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Gaming

Le tensioni dietro a Twitch

Torniamo a parlare del portale videoludico, per indagarne pratiche fruitive e connessioni intrecciate tra la comunità dei gamers e chi tutto possiede: Amazon.

È la generazione BYOC, Bring Your Own Content. Twitch si è rivelato essere il secondo grande “momento Ikea” del video su Internet. Così come il mantra dell’azienda svedese per l’arredamento pret-a-porter è “a vendere i mobili ci pensiamo noi, però dopo averli comprati ci pensate voi a trasportarli a casa vostra e a montarli”, allo stesso modo quello di YouTube prima e di Twitch dopo scandisce “alla piattaforma tecnologica ci pensiamo noi, ma i video da guardare ce li mettete voi”.

Così, mentre la guerra commerciale per il dominio del mercato digitale porta Netflix, Amazon e forse Apple nel difficile mondo della produzione dei contenuti video, Twitch è un fenomeno che si iscrive in una pagina diversa. Va direttamente nell’ancor più esclusiva lista dei magneti di contenuti generati dagli utenti. Pozzi gravitazionali auto-generati dai loro stessi consumatori. Non a caso il suo nuovo padrone, Jeff Bezos, dimostra ancora una volta di saper giocare su più tavoli contemporaneamente: nel 2014 ha pagato poco meno di un miliardo di dollari per comprare l’azienda fondata da Justin.tv nel 2011 (la casa madre aveva anche cambiato nome diventando Twitch.tv pochi mesi prima dell’acquisizione) battendo sul filo di lana Google, che avrebbe voluto trasformare Twitch nella divisione videoludica di YouTube.

L’importanza del gioco in multiplayer

Come accade sempre, accanto a questo cambiamento c’è molto di più. La storia di Twitch si interseca su piani diversi sia con le pratiche del mondo dell’intrattenimento videoludico sia con le esigenze dell’industria dell’intrattenimento online. E qualcosa d’altro ancora. Intanto, Twitch nasce sia come sito, sia soprattutto come app. Permette di avere a disposizione sia registrazioni da vedere on demand sia streaming di eventi di particolare importanza. Soprattutto, match di un genere molto particolare, che si chiama e-sport. In pratica, gli e-sport sono la trasformazione, diventata economicamente e socialmente importante negli ultimi due anni, dei videogiochi su console o su pc. Al centro, c’è una scusa: il gioco. Che in quanto tale è irrilevante, fornisce in sostanza solo l’ambientazione per gli scontri degli “atleti”, cioè le squadre di giocatori che si sfidano in modalità multiplayer sempre più complesse e legate a differenti meccanismi di gioco e a estetiche difficili da capire per i non-partecipanti.

Sono nate le leghe, con le squadre (che pagano per iscriversi ai tornei) e una serie di professionalità ancillari: dai preparatori fisici a quelli psicologici, dal merchandising delle squadre ai cambi di mercato.

La prima cosa che colpisce è la velocità di gioco. Incomprensibile per i più. E infatti i canali su Twitch e YouTube hanno anche una funzione “pedagogica”, che permette di orientare i neofiti verso una sorta di sillabario e summer camp del gioco online. Ma non finisce qui. A spiazzare c’è la ricchezza delle ambientazioni, l’elevato realismo, la precisione quasi maniacale nell’emulazione di particolari che poi, guardando le partite, diventano tutti completamente inutili. C’è un motivo, ovviamente. Gli e-sport come fenomeno storico si incistano sopra una pratica economica delle grandi produzioni di videogame che vede privilegiare il realismo estremo ed estremamente costoso in termini di risorse e di tempo, oltre che da un punto di vista economico per le produzioni.

L’arrivo del multiplayer nei vari Call of Duty o Warcraft, per citare due franchising tra quelli di maggior successo, ha portato con sé la possibilità di introdurre delle gare online. Veri e propri campionati con premi economici consistenti, che hanno messo in moto un meccanismo di mercato completamente differente da quello legato al gioco in quanto tale e al merchandising connesso. Sono nate le leghe, con le squadre (che pagano per iscriversi ai tornei e dove gli “atleti virtuali” sono a loro volta pagati con piccoli stipendi, oltre ai premi) e una serie di professionalità ancillari caratteristiche di questo tipo di ambiti: dai preparatori fisici a quelli psicologici, dalle forme di merchandising delle squadre (che hanno alcuni atleti considerati campioni e fuoriclasse) agli investimenti in marketing e ai cambi di mercato.

Twitch è però anche di più. È ovviamente un canale privilegiato per il marketing delle aziende produttrici di videogiochi e contemporaneamente per le pratiche sociali di narcisismo digitale. Ci sono fenomeni interessanti, come le pratiche delle partite con pubblico (questo nasce sul divano di casa: un amico bravo gioca e gli altri due o tre lo guardano, passivamente, come se assistessero a un incontro di tennis) o il numero crescente di donne che giocano pubblicamente. Quest’ultima è una pratica piuttosto “forte” in una comunità maschilista e misogina come quella pubblica del settore dei videogiochi. In tempi più recenti ci sono state addirittura inchieste su giovani donne che hanno scelto di passare dal settore erotico (tipicamente le videochat erotiche) a quello dei giochi sponsorizzati o a pagamento su Twitch. Ma è solo una parte, piuttosto piccola, della torta. C’è ancora di più.

Pratiche, visualizzazioni, connessioni

Negli stili di gioco, nel ricercare modalità per condividere i propri progressi, nel continuo bisogno di un’auto-espressività che è più intensa e superiore per vari motivi (tra cui la maggior disponibilità di tempo libero e la relativa “naturalezza” del medium videogame in età adolescenziale e postadolescenziale) si cominciano a rispecchiare e ibridare fenomeni diversi. Il risultato, come ha osservato anche Matteo Bittanti, è la creazione di un’estetica e di prassi sociali e culturali innovative. Da questo punto di vista, l’ambiente dell’intrattenimento videoludico procede a una costante ridefinizione di sé, passando mediante innovazioni tecnologiche ed estetiche (picture in picture e picture on picture, visione multiangolo, creazione di una console di controllo dell’esperienza della fruizione praticamente trasparente) ma anche mediante pratiche che più che innovative sarebbe bene definire come “mai tentate prima”.

La traiettoria di Twitch sta spingendo il canale video verso l’Olimpo dei siti più visti di sempre. È tra i primi cinque al mondo per l’erogazione di video (assieme a YouTube, Apple e Netflix), ma è anche diventato uno degli strumenti di riserva di Jeff Bezos. Come già per Imdb.com, il sito-community più grande al mondo che raccoglie uno sterminato numero di informazioni su tutti i film e telefilm prodotti, con una grana finissima possibile grazie a un esercito di curatori volontari paragonabile a quello di Wikipedia, anche Twitch in questo momento è destinato ad assolvere un compito poco nobile: attrarre traffico, fare click, generare visioni e trattenere il più a lungo possibile gli utenti sul sito o sull’app. Non solo per la pubblicità, ma soprattutto per portare gli utenti verso il più grande sito di ecommerce del mondo, Amazon, che ovviamente nel suo infinito magazzino vende anche console e videogiochi.
Appartenere a questo tipo di padrone è contemporaneamente la più grande fortuna e la condanna di Twitch. La fortuna, perché consente al canale di vivere senza grandi affanni sul futuro, certo che non solo il problema economico ma anche quello tecnologico-infrastrutturale (Amazon è il più grande fornitore, oltre che l’inventore, del cloud computing) sono risolti. La condanna, perché il patto tra i videogiocatori e il diavolo-Bezos sta nel tenere tutto congelato in un eterno presente. Le novità e le sperimentazioni possono avvenire solo ”dentro” la cornice dell’esistente Twitch, e non al di fuori. Insomma, si può cambiare tutto (dentro) ma non si può cambiare niente (fuori). Come potrà resistere Twitch alla tensione tra la condanna a un eterno presente, da un lato, e una cultura multipla e costantemente in evoluzione come quella dell’intrattenimento videoludico, dall’altro?


Antonio Dini

Giornalista e saggista. Scrive di informatica e negli ultimi anni ha pubblicato libri e articoli sia per la carta stampata sia online. Dal 2002 ha un blog, Il posto di Antonio.

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