Non c’è pace nel mondo del non lineare. E adesso tocca alle major sbarcare in forza nel settore con nuove piattaforme. Disney, Warner e Universal si preparano.
All’inizio le major statunitensi hanno reagito a Netflix in due modi: da un lato, hanno cercato di cavalcare il fenomeno, stipulando accordi molto redditizi per concedere lo sfruttamento dei propri titoli, dopo la finestra televisiva e/o a livello internazionale; dall’altro, si sono convertite allo streaming, rendendo disponibili i programmi anche online, sui siti di loro proprietà, e sviluppando la joint venture Hulu. Ma ora che Netflix è stata consacrata come big mondiale dell’intrattenimento, casa dei contenuti di qualità, le major hanno deciso di dichiararle guerra. E di fare il grande passo: il lancio di piattaforme proprie, indipendenti dai canali operati da ciascun gruppo, ma alimentate dalle loro immense library.
Tra i primi esempi c’è stato Sony Crackle, servizio on demand con titoli appositamente sviluppati da Sony per la piattaforma e poi venduti, sempre da Sony, sul mercato internazionale, nei Paesi dove Crackle non è disponibile. Rivolto principalmente a un pubblico maschile e giovane adulto, è rimasto una realtà relativamente piccola, come molte altre, e Sony ancora fatica a trovare il suo posto.
Cbs All Access, l’apripista di successo
Un’ascesa rapida e costante ha invece caratterizzato il servizio Ott del gruppo Cbs, All Access, che insieme al servizio Svod di Showtime, ha superato gli otto milioni di abbonati a fine 2018, con quasi due anni di anticipo sulle aspettative. Partito nel 2014, con due fasce di prezzo (da 6 e 10 dollari), ha generato grandissima attenzione grazie all’annuncio del ritorno di Star Trek. La prima serie originale è stata in realtà The Good Fight, spin-off di The Good Wife, drama in onda per anni su Cbs, mentre Star Trek: Discovery subiva molte vicissitudini produttive che ne hanno ritardato la partenza. L’agognato lancio, nel 2017, ha sancito come previsto il successo della piattaforma. Entrambi i titoli hanno debuttato in simulcast sul servizio Ott e in tv sulla rete Cbs, per poi essere resi disponibili solo online dal secondo episodio. Cbs inoltre ha deciso di non seguire il modello Netflix e di non distribuire tutti gli episodi contemporaneamente, adottando una più consueta ritmicità settimanale.
Cbs All Access ha sottolineato anche in seguito l’importanza degli originals prodotti per il servizio, smarcandoli definitivamente dalla messa in onda televisiva. Ora ci sono sette titoli originali (tre returning e quattro novità) e sono stati annunciati numerosi progetti in cantiere. Il brand è legato a serie originali high value, con la fantascienza come genere principe: il franchise di Star Trek si moltiplica con rinnovi, spinoff e nuovi formati, come il cortometraggio e l’animazione. Ma motivo di attrazione per gli abbonati è anche l’accesso alla library della major, con i titoli in onda su Cbs e Showtime: in particolare, alcuni titoli high end pensati per la tv lineare come Patrick Melrose con Benedict Cumberbatch e Who Is America? di Sasha Baron Coen sono risultati particolarmente graditi agli abbonati on demand. Altri driver di abbonamento sono poi stati l’accordo con la National Football League e la recente apertura a generi inusuali per gli Ott, come le news locali e lo sport.
Cbs All Access è tuttora in fase di crescita, per conquistare il mercato e consolidare la sua identità. Questo comporta un notevole sforzo economico da parte del gruppo editoriale, non solo per la produzione di contenuto originale: Cbs ha rinunciato a massimizzare i margini di guadagno, non vendendo nel mercato domestico i diritti del prodotto originale a Netflix, Amazon o alla syndication. L’ultima trimestrale, seppur molto positiva, presenta infatti un calo negli introiti da licensing, a fronte di un maggior numero di titoli prodotti. Parte dei costi sono recuperati vendendo proprio a Netflix i diritti internazionali delle serie, ma anche questo fronte di guadagno è destinato a ridursi se, dopo lo sbarco in Canada, si proseguisse nell’annunciata espansione internazionale. Questa potrebbe avvenire sfruttando Amazon: dal primo 1 gennaio 2018, infatti, Cbs All Access è disponibile a tutti i clienti Amazon Prime Video statunitensi. E dopo questo boom, anche le altre major si stanno inserendo nella guerra dello streaming, attività imprescindibile da affiancare al broadcasting tradizionale.
La sfida non riguarda solo qualità e quantità dei contenuti, ma anche la loro organizzazione: proprio questo potrebbe essere il valore aggiunto apportato al mondo delle piattaforme da chi, come i network e le major, per anni ha creato brand e palinsesti. Un modo per differenziarsi rispetto all’offerta bulimica di Amazon e Netflix. Non è un caso che il leit motiv di Disney e Warner sia che la piattaforma non sarà un magazzino di contenuti. La forza dell’esperienza, insomma, contro l’algoritmo.
Warner e Disney affilano le armi
Alla fine del 2019 saranno operative sia la piattaforma di Disney sia quella di AT&T e Warner che, nel frattempo, dal 15 settembre 2018, ha lanciato Dc Universe, dedicata agli eroi dei fumetti. Il primo titolo originale è Titans, spin-off del Batman firmato da Greg Berlanti. Per 8 dollari al mese gli abbonati hanno a disposizione film e serie Dc tratte dalla library, fumetti digitali, contenuti speciali e news dal mondo Dc, compreso un programma quotidiano con presentatori e ospiti dedicato a tutte le novità. Per la stagione in corso sono previsti sette titoli originali, comprese due animazioni. Anche in questo caso, come per Sony Crackle, è un servizio tematico e di nicchia. Entro fine anno, però, sarà pronta la “vera” piattaforma di Warner e AT&T Media, che cercherà di ripagare parte dei costi della sospirata fusione.
Warner ha presentato in maniera chiara il proprio modello, con un posizionamento sul mercato che pare piuttosto aggressivo: un budget per i contenuti “competitivo” con quello di Netflix (quindi di decine di miliardi di dollari) e tre tipi di abbonamento a prezzo crescente. La prima fascia prevede un pacchetto di film (entry level), presumibilmente non nuovi; la seconda un servizio con contenuti originali e film blockbuster, comprese le ultime novità; la terza un pacchetto che unisca ai primi due le library Warner, Hbo, Turner, Cnn e Cartoon Network, oltre a contenuti di terze parti, “organizzati in macro-filoni”. Grande importanza sarà data a temi, generi e brand, per guidare il pubblico in un “mondo familiare” e facilitare la navigazione del catalogo. Non mancheranno serie ad hoc, non prima del 2020. Si attingerà alle property storiche dello studio: la prima dovrebbe essere un’animazione tratta dai Gremlins.
Disney+ dovrebbe debuttare più o meno in contemporanea a Warner. Un considerevole numero di progetti è già stato annunciato, con titoli legati ai fortissimi brand Disney (High School Musical), Marvel (Loki), Pixar (Monsters Inc.) e LucasFilm (Star Wars: Rogue One), oltre a serie ad alto budget prodotte da Abc Studios. A disposizione degli abbonati, per un costo inizialmente “contenuto”, ci saranno anche i grandi classici del mondo Disney, che comprenderà anche 21st Century Fox per effetto della recente acquisizione. È probabile che sia esclusa una buona parte del prodotto current dei canali Abc, Fox e delle reti via cavo del gruppo, prodotto che dovrebbe continuare ad alimentare Hulu (ormai detenuto al 60% da Disney, sempre per via della fusione). È ormai assodato che veicolare contenuto proprio e originale al pubblico, o meglio a diverse fasce di pubblico, sia la priorità di tutti i grandi player dell’audiovisivo che cercano un nuovo modello di business nel panorama in costante e velocissima evoluzione. Le major, inoltre, hanno imparato da Netflix come profilare l’audience, come elaborare la massa di dati in maniera efficace e quindi come conoscere davvero il pubblico, in modo da tarare al meglio l’offerta.
La sfida non riguarda solo qualità e quantità dei contenuti, ma anche la loro organizzazione: proprio questo potrebbe essere il valore aggiunto apportato al mondo delle piattaforme da chi, come i network e le major, per anni ha creato brand e palinsesti. Un modo per differenziarsi rispetto all’offerta bulimica di Amazon e Netflix, sicuramente attraente per la mole di contenuto a disposizione, ma che può anche disorientare il pubblico. Non è un caso che il leit motiv di Disney e Warner sia che la piattaforma non sarà un magazzino di contenuti. La forza dell’esperienza, insomma, contro l’algoritmo.
Alla ricerca di un modello sostenibile
In questo quadro, il modello di business e la sostenibilità economica sono ancora da costruire. Siamo in una fase di passaggio molto delicata in cui è difficile trovare un equilibrio. Tutti i nuovi Ott sono di fatto delle start-up che si scontrano con Netflix, leader di mercato. Per essere competitive sul nuovo terreno di gioco, Disney e Warner hanno messo in conto un parziale cambiamento di business: rinunciare a parte delle entrate derivate dal licensing e tenere “in casa” il contenuto originale da usare per costruire offerte subscription-based. La speranza è che a lungo termine gli abbonamenti possano generare più entrate rispetto, per esempio, a quelle derivanti dalle vendite in syndication. Per il momento Disney è stata costretta ad ammettere che nel 2019 perderà circa 150 milioni di dollari per le mancate vendite di diritti, principalmente dovute al lancio di Disney+. Le major chiedono pazienza agli investitori e cercano di rassicurare il mercato: molto contenuto sarà disponibile per i buyer nazionali e internazionali, si deciderà caso per caso come agire e si andrà verso maggiori volumi di produzione.
Il problema, sul mercato internazionale, è già emerso: i titoli venduti a Netflix per lo sfruttamento worldwide non sono più disponibili sul mercato per anni. Senza contare che i primi titoli prodotti ad hoc per le piattaforme digitali sono stati esclusi dai grandi deal con i buyer internazionali e venduti, a volte, proprio a Netflix. La situazione è destinata a complicarsi perché tutti gli Ott delle major sono destinati, almeno sulla carta, a uno sviluppo internazionale successivo al lancio in patria. Monetizzare al meglio i contenuti, sfruttandoli al massimo in modo nuovo, è l’altra grande sfida che si affaccia all’orizzonte. Oltre ai buyer internazionali, il mercato domestico non è esente da problemi. Affinché i titoli delle library si rendano disponibili per le nuove piattaforme è necessario attendere la scadenza degli attuali contratti con operatori terzi, Netflix innanzitutto. Last but not least, è bene ricordare l’astronomico budget contenuti messo sul piatto da Netflix, che ha spostato talenti e risorse. Warner, per esempio, ha capito quanto sia fondamentale assicurarsi accordi di ferro con i produttori più preziosi e ha rinnovato i contratti con Greg Berlanti, Ava DuVernay e Bill Lawrence, mentre Disney si è lasciata sfuggire, nel recente passato, Shonda Rhimes e Ryan Murphy, passati alla scuderia nemica.
Monetizzare al meglio i contenuti, sfruttandoli al massimo in modo nuovo, è la grande sfida che si affaccia all’orizzonte. Oltre ai buyer internazionali, il mercato domestico non è esente da problemi. Affinché i titoli delle library si rendano disponibili per le nuove piattaforme è necessario attendere la scadenza degli attuali contratti con operatori terzi, Netflix innanzitutto. Last but not least, è bene ricordare l’astronomico budget contenuti messo sul piatto da Netflix, che ha spostato talenti e risorse.
Nbc Universal entra in guerra (grazie a Sky)
Nbc Universal è entrata in guerra solo a metà gennaio del 2019, quando, insieme all’annuncio di una riorganizzazione dei vertici aziendali, è arrivata la notizia, prevedibile, dell’intenzione di lanciare il proprio servizio Ott. Parte del ritardo sui competitor è probabilmente dovuto al fatto che Sky, appena acquisita da Comcast, dovrebbe svolgere un ruolo chiave nello sviluppo del servizio, soprattutto dal punto di vista tecnologico, forte dell’esperienza già acquisita. E proprio NbcU è reduce dal flop di Seeso, piattaforma dedicata solo alla commedia, partita nel 2016 e chiusa poco più di un anno dopo.
L’Ott di Nbc Universal non arriverà prima del 2020 e con modalità leggermente differenti da quelle delle altre major: una piattaforma streaming con pubblicità (contenuti originali e d’acquisto, fiction, news, reality, intrattenimento), gratuita per gli abbonati ai canali pay del gruppo Comcast negli Stati Uniti e Sky in Europa. L’idea è di siglare accordi con altri player per inserire il servizio in vari pacchetti a pagamento di altri operatori. Sarà inoltre disponibile una versione senza pubblicità a costi contenuti. L’azienda è convinta che i maggiori profitti continueranno ad arrivare dalla pubblicità, meglio se interattiva e su utenti profilati, e per questo punta a un modello principalmente free, o quasi, ma diffuso in un ampio bacino di utenti (gli abbonati Comcast e Sky sono circa 52 milioni). La convinzione è che il pubblico sia disposto sia a pagare cifre (modiche) per contenuti premium, sia a guardare un po’ di pubblicità, a patto che il contenuto, oltre a essere interessante, sia veicolato in maniera facile e flessibile.
Anche NbcU si è affrettata a rassicurare mercato e buyer, sottolineando che continuerà a produrre contenuti per altre tv e altre piattaforme, pur cercando di sfruttare “in casa” il potenziale dei propri brand, specialmente quelli long running: “Per ogni titolo sarà fatta un’attenta analisi per posizionarlo al meglio”. Confermato è anche l’impegno in Hulu. Il futuro business direct-to-consumer si affiancherà a quello del licensing, senza cannibalizzarlo. Il servizio potrebbe essere pronto in tempo per trasmettere in streaming le Olimpiadi di Tokyo, garantendo una grande risonanza.
Siamo solo all’inizio dell’ennesimo, veloce stravolgimento del mondo dell’audiovisivo. Quanti servizi streaming saranno in grado di sopravvivere a lungo? Quanto affollato può farsi il panorama dello Svod? Difficile credere che gli utenti siano disposti ad abbonarsi a decine di servizi… Eppure, vedendo i dati del cord cutting negli Stati Uniti, si può anche azzardare l’idea che i servizi Svod possano sostituire in gran parte le reti cable, perlomeno quelle improntate alla fiction e all’intrattenimento. D’altro canto, per Netflix non si tratta solamente di fronteggiare una concorrenza più numerosa. Nonostante il dispendio di risorse messe in campo per la produzione originale, Netflix è largamente dipendente dal contenuto prodotto dalle major: secondo uno studio di 7Parks, su un campione di 3,5 milioni di utenti di Netflix, Hulu e Amazon, nella top 10 delle serie Netflix metà sono titoli originali e metà provengono dagli studios: tra queste ci sono The Office, Friends e Grey’s Anatomy. Molti sostengono che si andrà verso servizi in non esclusiva, con titoli presenti su diverse piattaforme, altro elemento che potrebbe creare notevole confusione. Ma proprio Warner e Disney sembrano le meno convinte che sia questa la strada: Disney sta da tempo “ritirando” i suoi marchi da Netflix (vedi la recente, prevista chiusura delle serie Marvel), mentre il Ceo di Warner ha appena dichiarato che “i gioielli della corona rimarranno in casa”. La sola cosa certa è che stiamo già assistendo a un forte impatto di tutto questo sul catalogo Netflix.
Paola Ruggeri
Analista per l’Osservatorio Internazionale di RTI dove si occupa di ricerche sul mondo dell’audiovisivo e sulla fiction internazionale. È responsabile della selezione dei cortometraggi per i canali del Gruppo Mediaset e della programmazione dei corti per Il Cinemino. Insegna presso il master International Screenwriting and Production dell’Università Cattolica. È autrice di pubblicazioni sulla televisione europea e statunitense e sull’industria del cortometraggio italiano.
Vedi tutti gli articoli di Paola Ruggeri