immagine di copertina per articolo Non c’è storia
Il racconto televisivo

Non c’è storia

Quando funziona il racconto sul piccolo schermo: un viaggio nella tv della realtà dove le emozioni sono tutto quello che conta.

immagine rivista

Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 19 - Gente dovunque del 12 novembre 2015

Vedi pubblicazione

Lo studio è piccolo, in scena un gruppo di liceali giudiziosi: tra loro una ragazza – dove l’hai già vista? – si ravvia i lunghi capelli neri mentre un marchio in sovrimpressione segue tutti i suoi movimenti come il cursore di un mouse fuori controllo. Un microfono direzionale è puntato sull’ospite d’onore, al centro. Quest’uomo è molto più giovane dell’ultima immagine che hai di lui ma lo riconosci subito, è Gianni Letta. In questa vita è il direttore de Il Tempo e ora dà consigli di giornalismo ai ragazzi presenti. Ma che sta succedendo? Non fai in tempo a porti la domanda, nemmeno a immaginare di scorrere i tasti sul telecomando. Fine del flash-back. Si torna in studio, oggi, in diretta. La conduttrice è in piedi, si rivolge a qualcuno collegato al telefono, riannoda un filo interrotto chissà quando: “Allora Francesca, la scorsa settimana ci avevi contattato e siccome tu eri a scuola con Emanuela…”. Emanuela. Non serve che ora ti facciano ascoltare la telefonata arrivata tempo dopo a casa Orlandi, non serve l’appello agli altri compagni di classe presenti in quel programma, non serve che “dopo 30 anni siamo ancora qua a cercare la verità”. Hai già capito, ecco dove avevi visto quei lunghi capelli neri, è bastato il nome di una ragazza per farti entrare in questo mondo da cui tu, spettatore, potresti allontanarti in qualsiasi momento ma, semplicemente, non vuoi. “Per noi è davvero una grande emozione, queste immagini non erano mai uscite dal nostro deposito”. Rimani, anche se questa storia forse non finirà mai, di sicuro non adesso, non stasera.

Ci sono storie che sembrano film, sceneggiature già fatte, però attenzione, a un certo punto il film finisce e torniamo a casa, queste storie invece no, perché sono storie vere”
(Carlo Lucarelli, La tredicesima ora).

La tv italiana ha sempre raccontato storie. Questione di obiettivi. Informare? Educare? Trattenere. E per trattenere, a forza o con la ragione, quale mezzo migliore della cronaca, inesauribile bacino di persone, conflitti, drammi? Fame di realtà, fame di strada. Volendo isolare uno dei momenti decisivi: “Nasceva così (con Telefono Giallo, Linea Rovente e poi Chi l’ha visto) il racconto in diretta e cioè la messa in atto di una struttura narrativa in cui gli accadimenti più che essere riferiti venivano messi in scena” (Angelo Guglielmi, Stefano Balassone, Senza rete). Da lì in poi la cronaca raccontata non ha mai smesso di avanzare, ha conquistato praterie incontaminate di palinsesto e di share, fino a diventare una pratica di doping legalizzato.

Il Grande Romanzo Televisivo Italiano degli ultimi anni ha per protagonista una vittima, di solito donna. È onnipresente: a qualsiasi ora, in qualsiasi momento, qualcuno è morto o sta per morire. Il Grande Romanzo della cronaca funziona, produce reddito, si riproduce di stagione in stagione, senza sosta, malgrado il generalizzato disprezzo di chi non può capire la vera dipendenza: dopo una prima, seconda e terza serata a base di follia omicida, la mattina dopo ti svegli e hai ancora voglia di seguire “la nostra inviata da Ca’ Raffaello che ha ricevuto una segnalazione su una tomba che forse hanno scoperchiato”. Le mattinate e i pomeriggi scorrono così, a spasso nei cimiteri e negli obitori.

“La vocazione della nostra trasmissione è raccontare in modo vero, chiaro e appassionante il nostro Paese, le speranze e più spesso il dolore delle persone, ciò che succede nelle case, nelle strade e nelle piazze di paesi e città”
(da un servizio di Chi l’ha visto)

Come si fa a raccontare una, due, cento storie di cui non si conosce la fine? Come si fa ad applicare regole e tecniche narrative quando il caos ti impone la navigazione a vista? Ecco il paradosso del racconto della realtà. Non si possono fare progetti: la storia si scrive giorno per giorno, minuto per minuto. Bisogna ridefinire costantemente il quadro generale, ipotizzare puntelli provvisori cui appoggiarsi per i lanci successivi, dopo la pubblicità o all’inizio della prossima puntata. Bisogna fingere, imbrogliare, adescare. Narrare.

L’irresistibile fascino delle storie si è combinato con un esponenziale aumento di complessità e di competenze. Il redattore-autore si è evoluto, spirito di sopravvivenza, in story-liner alle dipendenze di story-editor il cui compito è manovrare i fili delle varie linee narrative. L’orizzonte di riferimento sono le serie stile CSI o Criminal Minds, snobbate da tutti i veri addicted seriali ma che nel tempo hanno fatto scuola, come ben sanno i #chilhavisters e tutti i #criminalers all’ascolto.

E poi ci sono le emozioni, dunque le lacrime. Cosa si è disposti a fare pur di ottenerle? La tv è come una linea dritta che scorre tranquilla finché non arrivano i picchi drammatici a darle senso.

Programmi come Quarto grado e Segreti e delitti sono figli della stessa mission, imbastire un enorme gioco di società, una sorta di Super-Cluedo in cui ognuno recita una parte: il colpevolista, il consulente della difesa, il seminatore di dubbi, l’analista scientifico. La Ricostruzione Filmata o il Documento sono importanti, ma determinante è lo studio tv, che si afferma come il luogo del delitto per eccellenza, dove tutto può essere rimesso in scena (se occorre, anche il ruscello in cui è stato ritrovato un cadavere). Conta lo zoom sul dettaglio, analizzato al microscopio, conta la presunzione di competenza masticata e rigettata in pasto al pubblico: intercettazioni, celle telefoniche, esami del Dna, epistassi, incidenti probatori, non luoghi a procedere.

Ma il racconto di questi pezzi di realtà può avere senso — e dunque efficacia — solo a partire da una costante chiamata in correità tra trasmissioni in teoria concorrenti. Perché se è vero che ogni giornalista vanta i propri meriti nella risoluzione di questo o quel mistero, e che tutti ormai applicano i propri simboli sulle foto delle vittime, per meglio marcare il territorio, è altrettanto vero che il risultato finale è una legittimazione reciproca. Un universo-mondo, né reale né fasullo, in cui si muovono figure che non sono più persone ma non ancora personaggi, ha bisogno che l’uno prosegua l’indagine dell’altro. Si può iniziare una puntata in medias res, senza spiegare o riepilogare, proprio perché ieri, o venti minuti fa, lo ha già fatto il tuo nemico.

Poi ognuno troverà il modo di costruire un rapporto di fiducia con il pubblico, a base di credibilità o empatia. Così può succedere che un’inviata trovi un proiettile proprio sul luogo di un presunto delitto e lo spettatore lo accetti senza porsi domande, come se fosse vero. O che una conduttrice riesca a saldare il legame con chi la sta guardando da casa, sottolineando la fusione tra se stessa e il format della propria trasmissione (“Anche io sono stata protagonista di una storia vera quest’anno, è mancato mio fratello, aveva 44 anni ed era un ragazzo autistico”, Eleonora Daniele, Storie vere). Siamo probabilmente nel punto più lontano da quell’Augias placidamente seduto sulla poltrona di Telefono giallo mentre spiega la differenza tra “prefisso per chi chiama da fuori Roma e numero urbano”. Ma il bello deve ancora venire.

“State per vedere una storia d’amore incredibile, come non ne avete mai viste. Seguite attentamente, perché rimarrete… senza parole”
(Anna Tatangelo, About Love).

E poi ci sono le emozioni, dunque le lacrime. Cosa si è disposti a fare pur di ottenerle? Quanta ipocrisia e quanto cinismo si è in grado di dissimulare? La tv è come una linea dritta che scorre tranquilla finché non arrivano i picchi drammatici a darle senso. Ma prima di ottenere percorsi, cambiamenti e trasformazioni, deve ordinare il caos della vita là fuori. Per farlo ha bisogno della finzione e di tecniche esatte di racconto. Conquistare l’attenzione, intercettare l’universo valoriale del pubblico per confermarlo senza sforzo, trovare uno schema che vada bene per tutti, qualcosa non troppo distante dalla norma. A differenza del racconto della realtà, le storie della gente esigono un inizio, un centro e una fine. Un lavoro di sintesi che possa aiutare a guardare in faccia la realtà. Non si può andar via così come si era arrivati. Bisogna aver viaggiato. È il caso di quei programmi che si guardano come serie: Sconosciuti, “procedurale della felicità” in cui i singoli casi di puntata contribuiscono alla mitologia generale; o l’affine Coppie in attesa, che riesce a liberare il potenziale dei propri personaggi tramite espedienti narrativi (voce fuori campo, cliffhanger, rilanci conflittuali) e l’uso della cornice temporale, ribadita in continuazione proprio per fornire un modello chiaro di riconoscimento. Ma raccontare – e bene – una storia non è un’arte per tutti, ci vuole talento e istinto, sopratutto per mascherare l’artificio.

Un cantante ha deciso di saldare i suoi conti con il passato, e per farlo, ovviamente, decide di andare a Senza parole. Vuole chiedere scusa a una collega con cui ebbe una relazione molti anni prima. Il cantante si rammarica di averle detto, all’epoca, qualcosa che la fece stare male, molto male, qualcosa che non avrebbe dovuto dirle. Sì, ma cosa? Sei a disagio. Non hai chiesto di essere portato fin qui, ti hanno messo nelle condizioni di spiare dal buco della serratura e ora la conduttrice blocca tutto: “No no aspettate, vorrei rispettare la vostra intimità. Sapete come sono fatta io, non mi piace scavare nel dolore”. Probabilmente è vero, ed è giusto, ma allora come ci siete arrivati fin qua, a cambiare bruscamente discorso e anzi a farvi una bella cantata al pianoforte? Come non detto. Il dramma, evocato, è cancellato senza colpo ferire. L’emozione viene prima cercata e poi rinnegata, come se ci si vergognasse delle proprie scelte. Senza parole cerca un’altra via alla lacrima ma non la trova, chiuso in quella sfera opacizzata al centro del palco, che dovrebbe dare struttura al racconto ma che invece si mostra per quello che è: puro ingranaggio in cui rinchiudere la gente comune che non voleva andare in tv. Ambizione fallita. Un passo avanti e due indietro. Esattamente come Raiuno, che prima sperimenta l’emotainment di nuova generazione (montaggio, niente diretta) e poi riporta le sorprese in quello stesso studio televisivo in cui si aggirano ancora i fantasmi dei parenti argentini.

Il ventennale dominio di Maria De Filippi risiede non tanto nell’aver saputo imporre la propria storia tautologica (“Lei sì che sa raccontare le storie”) quanto nell’aver costruito un cosmo fatto di programmi scagliati direttamente nel cuore della faccenda. C’è posta per te, Uomini e donne, Temptation Island: non c’è mai un prima o un dopo, c’è sempre questo momento, da vivere adesso, in esterna o guardando un Rvm, tutti assieme, un momento che è questione di vita o di morte, e che è esattamente quel che lo spettatore vuole (o crede di volere) per sé. Rancori, liti, superstizioni. Tutto viene messo in piazza, esposto, senza filtri. Sei venuto fin qua, devi mica vergognarti dei tuoi sentimenti?

Boss in incognito è un format progettato per lasciare solo macerie emotive dietro di sé. Ha un obiettivo e lo persegue con tutti i ferri del mestiere. Stabilita una cornice immediatamente riconoscibile (la crisi economica), mescola il linguaggio del finto documentario con pratiche emotional al limite del sostenibile. Il nucleo incandescente di questo inganno è la posta in gioco: il lavoro, ovvero l’autostima, ovvero la parte migliore del sé, consegnata, senza saperlo, nelle arbitrarie mani di una sola persona, il capo. Lo sa bene Mary, impiegata in un’azienda che produce abiti da sposa, che a un certo punto scopre il travestimento della boss ma fa finta di niente per paura di ripercussioni. E quando viene convocata in ufficio, per l’agnizione finale torcibudella, scoppia a piangere al primo sguardo severo della direttrice. Per fortuna (o purtroppo) Mary non guarda Boss in incognito e non sa ancora cosa le succederà. Maledice la propria inadeguatezza che l’ha messa in questa situazione. Piange Mary, mentre la musica in sottofondo sale d’intensità, e piange ancora di più quando scopre che le è stato appena regalato un contratto a tempo indeterminato. Piange Mary e piange lo spettatore, anche il più preparato e consapevole, proprio perché sa cosa è appena successo, ma non ci può far nulla. La diga è saltata e travolge tutto: se non piangi sei un mostro, se piangi lo sei ancora di più, ma ci penserai dopo, il mondo non è mai stato così bello come adesso. Termina così, nel modo migliore: sono state raccontate delle storie, ti sei molto emozionato. Missione compiuta.


Nico Morabito

Palermitano e parigino. Coautore dei film La Dernière Séance (presentato alla Settimana della critica della Mostra di Venezia 2021 e vincitore del Queer Lion) e Fuori Tutto (Miglior documentario italiano al Torino Film Festival 2019). Ha collaborato alla scrittura del film Le Favolose (presentato alle Giornate degli autoridella Mostra di Venezia 2022). È professore a contratto all’Università di Paris Nanterre, dove tiene un corso di scrittura audiovisiva dal 2019.

Vedi tutti gli articoli di Nico Morabito

Leggi anche

immagine articolo Per esser ricordati qui
immagine articolo Come Il trono di spade sta creando un’industria
immagine articolo Esterno notte, eterno Moro

Restiamo in contatto!

Iscriviti alla newsletter di Link per restare aggiornato sulle nostre pubblicazioni e per ricevere contenuti esclusivi.