Lentezza, silenzio, riflessione, calma: un modo apparentemente lontano dal frenetico rincorrersi delle news televisive, ma capace di diventare stile proprio per la sua diversità. Parola al conduttore.
“Perché devo andare a cercare delle cose straordinarie quando gli aspetti più interessanti, le cose più vere e più profonde, ci passano a fianco”. Lo diceva Vittorio De Sica nel 1948, e me lo ripete, collegato telefonicamente, con il solito ritmo pacato che contraddistingue il suo modo di parlare, Domenico Iannacone. Giornalista televisivo per Raitre, ha portato sugli schermi un modo di raccontare la realtà quasi unico: una forma di neorealismo giornalistico che incrocia lentezza e ascolto empatico, sguardo ai piccoli frammenti del quotidiano tramite cui raccontare fenomeni universali. Quelle raccontate nei suoi documentari – tra cui l’ultimo Odissea, viaggio tra gli attori affetti da disagio psichico che animano il Teatro Patologico di Roma – sono storie di disagio e cambiamento da cui trarre occasioni di riflessione e introspezione. Iannacone porta il pubblico a interrogarsi sul mondo in cui vive: non urla denunce e appelli, come in altri programmi di inchiesta o approfondimento giornalistico, non cerca l’effetto scioccante. Ma scava nell’animo dei personaggi, li presenta così come sono, umani, nelle loro debolezze e nei punti di forza, restituendo così piccoli affreschi di vita in cui riconoscersi.
Iannacone racconta di aver “coltivato questa passione da ragazzino”. “Tu pensa – prosegue – nel piccolo paese dove sono nato, a Torella del Sannio, iniziai con un amico, che lavorava in una tipografia, a mettere su un giornale locale. Lo facevamo con il ciclostile e praticamente ci autofinanziavamo. A fare il giornale ero più o meno solo io: è stata una piccola palestra che mi ha portato nel mondo della carta stampata. Provenendo da una famiglia di imprenditori del posto, è come se fossi andato un po’ controcorrente rispetto alle aspettative dei miei genitori. Credo di aver fatto un percorso sinuoso attraverso la parola. Da giovanissimo avevo voglia di scrivere: mi interessava molto anche la poesia e ricordo che, a diciott’anni, contattai una grande poetessa del Novecento italiano, Amelia Rosselli. Non c’erano i telefonini, mi chiamò a casa e rimasi emozionatissimo quando mi disse che avrebbe pubblicato la mia poesia su una rivista letteraria. Diciamo che ho cullato un doppio registro con la parola: sia quello giornalistico, che poi pian piano ha preso la sua strada, sia quello di tipo letterario, poetico, tant’è che la poesia è uno degli elementi che mi ha permesso di avere una mia metrica, oggi potrei definirla così. Da lì ho fatto una trafila nei giornali locali, poi nelle reti locali, prima di arrivare a Raitre”.
Pause e silenzi
E si riscontra davvero poesia, pause e silenzi, campi lunghi e piani sequenza, nei tempi del parlato e dei girati di Iannacone che ha avuto il suo imprinting con contaminazioni letterarie e cinematografiche. Il primo progetto in cui lo stile del grande cinema italiano incontra il giornalismo empatico è Vacanze d’Italia, film documentario dell’estate italiana uscito nel 2018. Un racconto che strappava sorrisi e spunti di riflessione, un ritratto tragicomico di un periodo caratteristico del costume italiano. “Sono stato capo-progetto – racconta il giornalista – di quel film documentario sulle vacanze in Italia, poi firmato con altre due persone. Mi ispiravo al cinema italiano degli anni Settanta che si occupava di un modo di raccontare quasi a episodi: con Vacanze d’Italia mi sono permesso di spaziare tra diversi registri narrativi, dal grottesco al tragico fino al drammatico. E fu una prova molto bella, apprezzata dalla critica. Intanto già avevo trascorsi in tv – ero stato inviato di Okkupati, poi di Ballarò e Presa diretta – ma tra questi impegni ci fu questa esperienza che mi permise di trovare la mia dimensione narrativa. Facevo un’immersione senza nascondere il me che toccava, vedeva, si confrontava con chi aveva di fronte”.
“Ho cullato un doppio registro con la parola: sia quello giornalistico, che poi pian piano ha preso la sua strada, sia quello di tipo letterario, poetico, tant’è che la poesia è uno degli elementi che mi ha permesso di avere una mia metrica, oggi potrei definirla così”.
Uno stile con cui Iannacone ha poi completamente avvolto I dieci comandamenti, prima serie che lo vedeva sia alla conduzione sia alla regia. Dieci episodi che lo hanno visto girare attraverso l’Italia raccogliendo testimonianze e spaccati di vita in un viaggio amaro tra chi non si sente tutelato come cittadino italiano. Il primo episodio, per esempio, dal titolo “Come figli miei”, è il racconto di un Istituto professionale del Parco Verde, a Caivano, alle porte di Napoli. Un luogo dove lo Stato è assente e i diritti risuonano come parole vuote. Una delle più grandi piazze di spaccio d’Europa dove prostituzione, degrado, abusi sessuali sono all’ordine del giorno. In un luogo dove la dispersione scolastica raggiunge i più alti livelli d’Italia, la scuola è l’unico baluardo di legalità e l’unica porta aperta verso il futuro. “I dieci comandamenti sono stati un elemento di rottura rispetto al racconto televisivo giudicante. Cioè io ho fatto un passo indietro: non ho assunto una posizione ideologica rispetto a quello che ho raccontato, e non sono stato mai giudicante rispetto a persone che magari avevano colpe. Allo stesso modo, non sono stato mai neppure clemente verso chi non ne aveva. Lasciavo spazi aperti cosicché il telespettatore potesse entrare nella storia, aprire dentro di sé percorsi di analisi interiore. Come accade al cinema”. E il grande schermo ritorna centrale nelle riflessioni di Iannacone che, nei suoi prodotti tv, ascolta con calma, attenzione, interroga i protagonisti con coinvolgimento emotivo, senza frenesia. La sua voce è flebile, la presenza del giornalista è quasi impercettibile. “I tempi lenti sono quelli dei piani sequenza non tagliati, unici. I silenzi sono l’elemento della pausa della vita. Il silenzio è il nostro pensiero che, in qualche modo, può esprimersi e che non può essere fagocitato. I silenzi, per me, sono come dei fuori campo. Antonioni diceva una cosa interessante sul fuoricampo: aveva l’idea di mettere in risalto sempre elementi che sembrano secondari. Se non ci fossero le pause, gran parte delle emozioni in tv sarebbero praticamente tranciate, annullate”.
Lentezza
“Mentre tutti accelerano, ho fatto un’operazione inversa. Ho trasmesso in video le pause, la sedimentazione di quello che accade, il tempo di una reazione. Per anni la tv ha avuto bisogno di velocità per creare dinamismo. Secondo me il dinamismo, invece, nasce dalla profondità di quello che dici: è la capacità di entrare anche nel personaggio. Credo che la tv non debba essere specchio deformante di ciò che c’è fuori. Se è specchio deformante vuol dire che mistifica: rende veloce quello che non lo è”. E qui Iannacone torna a De Sica: “Nessun giornale metterebbe in prima pagina una storia di un uomo a cui hanno rubato la bicicletta: ma lo voglio raccontare perché è come se a lui avessero rubato la vita. È un elemento minimo che però è straordinario. Le ho ribattezzate storie minime, inchieste morali, proprio per dare l’idea che dietro la storia di un uomo, si nascondono le esperienze di tutti”.
“I silenzi, per me, sono come dei fuori campo. Antonioni diceva una cosa interessante sul fuoricampo: aveva l’idea di mettere in risalto sempre elementi che sembrano secondari. Se non ci fossero le pause, gran parte delle emozioni in tv sarebbero praticamente tranciate, annullate”.
Anche Che ci faccio qui, andata in onda tra 2020 e 2021, ha cercato persone che nel loro quotidiano compiono atti fuori dall’ordinario. Esempi di altruismo, come quello di Don Ciotti, o esperienze di invisibili, come gli oggetti che vengono dismessi e distrutti ogni giorno, sacrificati sull’altare di un consumismo di massa esasperato, punto di partenza per una riflessione sull’economia etica. E ancora il calcio sociale o la struggente, ma rigenerante, storia della 35enne Giulia, che ha imparato, con un metodo innovativo, a percepire i suoni attraverso le vibrazioni del suo violoncello. Dalla visione di Che ci faccio qui si esce scossi e turbati perché si assiste a frammenti di realtà che sembrano distanti ma che Iannacone avvicina al pubblico. Spiega l’autore: “è stato praticamente un modo per produrre all’esterno quello che stavo facendo, una continuazione naturale de I dieci comandamenti, che mi fatto capire, ancora una volta, che non c’è mai un programma libero dal punto di vista creativo. Anche nel mio caso: io non ho un canovaccio da seguire, non ho una buona regola da applicare, pertanto avverto una responsabilità maggiore e devo trovare sempre storie che abbiano un reagente morale. Molte storie le incrociavo mentre ero inviato per altri programmi e mi mettevano voglia di tornare per approfondirle, proteggerle e raccontarle a modo mio. I protagonisti sono inediti, piccoli, secondari. È come aver vissuto tante vite. I rapporti sono stati immersivi: le persone si aprivano a racconti molto intimi, quasi si meravigliavano ad avermi confessato certi particolari. Un meccanismo di ascolto quasi psicologico in cui le persone chiudono gli occhi e parlano delle loro esperienze senza pudore, nel modo più becero possibile”.
Iannacone ha portato questo stile di racconto televisivo in uno spazio ampio e strutturato come la Rai. Gli chiedo come funzioni la produzione di titoli del genere: “Prima di Che ci faccio qui – conclude Iannacone – tutti i lavori e tutte erano state direttamente interne alla Rai, dalla produzione alla parte realizzativa fino al montaggio. Dopo I dieci comandamenti ho pensato potesse essere più snello un percorso esterno. Sono proprietario del format che ora produco con Hangar Tv, che poi lo vende alla Rai. Questo mi ha tolto dei rallentamenti produttivi perché la Rai è un’azienda molto grande, spesso ci si scontra con la sua struttura elefantiaca. Produzioni piccole e artigianali come le mie sono più comode da produrre all’esterno”. In questo modo, Iannacone non cerca la velocità di produzione. A lui correre non interessa. Le sue sono passeggiate meditative tra storie che fanno riflettere.
Luigi Lupo
Giornalista freelance e autore podcast. Si occupa di società, suoni e attualità per Upday, Rolling Stone, Alias - Il Manifesto e Sentireascoltare.
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