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Fenomeni

Nel silenzio ti controllo

Fenomenologia del lurker. Chi, di fronte a una discussione online o altri scontri virtuali, trattiene le dita e sta a guardare. Una pigrizia che diventa una ragione di vita.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 14 - Vizi Capitali del 03 giugno 2013

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C’è chi gli dà del guardone e chi, considerandolo uno spettatore, vorrebbe almeno che pagasse il biglietto. In realtà il lurker sta solo aspettando. Il problema è ricordarsi cosa. Come un trainspotter col biglietto in mano, il lurker osserva la realtà virtuale – dalle chat dei forum ai profili dei social network – passivamente, in silenzio. E senza lasciare traccia del proprio passaggio, lontano dalla morettiana attitudine al “mi si nota di più se non vengo alla festa o se vengo e mi mette in disparte, vicino alla finestra”: la rete non è un party, semmai un collettivo risveglio in bibita da una festa che non ha mai avuto luogo.

Non immaginatelo spaparanzato in posa geek sul divano sgranocchiando patatine, quasi fosse una versione alternativa de Le Vite degli Altri con le cuffie della Bose al posto di quelle della Stasi: il lurker è un soldato dell’esercito degli iper-connessi, in tuta mimetica e in perenne esercitazione sul campo.

Una giornata impegnativa

Oggi si è alzato all’alba per l’appello: dalle migliaia di persone che segue su Twitter agli amici di Facebook, ci sono tutti. La notizia del giorno – ovvero “la finta notizia di un pacco bomba, apparsa sul sito di un ex-giornale hackerato da un profilo segreto” – è già stata spalmata sulle bacheche virtuali, commentata, pure fotografata. Avete mai visto la foto di un finto pacco bomba? È uguale allo screenshot di una qualsiasi chat. A metà mattina, puntuale, inizia un articolato forum di discussione sulla crisi del partito in zona retrocessione (o è sulla squadra senza maggioranza parlamentare?). Giornalisti, opinionisti, influencer di vario tipo, compagni di calcetto scrivono, rispondono (anche se nessuno ha fatto una domanda).

Ora di pranzo: Luigi ha mangiato al cinese, Maria si fa una birra, e guardate che bella ricetta ha fatto il marito di Carla! Grazie a Instagram il lurker ha l’acquolina in bocca e può consumare il suo rancio in solitaria: non commenta Luigi dicendo che l’involtino primavera è saturo di grassi, e non dice al marito di Carla di smetterla di guardare Masterchef.

Il lurker aspetta. Nel pomeriggio le esercitazioni del soldato continuano: è il momento del combattimento corpo a corpo. L’avversario di oggi è una sua ex collega d’ufficio: è molto forte avendo più di cinquemila follower; il suo profilo è orientato all’invettiva politica cinica e corrosiva (un grande classico!) con qua e là video di sigle di cartoni animati anni Ottanta e foto delle vacanze in cui il marito non compare mai (pure quello un classico). Il lurker sferra il colpo decisivo googlando il nome dell’ex collega e leggendo i suoi piazzamenti al torneo di Ruzzle della scorsa primavera. Trova anche la sua firma in calce a una petizione animalista: a questo punto ce l’ha. È sua. Il mirino è centrato sul bersaglio immobile: il lurker, comunque, aspetta.

Alle nove si rilassa leggendo tweet e post di chi sta guardando e “parlando” di una kermesse musicale in prima serata televisiva. Estinta ormai l’immaginazione tipica dell’ascoltatore davanti alla radiocronaca di una partita di calcio, il lurker si costruisce un palinsesto alternativo dove è il flusso dei commenti a generare lo show, e non viceversa. L’effetto finale è simile: sorride, si indigna, si eccita, si annoia. E aspetta.

Aspetta, si lava i denti, si infila nel letto, dorme, si sveglia, prende un caffè. E aspetta.

Nessuno si chiede cosa freni il lurker dall’intervenire nel dibattito in rete. Nessuno gli ha mai chiesto come mai passi tanto tempo a spiare le timeline altrui. Alla fine, nessuno lo conosce “in quanto lurker” né può sapere quali pulsioni lo spingano a essere tale.

Nessuno si chiede cosa freni il lurker dall’intervenire nel dibattito in rete. Nessuno gli ha mai chiesto come mai passi tanto tempo a spiare le timeline altrui. Alla fine, nessuno lo conosce “in quanto lurker” né può sapere quali pulsioni lo spingano a essere tale.

Senso di protezione

Quello che lo protegge è la partecipazione silenziosa, valutata socialmente come consenso, alla vita in rete. A metterlo in pericolo potrebbe essere l’attesa stessa. Già, perché il tempo speso a osservare si sedimenta più o meno consapevolmente nella memoria: aspettando alla fermata del computer, il rischio è quello di accumulare così tanti ricordi digitali altrui da riempire e sovraccaricare la propria memory card. L’hardware del lurker ha la necessità di “respirare”. Gli farebbe bene una vacanza in cui produrre ricordi originali: una gita tra i fiori a primavera, un concerto da andare a vedere, un caffè a colazione al tavolino del bar ascoltando le conversazioni politiche di chi è già passato al bianchino. Ma a quel punto si porrebbe il tragico dilemma: avendo la foto di un pesco fiorito, il video di un pezzo live dei Dream Theater e un post di commento da bar, dovrebbe condividerli? Così facendo cesserebbe di essere un lurker, partecipando attivamente alla quotidianità social. Anche per questa ragione, aspetta: va in vacanza senza scattare foto, ai concerti senza fare video e ascolta conversazioni senza commentarle.

Alla fine il lurker – grazie alla consapevolezza dell’attesa – è salvo: osservando le vite connesse degli altri come fossero germogli di un pesco nell’istante della fioritura; selezionando il ricordo liquido “facendo skip” tra le tracce come fosse un cd dei Dream Theater; gustandosi l’aroma dei caffè virtuali dove si parla di politica. Il lurking diventa un esercizio zen cui contrapporre la pratica giornaliera di una vita già abbastanza sovraccarica d’informazioni e incontri: una scampagnata tra gli altri. L’importare è non inquinare il paesaggio con segni della propria presenza. Non gettare cartacce, non lasciare impronte, non parlare con gli sconosciuti.

Quando dalla zen si passerà alla condizione stress, sarà il momento per il lurker di riaggiustare il tiro, stabilendo nuove priorità, le stesse priorità che decretano morte e successo delle varie tendenze della rete: dall’abbandono di MySpace al trionfo di Instagram passando attraverso le varie declinazioni dei social, le mode virtuali sono non di chi “le fa” ma di chi “le segue”. Il lurker – protagonista nascosto dei successi della rete – sceglie senza esprimere una preferenza, elegge senza voto. Per questo motivo, la sua assenza non è mai da sottovalutare.


Giovanni Robertini

Direttore di Rolling Stone, ha scritto per la televisione (Avere vent’anni, L’infedele e Le invasioni barbariche) e ha pubblicato brand:new (con M. Coppola e A. Piccinini, 2002), Tsu-nò-mi (2005), Il barbecue del panda (2010) e L’ultimo party (2013).

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