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Reality

La televisione dei corpi sovrappeso

Con varie giravolte, negli ultimi vent’anni, il piccolo schermo ha seguito le vicende di persone troppo grasse. Con divertimento, con pietismo, con spregiudicatezza, senza mai affrontare i problemi veri.

“You Wanna Be On Top?”

Tyra Banks

Gli Anni Zero iniziavano con questa domanda, una risposta uguale e contraria alla guerra al terrorismo e a una globalizzazione che iniziava a mostrare i denti. L’Italia è sempre stata un ottimo banco di prova per gli Stati Uniti, in particolare quando si tratta di usare armi di “distrazione di massa”. Non abbiamo avuto il Millennium Bug ma Tyra Banks, ex top model, che ci chiedeva, dal 2003, se volevamo stare in cima alla catena alimentare. America’s Next Top Model (da noi trasmesso sul fu Sky Vivo) fu tra le prime sorprese del vaso di Pandora scoperchiato dopo la caduta delle Torri Gemelle. A una manciata di donne in competizione per diventare top model seguì, l’anno dopo, The Biggest Loser – Sfida all’ultimo chilo, dove dodici partecipanti divisi in due squadre si sfidavano in gare per perdere più kg, in una via di mezzo tra American Gladiators e Giochi senza frontiere.

Da lì è stato un via vai di programmi sulla chirurgia plastica – The Swan – ma in particolare l’attenzione dei media si è rivolta ai soggetti in sovrappeso o clinicamente obesi, in una mercificazione continua di un corpo non conforme agli standard che avevano preso piede dall’inizio degli anni Novanta: se Gia Carangi aveva indicato la via, Kate Moss nella campagna pubblicitaria di Calvin Klein (1993) ha reso quella stessa via, detta heroin chic, luminosa. Supportata dal grunge, che fu travisato dall’industria della moda ed ebbe lo stesso destino del punk e dei poser con le creste e le spille da balia. Così erano finiti gli anni Ottanta, con i corpi tonici modellati dalle Vhs di Jane Fonda. 

Società e rappresentazione

Paradossalmente, ma neanche troppo, nella società americana (e non solo) ci fu un’esplosione di obesi tra la seconda metà degli anni Novanta negli adolescenti, e all’inizio dei Duemila negli adulti giovani. Uno studio portato avanti dall’Università della Carolina del Nord aveva evidenziato che questo pericoloso trend poteva essere ricondotto all’uso del personal computer, ormai appannaggio di tante famiglie della middle class, e di tante e troppe ore trascorse davanti alla tv. Se da una parte noi millennials, o almeno i nati negli anni Ottanta e inizio Novanta, eravamo spinti dal cosiddetto progresso ad aprirci al world wide web – all’epoca non c’erano gli smartphone che permettevano un uso pratico di internet, anche in movimento –, dall’altra la nostra generazione è stata portata ad avere paura del cibo (e dei grassi) e a odiare il suo stesso corpo finendo per martoriarlo.

I reality sugli obesi avevano e hanno un duplice scopo: creare allarmismo per identificazione (sono grasso e mi rivedo in tv) o per esclusione (non voglio diventare come le persone che vedo in tv). Credere che noi spettatori siamo immuni da certe condizioni patologiche.

In seno all’odio per sé stessi e a canoni totalmente irrazionali come la famigerata taglia 0 (corrispondeva a una taglia 36), i produttori televisivi scoprirono che l’obesità portava share nella bulimia di offerte tv che si stavano frammentando sempre di più, ben prima delle piattaforme on demand. La cosa, ovviamente, si estese al di là dei confini americani arrivando in Europa e, soprattutto, nel Regno Unito, dove nacque il programma – arrivato anche da noi – One Fat Families di Steve Miller, biondino sulla quarantina, ex obeso e ancora leggermente in sovrappeso (se vogliamo applicare i suoi crudeli canoni) che si divertiva a fare bodyshaming a ogni famiglia inglese che si apprestava a un percorso di dimagrimento. C’è da dire che all’epoca un quarto degli adulti britannici erano obesi e non sempre la chirurgia bariatrica è la risposta consigliabile, soprattutto se non ci sono particolari problemi a perdere peso e l’indice di massa corporea non è eccessivo. (Siamo sinceri, sarà una mentalità diversa, la dieta mediterranea e così via, ma mi sono sempre parse esagerate le prime fasi di questi programmi, quando si analizza lo stile di vita dei partecipanti, con quantità ingenti di cibo comprato e ingollato). Alcuni ex protagonisti del reality di Miller si lamentarono, anni dopo, che la produzione scegliesse l’esagerazione, mettendo nei carrelli molta più roba di quella che i protagonisti compravano a telecamere spente. 

Nel pubblico c’era la distorta percezione che certe persone fossero estremamente obese per degli stili di vita disumani, senza considerare però che molto spesso c’era un disagio psicologico o una storia di abusi alle spalle. I reality sugli obesi avevano e hanno un duplice scopo: creare allarmismo per identificazione (sono grasso e mi rivedo in tv) o per esclusione (non voglio diventare come le persone che vedo in tv). Credere che noi spettatori siamo immuni da certe condizioni patologiche. 

Diario di una spettatrice

In quanto spettatrice di ogni singolo programma sopracitato sin dalla tarda adolescenza – per colpa di/grazie a Sky – ricordo il disagio che sentii sia nei confronti delle partecipanti ad America’s Next Top Model (dove avere una taglia sopra la 42 pareva una colpa degna del Processo di Norimberga) a One Fat Families o, più avanti, Extreme Makeover Diet Edition. Il fenomeno, forse per via dell’età, mi affascinava. Ricordo che tra il 2004 e il 2007 spuntarono, soprattutto su Splinder, blog Pro-Ana e Pro-Mia, ossia pro anoressia e pro bulimia. Quei programmi, in parte, stavano ottenendo un effetto contrario a quanto dicevano di promulgare: uno stile di vita sano e un corpo sano e, di conseguenza, magro. Non era importante come ci arrivavi, tutto era concesso. Il punto non era neanche essere magri e sani, il punto era mercificare dei corpi attraverso il ridicolo e la risata, soprattutto se gente di 200 kg doveva affrontare prove fisiche difficili per una persona dalla corporatura media.

Ma i partecipanti a questi programmi, secondo alcuni, non devono essere considerati per forza delle vittime per svariati motivi. Primo, i soggetti sono mercificati ma partecipano attivamente a questa mercificazione guadagnandoci qualcosa, almeno in termini di perdita di peso, in quella che Rashida Resario chiama mercificazione sovversiva. Secondo, i soggetti obesi hanno a disposizione equipe di medici, personal trainer e nutrizionisti che per una persona qualsiasi avrebbe un costo insostenibile, soprattutto negli Stati Uniti. Ancora, tempo e spazio: chi si presta a partecipare a uno di questi programmi, di solito in un percorso che ha in media la durata di un anno, non ha distrazioni come lavoro o altro, vive privilegiato, isolato e lontano dagli stress della quotidianità che possono inficiare un percorso di dimagrimento. Sarebbe ipocrita negare, però, che questi reality si comportano come dei venditori di fumo, non tanto diversi da Wanna Marchi quando, nelle reti locali, vendeva lo scioglipancia. Gli incredibili dimagrimenti di queste persone che, puntualmente, alla fine dei programmi riprendono parte se non tutto il peso perso in precedenza, è frutto di un deficit calorico che porta ai famosi primi kg persi velocemente, da chiunque (a meno che non ci siano complicazioni ormonali, tiroidee e via dicendo), soprattutto se il peso iniziale supera i 200 o 300 kg.

Funziona e non funziona

Dice Lynn Grefe, amministratore delegato del National Eating Disorders: “Le diete sono campagne di marketing multimiliardarie in cui le persone acquistano. Dovrebbe trattarsi di un cambiamento di stile di vita, non di una dieta. Dal momento che il 95% delle persone che seguono una dieta riacquisterà il suo peso entro cinque anni, le diete televisive preparano le persone al fallimento”. Non sorprendono allora gli spin off come Vite al Limite e poi, dove moltissimi concorrenti del programma main sono incagliati in situazioni problematiche, con lo stesso peso o quasi da perdere rispetto al punto di iniziale pre-chirurgia bariatrica. I produttori televisivi, per evitare ulteriori polemiche (bodyshaming, sfruttamento e altro), dopo la fine degli anni Zero, hanno deciso di dare un aspetto meno ludico alla perdita di peso (benché Sfida all’ultimo chilo sia durato quasi vent’anni!) e creare mini-documentari dall’aspetto pietistico, dove l’obesità viene riconosciuta come malattia che parte da una serie di disagi ambientali e mentali, e da lì il successo di Vite al limite e negli ultimi tre anni di Sorelle al limite.

In quello che molto spesso per i partecipanti è un suicidio sociale, tra insulti, meme, e video su TikTok, viene da chiedersi perché non ci sia mai stato l’equivalente skinny di questi show. Soprattutto oggi, quando come risposta alla grassofobia devastante degli ultimi vent’anni, nelle lande politicamente corrette dei social, e nelle maglie inclusive della banda larga, sembra quasi ci sia una esaltazione del grasso. Il solo programma che ha tentato questa via, neanche in modo puro ma facendo un mash-up, è stato Grassi contro magri, durato solo sette stagioni per neanche 30 episodi. 

I produttori televisivi, per evitare polemiche (bodyshaming, sfruttamento), dopo la fine degli anni Zero, hanno deciso di dare un aspetto meno ludico alla perdita di peso (benché Sfida all’ultimo chilo sia durato quasi vent’anni!) e creare mini-documentari dall’aspetto pietistico, dove l’obesità viene riconosciuta come malattia che parte da una serie di disagi ambientali e mentali, e da lì il successo di Vite al limite.

Secret Lives of Slim People è uno studio che nasce in contrapposizione (per Channel 4 nel Regno Unito) a Secret Eaters, ossia attraverso telecamere nascoste si scopre come alcuni partecipanti siano magri e si mantengano magri. Ma non c’è mai stato, o non è mai arrivato in streaming o nella televisione nostrana, un programma volto a raggiungere il peso forma per chi soffre di anoressia. È come se questo contingente nemico rimanesse nel punto cieco dell’enorme occhio del pubblico e dei media. L’ossessione culturale è nei confronti degli obesi, benché ultimamente l’attenzione si sia spostata sui single e le coppie create online – vedi 90 giorni per innamorarsi e i vari spin off. Ciò che la gente dimentica e la televisione si diverte a non ricordare è che non tutte le persone obese si strafogano. Molto spesso si parla di metabolismo compromesso da svariati motivi (diete drastiche, problemi di salute, stress, disturbi alimentari) che portano a rallentamento metabolico. Sui disturbi alimentari si pone l’accento in Vite al limite con un supporto psicologico per i partecipanti, condizione necessaria ma non sufficiente perché è un percorso che dovrebbe durare a lungo, e la terapia fornita dal programma pare superficiale.

Il racconto, i dati

Recenti studi hanno dimostrato che i disturbi alimentari hanno il più alto tasso di mortalità rispetto a qualsiasi malattia mentale come depressione o schizofrenia. Nel 2007, anno di grazia per i programmi di dimagrimento, il National Eating disorders ha dimostrato che il 13.2% di ragazze aveva sofferto di disturbi alimentari, e che il 25% dei ragazzi soffriva di anoressia nervosa rischiando 10 volte di più, rispetto alle coetanee, di morire perché culturalmente parlando i maschi non soffrono di disturbi alimentari. Il thin shaming esiste, ma per i produttori tv non è una condizione abbastanza invalidante, soprattutto se uomini, per creare programmi che riscuotano una share soddisfacente. O invece l’anoressia è considerata una malattia e l’obesità la conseguenza di un connubio tra gola e pigrizia?

Se analizziamo i dati del NED nel 2011, l’anno di Extreme Makeover Diet edition, si capisce perché la tv sarà sempre farcita di programmi su obesi: tra il 40-60% delle bambine tra i 6 e i 12 anni aveva paura di ingrassare; il 69% affermava che le immagini influenzano la percezione del corpo; il 47% per causa di quelle immagini (televisive, online e cartacee) voleva perdere peso. La grassofobia è così radicata che ci vorranno svariate generazioni per vedere in televisione, o su internet, il contraltare di Vite al limite o di Sfida all’ultimo chilo. La tendenza odierna, schizofrenica rispetto alla realtà analogica, è di esaltare il grasso storpiando concetti degli anni Novanta: Beth Ditto, secondo i media, non è più obesa ma curvy, quando curvy trent’anni fa era usato per modelle con un seno prosperoso e un culo non proprio piatto come la nostra amata Tyra Banks. Questa inclusività fasulla crea un cortocircuito nella gen Z e successive. Perché se vis a vis l’obeso si beccherà sempre del “ciccione”, a scuola, su Instagram e simili incubatrici emotive quella persona sarà un paladino della body positivity.

Tutto sta nell’accettazione di sé stessi, cosa impossibile quando ti viene puntato costantemente il dito addosso dai paladini della salute, che in realtà hanno stili di vita molto lontani rispetto a Euell Gibbons (sostenitore del cibo sano negli anni Sessanta). È ingiusto promuovere l’obesità oggi, com’era sbagliato promuovere la taglia 0 ieri, ma è questo che ci tocca subire dopo decenni di umiliazioni e lotta al grasso. In fondo siamo figli delle epoche in cui viviamo. Bisogna adattarsi o rimanere esclusi? Per dirla con Zizek, le lotte sociali non sono più verticali, le aree di conflitto si sono spostate tra singoli, tra diversi gruppi sociali. E ancora, “il capitalismo di oggi si pasce delle differenze” e gli elementi che dovevano essere sovversivi nell’industria culturale si adattano perfettamente al consumismo.

Forse la spiegazione, ancora più semplice rispetto alla grassofobia e alla mancanza di programmi su persone troppo magre, è che il sottopeso non scatena quella ilarità da freak. C’è un famoso aneddoto raccontato da Carlo Verdone: un giorno l’attore romano chiese ad Alberto Sordi, suo mentore, le motivazioni del declino della commedia all’italiana, e questi rispose: “So tutti mostri ormai, ma chi ce fa più caso”. La commedia all’italiana si basava sulla dissacrazione dei mostri nati nel boom economico, ma se il pubblico aveva aderito alla maschera del mostro poi diventava impossibile visualizzare il problema e riderci sopra. In fondo, chi ride di sé stesso? 


Maria Eleonora C. Mollard

Nata in Argentina arriva in Italia nel 1990 per subire e assorbire tutta la cultura pop di un grande decennio. A quattro anni vede Freaks ed è subito epifania col cinema. Passa l’adolescenza a disegnare fumetti, guardare film e serie tv. Viaggia col padre, divora musica durante le traversate nel Mediterraneo sviluppando così un atteggiamento ossessivo-compulsivo verso le sue passioni. Affronta la guerra civile del precariato scrivendo articoli, girando cortometraggi e fantasticando sulla generazione in declino di cui fa parte.

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