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Media planner chi?

Chi colloca i promo delle trasmissioni in onda è il “vetrinista” della tv, certo, ma non solo. Un addetto ai lavori ci racconta i segreti e l’importanza del media planning.

Le ho provate tutte, per cercare di far capire al resto dell’azienda di cosa mi occupo.

Ho passato i primi anni della mia carriera in azienda a inventarmi modi di rendere sexy il mio lavoro. All’epoca non era ancora così di moda parlare di data visualization, ma anch’io, nel mio ambito, mi scontravo con la difficoltà di divulgare concetti complessi e strumenti di misurazione di attività di cui nessuno, in ambito editoriale, aveva mai sentito parlare. Con i colleghi internazionali ci incontravamo due volte l’anno, in tonitruanti summit sparsi in tutto il mondo, per confrontarci sulle nostre esperienze locali e condividere best practices. Sulla carta. Perchè poi, a un certo punto, immancabilmente, divenivano incontri di self-help, a raccontarsi di quanto eravamo incompresi e, per sentirsi snob, di quanto poco l’azienda ci sapesse valorizzare. Tornati a casa, vivevamo il furore levantino, animato da venti di riscossa, di chi torna rinfrancato dal sodalizio dei suoi pari e assume quell’atteggiamento di sfida verso l’ignorante collega, e si fa tutto prendere da sentimenti di evangelizzazione. E allora giù a organizzare colazioni con il media planning, giochi aperitivo, meeting per analizzare insieme i report, newsletter settimanali. Tutto un campionario di strumenti di marketing relazionale per acquisire uno status di riconoscibilità. Ciao, sono tizio e caio, mi occupo di media planning. Senza aggiungere nient’altro.

Eppure, sono certo che ancora oggi, dopo 5 anni di battaglie per il planning pride, se chiedi a una persona a caso del mio ufficio che cos’è un Grp, ti guardano interdetti, come se gli avessi chiesto del sarchiapone di gloriosa memoria. Ma perchè è così difficile appassionarsi a questa materia? Ho qualcosa che non va io, che sento di amarla, di averla fatta mia?

La vetrina delle reti

Facciamo un passo indietro. Mettiamo che mi diano l’opportunità di esporre in pochi minuti la reason why della mia professione, un palco e delle luci per fare la mia arringa. Proviamo.

Partirei da un esempio. State passeggiando per corso Vittorio Emanuele, o per una qualsiasi delle strade commerciali d’Italia. I lati della strada sono tappezzati di vetrine, ma solo alcune catturano la vostra attenzione e ancora meno vi invogliano a entrare, a curiosare. Ogni vetrina ha una personalità, si dichiara in un certo modo. Decidete di entrare in un negozio. Potete scegliere le grosse catene in cui sapete esattamente cosa trovare o fidarvi della pancia e esplorare un nuovo negozietto. Effettuata la scelta e varcata la soglia, avrete una serie di elementi che delimiteranno gli spazi, segneranno i confini, guideranno un percorso. Verrete colpiti prima da un manichino, poi da un altro con gli sconti, poi cercherete l’angolo delle occasioni, o lo scaffale delle scarpe. Tutta la vostra esperienza sensoriale del luogo-negozio sarà stata allestita per voi da una figura: il visual merchandiser. Ecco, il media planning è proprio questo: il visual merchandiser della tv. Quello che allestisce gli spazi tra un contenuto e l’altro, che sceglie il punto esatto del negozio dove esporre quel capo di abbigliamento su cui bisogna spingere di più, che vi deve affascinare, invogliare, che deve farvi sentire a casa e fornirvi tutti gli elementi per rassicurarvi, per fare delle associazioni mentali tra gli oggetti, per consigliarvi e anche stupirvi.

Nel concreto, il media planner gestisce tutto ciò che non è programma. Nelle interruzioni, si spartisce lo spazio con la pubblicità, sua cugina ricca. Lo spazio del break è vitale per un network. È lì che riceve sostentamento, con le inserzioni pubblicitarie. Ma è anche lì che compaiono i comunicati editoriali, in gergo promo, che hanno diversi obiettivi. Dare i consigli di visione della rete, fornire allo spettatore una agenda di cosa è davvero prioritario come rilevanza di prodotto e fare branding.

Semplificando, possiamo attribuire quattro fondamentali funzioni all’attività del media planning. 1. La funzione informativa, di servizio, della rete, su quali sono i prodotti o i servizi in corso o di là da venire, è il primo e più intuitivo degli obiettivi di marketing on air. 2. In base alla ripetitività del messaggio, la seconda funzione, quella di prioritizzazione, aiuta lo spettatore a capire cosa è davvero importante per il canale. Può essere prioritario in termini temporali: il comunicato ti informa di qualcosa che sta per accadere, ti tiene allerta. Oppure prioritario in termini editoriali: ripeto più volte lo stesso messaggio di prodotto perchè così capisci che per noi è un appuntamento unico, imperdibile. 3. La funzione prettamente di marketing, il branding, fa da corollario a tutto: ogni messaggio dev’essere confezionato con un linguaggio preciso, con un tono di voce coerente con il resto del contenitore, deve sempre ricordarti che sei nella casa che ti aspettavi di trovare, confortarti nella tua scelta. 4. Infine, quarta funzione è favorire il flusso, assicurare continuità di visione, con messaggi di raccordo tra i programmi, espressi sia in grafiche editoriali in sovraimpressione che nei break, per trattenere pubblico.

Dopo 5 anni di battaglie per il planning pride, se chiedi a una persona a caso del mio ufficio che cos’è un Grp, ti guardano interdetti, come se gli avessi chiesto del sarchiapone di gloriosa memoria. Ma perchè è così difficile appassionarsi a questa materia? Ho qualcosa che non va io?

Una maggiore consapevolezza e scientificità

Fin qui tutto bene. Basta quindi solo avere bravi promoter che sfornino promo belli e il gioco è fatto. Fino a pochi anni fa si riteneva che bastasse sparare in video più comunicati possibile di quanti più prodotti si poteva, per convincere gli spettatori a guardare i programmi. Eppure la pubblicità aveva già capito che bisognava ricorrere ad altre tecniche, aveva studiato comportamenti e abitudini di acquisto dei consumatori e aveva approntato un approccio più strategico alla promozione. Nella stessa interruzione, si trovavano quindi a convivere due tipi di comunicazione gestiti con livelli di scientificità completamente differenti: da una parte la pubblicità, evoluta e consapevole, dall’altra la promozione, gestita in maniera impressionistica e “ingenua”.

Fu così che, venticinque anni fa, dall’agenzia pubblicitaria Ogilvy&Mathers, Alan James fu chiamato in Bbc per ricoprire il ruolo di direttore media planning per tutti i servizi on air, radio e online del broadcaster pubblico inglese. Per primo parlò di campagne promozionali, che dovevano essere pianificate in modo sistemico, e ogni messaggio doveva arrivare a una soglia minima di visibilità, altrimenti era sprecato. Applicò all’autopromozione la stessa logica dell’attenzionalità pubblicitaria: ogni campagna deve essere vista da un certo numero di persone per un certo numero di volte, per essere efficace. Ogni campagna promozionale è pianificata in un range temporale (flight) che può andare da due settimane di lancio, in cui la pressione del messaggio è forte perché bisogna sviluppare awareness su un prodotto, e proseguire con due/tre settimane di mantenimento, in cui la pressione diminuisce progressivamente e si stimola il ricordo solo nei giorni in recency, cioè immediatamente prima dell’evento promosso.

Il grado di pressione della campagna è misurato in Grp sviluppato su un particolare segmento di pubblico (che può corrispondere al core target del canale, in caso di reti fortemente verticali come le tematiche), che varia di volta in volta, al variare dell’universo di riferimento. Se l’universo è uomini tra i 20 e i 49 anni, il grado di pressione che la campagna sviluppa su quel target è superiore rispetto a un target molto più allargato come può essere quello di adulti 20-55 anni. Il Grp ci dà infatti la misura di quante persone che appartengono a un gruppo predefinito sono sollecitate dal messaggio e, nell’arco temporale stabilito in fase di pianificazione (flight), per quante volte. Il Grp riassume così i contatti colpiti (reach in %) per la frequenza media di esposizione (frequency). Dal momento che un indice diventa comprensibile ai più solo quando si conosce il termine di paragone, cambiando ogni volta l’universo di riferimento, il valore del Grp è sempre instabile. Ed è questo il principale motivo per cui il KPI (key performance indicator) del Grp è uno dei principali imputati dell’oscurità della materia in ambito editoriale.

Secondo indicatore da considerare quando si pianifica è poi la conversion rate, che misura la capacità di apprezzamento del messaggio. Dopo aver contattato il numero sufficiente di persone di un dato target, voglio convincerli a provare il capo di abbigliamento, li voglio spingere nei camerini di prova. E la conversion rate non è altro che il rapporto di quanti sono stati esposti al messaggio e quanti si sintonizzano sul programma promosso: reach +1 della campagna / reach +1 del programma.

Alan James ebbe quindi il merito di avere dato scientificità alla promozione, di averla fatta uscire dalle secche di valutazioni personali e inopinate, per assegnarle criteri di verificabilità e di analisi. In questo modo, oggi lo spazio promozionale non è più il far west dove chi prima arriva meglio alloggia. È una risorsa scarsa, perennemente contesa con la parte commerciale, che, proprio in virtù della sua scarsità, acquista valore. È il più potente strumento di marketing di un’azienda televisiva, è uno spazio media proprietario, a costo (quasi) zero, che ha permesso per decenni ai più importanti broadcaster nazionali di non avere spese nell’above the line.

Non si comunica più solo il programma in arrivo, ma si deve anche “teaserare” il grande show dei palinsesti d’autunno, si deve spingere sui servizi non lineari, sulla catch up dei contenuti appena visti. Si devono invitare gli utenti/spettatori a commentare i programmi su Facebook, a caricare le loro esperienze su Instagram, a partecipare al concorso sul minisito.

Dal mondo anglofono all’Italia

Di stampo anglosassone, la figura professionale del media planner arriva in Italia con l’avvento del satellite. La pay tv di Murdoch sbarca con la sua flotta di canali tematici, e per dare giusta visibilità a un bouquet variegato di contenuti ha bisogno di dotarsi di un sistema gerarchico di promozione, che rimandi, anche a livello produttivo dei promo, a una qualità premium. Quindi, il media planning di Sky si pone l’obiettivo di comunicare l’appartenenza di ogni singolo tassello del mosaico di canali al marchio Sky, e di prioritizzare in un sistema rigoroso di auto e cross promozione le aree tematiche in cui sono divise le sue offerte a pacchetto. Dal 2003, e poi con l’apertura del mercato tv permessa dal digitale terrestre ai nuovi player internazionali come Discovery, Viacom, fino ai più recenti Scripps e Sony, che dispongono di un portfolio di canali multipiattaforma, l’esigenza di razionalizzare la promozione di brand, di contenere e ottimizzare i costi di produzione del marketing on air e quindi di valutare la bontà o meno dello sforzo comunicativo diventa sempre più rilevante nei piani di business.

Oggi, le esigenze promozionali di un’azienda sono cambiate rispetto a pochi anni fa. Non si comunica più solo il programma in arrivo, ma si deve anche “teaserare” il grande show dei palinsesti d’autunno, si deve spingere contemporaneamente sui servizi non lineari, sulla catch up dei contenuti appena visti, sulle offerte premium a pagamento, sui contenuti extra consultabili solo da una app dedicata. Si devono invitare gli utenti/spettatori a commentare i programmi su Facebook, a caricare le loro esperienze su Instagram, a partecipare al concorso sul minisito, a twittare tra una pausa pubblicitaria e l’altra.

Perduta la centralità della sintonizzazione sull’appuntamento, il mezzo televisivo ha esploso la narrazione di un prodotto, il suo ciclo di vita, da un pre che inizia sempre più presto a un post che ritardiamo senza fine. Per quanto si sforzi di essere strategic, il media planner si troverà a gestire uno spazio on air che tende a strozzarsi, e a cercare progressivamente al di fuori dalla televisione altri terreni dove poter reinnescare il circuito valoriale. Da una parte, la promozione deve imparare dalla pubblicità a diventare un’attività professionale (consapevole, valutabile, strategica) e, dall’altra, aziende sempre più media company devono imparare dagli editori (e da chi si occupa di comunicazione in realtà editoriali) come gestire il dialogo con i clienti/spettatori e come portare avanti il racconto di marca e di prodotto.

Per questo motivo la figura del media planner entra in contatto quotidianamente con diversi attori del processo di creazione del valore di marca. È emanazione della parte editoriale, perché deve conoscere i canali e avere un’acuta sensibilità sul prodotto. Ma è anche in stretta relazione con la parte creativa, a cui trasferisce gli insight strategici. Se il messaggio è pianificato per lungo periodo, viene richiesta una diversificazione di soggetti, con durate variabili, ognuno con un proprio obiettivo di comunicazione.

Intesse relazioni con i cugini della pubblicità, per difendere i confini delle interruzioni e per negoziare gli spazi di sovrapposizione, condividendone i linguaggi e le strategie. Interagisce con il marketing off air, in un’ottica di consistenza e rotondità di messaggio. Il brand di canale è così supportato, riflesso, rilanciato e amplificato attraverso i vari touchpoint messi in campo dal piano di comunicazione. Scandisce le tempistiche per rendere il racconto rilevante e coerente sotto tutte le varie leve comunicative.

In sintesi, la novità introdotta dal media planning sta tutta nello sforzo di dotarsi di criteri di misurazione e valutazione della comunicazione televisiva, in un dialogo costante con tutti gli altri strumenti di marketing e di comunicazione. Di ogni grosso titolo promosso, il media planner delinea quali sono i macro-obiettivi (fare awareness di prodotto/essere rilevanti in una fascia oraria/coinvolgere un segmento di pubblico non ancora presente sul canale), li scompone in obiettivi misurabili (la copertura netta prevista su un target specifico presente nel portfolio di canali), li esegue e li valuta, producendo un output che tenga conto delle scelte fatte e che possa individuare punti di forza e aree di miglioramento. Il media planning così diventa un ruolo assolutamente trasversale a diversi fronti interni all’azienda, un ruolo che farà sempre più da collante e integratore tra i diversi rami in cui si esplicita la comunicazione di marca. Perché nell’evoluzione accelerata del consumo mediale che stiamo vivendo, dove il contenuto non ha più una sola casa ma è soggetto alla liquida fruizione personalizzata, ancora più rilevante diventa il tema dell’adattamento delle strategie promozionali ai nuovi scenari.

Il tempo dello spettatore è un bene limitatissimo, e se si trova nel mezzo di una casbah marocchina non ha affatto voglia di accontentarsi. Quindi la formula vincente sembra essere: Don’t tease, reveal! E nel “reveal” bisogna essere più attenti che mai a chi stai parlando.

Sfide e prospettive

La sfida che il media planning si pone oggi è quella di cambiare pelle, di abbandonare progressivamente il campo dell’on air promotion, per dispiegarsi su terreni contigui, come il mondo della realtà virtuale, della promozione ipertarghettizzata e dei motori di raccomandazione. Se fino a ieri per lanciare un prodotto si tendeva a mantenere il più stretto riserbo sui contenuti, per non togliere allo spettatore il gusto di scoprire le meraviglie che la rete gli aveva riservato, oggi il processo di accompagnamento alla fruizione sta mutando rapidamente. La promozione è diventata essa stessa racconto, è un mini racconto nella macrostruttura del testo, che deve far parlare di sé ancora prima che sia stato rilasciato il primo take.

La promozione è diventata l’evento stesso da teaserare, come l’ultima campagna per l’arrivo della nuova stagione di Games of Thrones, con un pre-teaser che annunciava la data del giorno di rilascio del promo.

Tutto concorre ad accrescere l’hype, tutto dev’essere dato in pasto ai fan sempre più affamati di ricevere informazioni. Tanto che la tecnica del teasing non basta più, per mantenere alta l’attenzione del pubblico bisogna calibrare metodicamente le informazioni che si vogliono rendere disponibili. Giorno dopo giorno, fase per fase, ma tutto deve essere rivelato, perché la scelta di visione non è più affidata al caso, ma è una lotta all’ultimo sangue. Lo spettatore ipermediale oggi raccoglie più nozioni che può su uno show che gli interessa, si informa da più fonti, consulta tutte le opinioni prima di decidere cosa guardare. Si immerge completamente nel contenuto, fino a toccarlo con la realtà aumentata (o virtuale). Promo che lo facciano sentire sul set delle riprese della serie preferita, al centro del gioco come in un videogame.

Il suo tempo è un bene limitatissimo, e se si trova nel mezzo di una casbah marocchina non ha affatto voglia di accontentarsi. Quindi la formula vincente sembra essere: Don’t tease, reveal! E nel “reveal” bisogna essere più attenti che mai a chi stai parlando. Per questo l’audience information come la conosciamo oggi non basta più. Dobbiamo conoscere esattamente chi sono i nostri interlocutori, cosa guardano, quali sono le loro preferenze, i loro acquisti, i loro comportamenti reali.

Una promozione quindi profilata, ultraconsapevole, che riduca i rischi di dispersione del messaggio e insegua lo spettatore nel corso del suo consumer journey, in modo da spostare il focus, l’accento del racconto, su aspetti rilevanti per un sottogruppo dei destinatari. Creare più versioni della promozione, per interessare pubblici diversi. Come nel caso del lancio del drama series di Netflix, The Crown, dove è stato creato un soggetto incentrato sulla figura del principe consorte Filippo, interpretato da Matt Smith, meglio conosciuto come Doctor Who, da mostrare ai fan della storica serie Bbc. L’obiezione che viene mossa, in questi casi, è che se dai al pubblico solo quello che si aspetta di trovare, elimini il fattore serendipity, che permette ai pubblici di avventurarsi nei territori dell’ignoto. Ma bisogna avere tempo, per esplorare l’ignoto, e ogni secondo diventa prezioso, se si riesce a trattenere spettatori e a non farli migrare verso lidi più attraenti.

Il mediaplanning, appena comparso all’orizzonte del mercato dei media italiani, è chiamato a reinventarsi, a potenziare la propria cassetta degli attrezzi, per dotarsi di strumenti di conoscenza dei propri pubblici sempre più raffinati e chirurgici. Da media planner passa a essere media strategist, e sarà ancora e prima di tanti altri, al centro della trasformazione epocale che stiamo tutti vivendo.


Leonardo Gliatta

Pugliese di origine, classe '77, ha lavorato nel Consumer Marketing tv di Studio Universal e di Sky Pubblicità. Nel 2011 arriva in Discovery Networks per ricoprire il ruolo di Media Planning Manager Sud Europa. Ha pubblicato una monografia sul regista di In the mood for love e 2046, Wong Kar-wai, per Dino Audino Editore.

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