprattutto, sui social, dove i trend giovanili si susseguono come un flusso costante di novità che si interseca accidentalmente con la bolla degli adulti. 

Odi et amiœ

La moda è coesione e differenziazione, diceva già il sociologo Georg Simmel alla fine dell’Ottocento. In linguistica si chiama idiosincrasia quel fenomeno per cui in un gruppo ristretto i parlanti creano un nuovo modo di esprimersi tra loro. Coesione e differenziazione, un codice che distingue chi lo usa dal resto della maggioranza, un modo per non farsi capire, per identificarsi all’interno di una realtà altra. Quando i primi video della “professoressa di corsivo”, la ventenne recente star del web Elisa Esposito, hanno cominciato a circolare tra un pubblico molto più ampio rispetto a quello a cui erano indirizzati, le reazioni sono state di sgomento. Perdizione, corruzione, oltraggio alla nostra pregiata lingua, più che sciacquare i panni all’Arno Elisa Esposito sembrava averli bruciati in pubblica piazza. Nella tarda primavera del 2022, la sua lezione di corsivo 101 è diventata così virale da renderla un personaggio da prima serata televisiva, oltre che autrice di un manuale pubblicato da Mondadori. Amioe. Il manuale di corsivoe è il titolo dell’opera prima di Esposito, un tempo estetista, modella OnlyFans, tiktoker e soprattutto triggeratrice professionista di boomer. Ma per quanto il fenomeno del corsivo parlato in italiano, calco dall’inglese cursive speaking, sia diventato un argomento di interesse pubblico al punto da spingere il ministro Matteo Salvini a un tu per tu con la professoressa di corsivo, non è confinabile solo alla diffusione delle videolezioni di Esposito. 

Abbiamo cominciato a chiamare boomer qualsiasi persona che, a prescindere dall’età, stesse manifestando poca padronanza di usi e costumi dei teenager e quindi di internet. Boomer è chi sta su Facebook e scrive cose cringe, boomer è chi non sa usare bene le emoji, boomer è chi ti telefona invece di mandarti un messaggio, boomer è chi ascolta i video a tutto volume in autobus.

La sua fortuna è stata quella di individuare un buon metodo per rendere strutturato qualcosa che in realtà esisteva già in forma arbitraria all’interno della comunità linguistica giovanile contemporanea, non solo come modo di parlare ma anche di scrivere e, aspetto interessante del fenomeno, di cantare. Il parlare in corsivo, infatti, si accompagna anche a due altre varianti centrali per la sua diffusione: scrivere in corsivo e cantare in corsivo. Ospite del podcast Muschio selvaggio, Sangiovanni, cantante nato nel 2003, stesso anno di Elisa Esposito, alla domanda del presentatore Fedez “Se io ti dico: cantare in corsivo. Ti dice qualcosa?” risponde con un’altra domanda che arricchisce il discorso. Sangio, secondo classificato dell’edizione del 2021 del talent show di Canale Cinque Amici di Maria De Filippi, tra le più viste nella storia del programma, un cantante che è un concentrato di cultura pop zoomer – abiti rosa, citazioni all’estetica y2k, record di ascolti su Spotify – tira in ballo il cosiddetto muble rap, detto anche SoundCloud rap, un genere molto in voga nella scena hip hop degli ultimi dieci anni che ha fatto proprio del trascinare le parole la sua cifra stilistica. Dall’enciclopedia Treccani: “La moda di cantare corsivo consiste principalmente nella dittongazione parassitaria di alcune vocali, assecondando il flow del testo”. Qualche esempio: Sangiovanni, ThaSupreme, Blanco, Madame, Rkomi. Tra gli artisti più seguiti e amati nella GenZ italiana ci sono quelli che di questa dittongazione parassitaria delle vocali, di quel suono strascicato, nasale e canzonatorio che la prof di corsivo ha introdotto al mondo, hanno fatto un cavallo di battaglia. 

Ma non finisce qua: altro elemento centrale della diffusione di questa moda linguistica giovanile, oltre alla musica, che già di per sé è il veicolo principe delle mode giovanili degli ultimi settant’anni, da Elvis in poi, è certamente il testo. Essendo una tendenza diffusa quasi totalmente nei social, ed essendo i social mezzi di comunicazione in cui la presenza testuale fa parte della messa in scena tanto quanto suono e immagine, il corsivo parlato trova una sua forma di scrittura che non è quella del corsivo nell’accezione comunemente diffusa. Come si rende la montagna russa vocalica che stira ogni sillaba con alti e bassi se non con una scrittura altrettanto visivamente spezzettata come quella del cörsivœ? Forma e contenuto si influenzano a vicenda.

Sposerò Simon Le Bon

Nel 1977, il filosofo e intellettuale Paolo Flores D’Arcais e Giampiero Mughini scrivono un breve saggio dal titolo Il piccolo sinistrese illustrato. Dice Giorgio Bocca nell’introduzione al volume sul sinistrese: “Una invenzione linguistica, collettiva e spontanea, di rapida e facile comunicazione, intesa a coprire la mancanza di idee generali e di prospettive per il futuro che è dell’intera nazione e forse dell’intera civiltà industriale e di definire in qualche modo, di etichettare, chi pensa di stare a sinistra, di militare nei partiti e nei movimenti della sinistra, vecchia e nuova, anche se non sa bene in cosa esattamente consista”. Una invenzione linguistica, collettiva, spontanea, che nel caso specifico di questa opera satirica sul linguaggio ereditato dal Sessantotto si applica a un modello politico giovanile preciso e alla sua eredità ma che, tolta la parte più strettamente ideologica, vale anche per molti altri fenomeni simili. 

Nel libro di Paolo Morando 80. L’inizio della barbarie, c’è un intero capitolo dedicato alla sottocultura giovanile italiana simbolo del decennio del riflusso e figli del terreno culturale e politico che da lì a poco avrebbe dominato il discorso politico italiano degli anni Novanta: i paninari. I nostri piccoli Patrick Bateman di piazza San Babila con le Timberland e il Moncler parodiati dal comico Braschi nel contenitore di Canale Cinque Drive In avevano un vocabolario tutto loro a cui possiamo risalire grazie anche alla densa produzione editoriale che ha accompagnato questo breve ma intenso fenomeno: Paninaro. I nuovi galli esce con il suo primo numero nel gennaio del 1986. Al suo interno, “Il dizionario del panino”, “La moto galla”, “La scarpa giusta”, e poi, negli anni, centinaia di lettere spedite dai panozzi – e dalle panozze, che hanno un’altra rivista dedicata, Preppy. “Dear paninaro, chi ti manda il papiro è Alex, galloso di Fano, città delle Marche da non sottovalutare, qui infatti sono tutti paninari (perfino i sapiens) e non sappiamo neanche cosa siano dark, ciaina, metallari, truzzi”, scrive nel 1988 un affezionato lettore. Il fenomeno dei paninari può essere descritto come la prima vera sottocultura italiana d’esportazione: pensiamo al singolo dei Pet Shop Boys del 1986, Paninaro, o alla rivista contemporanea underground londinese di moda e calcio, chiamata anche questa Paninaro, sottotitolo “We are Saturday Kids who traveled in style”. Anche se, ad essere più precisi, come spiega la ricercatrice Olga Campofreda nel suo articolo Girls, Boys, Art, Pleasure: origine e alterne fortune dei paninari, tra edonismo anni Ottanta e proto-berlusconismo, “La parola più corretta impiegata per descrivere questo fenomeno è il termine «cluster», perché ben rappresenta l’idea di una concentrazione di tendenze e atteggiamenti – simili e simultanei – sviluppatisi in assenza di qualsivoglia intenzione oppositiva nei confronti del mainstream”. Il paninaro come cluster, gruppo di giovani appartenenti alla classe media che impone usi, costumi e linguaggi in opposizione generazionale agli adulti, a partire proprio dal cibo da cui prendono il nome, l’hamburger del fast food, simbolo per eccellenza del consumo giovanile di piazza San Babila prima e di molte altre piazze poi. La centralità di Milano, città che ha sempre guardato all’Europa e agli Stati Uniti, nel favorire un proliferare di nuovi cluster, associati a mode linguistiche e di costume, è innegabile. Facendo un salto di vent’anni avanti, e restando sempre su Milano, patria natia del paninaro ma anche del corsivo parlato, arriviamo al 2013, anno dello #Sbatti. Si sboccia, nel mondo de Il Pagante, trio canoro che sdogana al resto del Paese una serie di termini e modi di dire tipici del capoluogo lombardo che presto diventano di uso comune a livello nazionale; del resto, avevamo fatto l’Italia meno di due secoli fa, ora tocca a noi l’arduo compito di fare gli italiani. 

La lingua è un abito, un segno che contraddistingue prima ancora di oggetti e indumenti l’appartenenza a una categoria, in una missione tribale che unisce e connota una fase della vita, l’adolescenza e la giovinezza, in cui la ricerca dell’identità si delega al gruppo e che va in parallelo con il progresso tecnologico di cui si dispone: nel Sessantotto i giornali, negli anni Ottanta la televisione, negli anni Zero internet al suo stato primordiale e oggi nella sua compiutezza capillare.

Nel 2008, i dARI cantavano Wale (Tanto Wale), mettendo in scena il trend dell’estetica emo attraverso una missione grafica e fonetica: come si rende in musica il linguaggio dei blog e delle chat che all’inizio del secolo – xkè, xD e altri segni ormai estinti con la morte del T9, del tutto sostituiti dal geroglifico in emoji – esplode tra i giovani? Come si dice in questi casi, i dARI hanno camminato perché poi ThaSup corresse. Senza dimenticare i Gazosa con la loro WWW.MiPiaciTu, del 2001, un manifesto che sembra la versione post-millennium bug della poesia futurista Zang Tum Tum di Filippo Tommaso Marinetti con il web al posto delle macchine. La lingua è un abito, un segno che contraddistingue prima ancora di oggetti e indumenti l’appartenenza a una categoria, in una missione tribale che unisce e connota una fase della vita, l’adolescenza e la giovinezza, in cui la ricerca dell’identità si delega al gruppo e che va in parallelo con il progresso tecnologico di cui si dispone: nel Sessantotto i giornali, negli anni Ottanta la televisione, negli anni Zero internet al suo stato primordiale e oggi nella sua compiutezza capillare. 

Tutti insieme appassionatamente

Se non ci fossero i giovani non esisterebbe la cultura giovanile, potremmo dire con una tautologia. Affermazione scontata per le nostre orecchie contemporanee ma non ovvia in termini assoluti: la giovinezza, intesa come spazio di tempo tra l’infanzia e l’età adulta così come la conosciamo oggi, esiste da pochissimo, da quando esiste la scuola dell’obbligo. La riforma scolastica di Giovanni Gentile è del 1923, ma fu applicata in modo uniforme in Italia solo all’inizio degli anni Sessanta; negli Stati Uniti, tra il 1956 e il 1969 le iscrizioni all’università sono raddoppiate. La nascita di una nuova categoria sociale, quella degli under 25 che non lavorano ma che dedicano un lasso di tempo piuttosto esteso alla propria formazione, ha fatto sì che prendesse vita anche una nuova categoria di consumatori. “To keep this market churning, and to give the consulting industry something to sell to firms trying to understand (i.e., increase the productivity of) their younger workers, we have invented a concept that allows youth culture to be redefined periodically. This is the concept of the generation”, spiega Louis Menand sul New Yorker nel pezzo “It’s time to stop talking about generations”, mettendo la questione del conflitto generazionale su un piano più completo e distaccato dalle facilonerie nostalgiche in stile Ma che ne sanno i 2000?. Le generazioni che un tempo servivano come metro di misura familiare per descrivere le successioni della stirpe interne ora sono uno strumento del tutto esterno, un timbro, l’iperonimo della nostra essenza anagrafica. Sono una categoria di consumo e pertanto necessitano di un costante cambiamento in termini di gusti, carattere, personalità. I baby boomer sono paternalisti e hanno avuto la vita facile, la GenX ascolta gli 883 e usa molto Facebook, i millennial mangiano avocado e leggono Harry Potter, gli zoomer parlano in corsivo e fanno video su TikTok: ognuna di queste affermazioni è al contempo vera e falsa, così come tutte le speculazioni essenzialiste, proprio come un oroscopo o un biglietto in un biscotto della fortuna. C’è qualcosa però che, al di là del lungo discorso sull’esistenza di una connotazione generazionale che determina i nostri gusti e i nostri consumi culturali in quanto individui, va oltre ciò che è nato con la diffusione della scolarizzazione in Occidente.
Il motivo per cui nessun politico della prima repubblica si sarebbe messo a rispondere seriamente alla lettera di un paninaro, cosa che invece oggi succede con termini diversi ma con intenti simili, è che, per quanto le mode giovanili esistano in questa forma di slang e trend da ormai svariati decenni, fino a poco tempo fa la linea di confine tra età adulta e giovinezza era marcata non solo da un dato anagrafico ma anche dallo spazio, dal confine di azione. Internet, e la sua assenza quasi totale di barriere, ha messo insieme tutti, creando una torre di Babele inter-generazionale in cui si può osservare un quarantenne che litiga su Twitter con una sedicenne fan del K-Pop e ritenere che sia del tutto normale. Ciò che prima rimaneva sottocultura o cluster confinato ai suoi fruitori, fruibile all’esterno solo in determinate occasioni, adesso diventa di dominio pubblico in una dimensione di scambio che rende ancora più forte la necessità oppositiva e differenziale che veicola la determinazione, sia in quanto giovani che in quanto adulti. L’effetto di questa miscela esplosiva lo possiamo apprezzare ogni giorno, non appena un personaggio o una tendenza escono fuori dalla bolla del consumo predestinato e diventano, per esempio, Bello Figo Gu che dabba in faccia ad Alessandra Mussolini, o Rosa Chemical che viene interrogato su Sergio Mattarella. Non che prima non ci fosse scambio né intersezione tra i due o più mondi, adolescenti, semi-adulti, adulti: Totò sognava di tagliare le folte chiome dei capelloni in Capriccio all’italiana, film del 1968, prima di qualsiasi trend su TikTok, Alberto Arbasino creava un raffinato incontro e scontro di idee mettendo insieme artisti di due generazioni diverse in apparente contrasto con il suo programma Match negli anni Settanta. La grande novità del presente è che in quella riunione familiare indetta da Mario Brega ci siamo finiti tutti, tanto che sono gli stessi adulti a giocare con il senso di distacco dalle nuove generazione, dandosi da soli dei boomer, prendendo sul serio chi parla in corsivo, appianando implicitamente le gerarchie non nei contenuti ma nella forma, adeguata a quella contemporanea il cui funzionamento può sfuggire facilmente a un occhio poco aggiornato, in un’ottica molto diversa da quella sessantottina che puntava al superamento dei padri. Così il paternalismo non si è estinto, si è fatto voce e bandiera di polemiche quotidiane con cui generare contenuti dall’alto potenziale virale. Chi ci guadagna a stare così vicini, dunque, tra zoomer e boomer, è ancora tutto da capire: l’accorciamento della distanza generazionale, in termini di consumi e di esperienze, si traduce anche in una inevitabile ricerca di spazi sempre più isolati e protetti dove ciascuno può vivere un terreno comune come il web nella formula che più si addice alla propria età. Di sicuro però, così come settant’anni fa sono stati inventati i giovani come categoria di consumatori, oggi grazie a questa convivenza forzata abbiamo inventato anche il conflitto generazionale come brand.


Alice Valeria Oliveri

Autrice e musicista, si è laureata alla Sapienza in anglistica con una tesi di teoria della letteratura. Scrive su diverse testate online di cinema, tv, serie televisive, musica e attualità. Ha collaborato con Dude Mag, VICE, Noisey, Motherboard, Prismo, The Towner e The Vision, dove è stata redattrice.

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