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Fallimenti

Il flop dell’innovazione

Nei mercati globali dei format, il fallimento è messo in conto fin dall’inizio. Uno su mille ce la fa. Ma da alcuni spettacolari insuccessi in realtà si impara parecchio su come funziona la tv. Parola di autore.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 24 - Flop. Il fallimento nell'industria creativa del 03 dicembre 2018

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In ogni mercato televisivo c’è la caccia alla new big thing, l’idea del decennio (ormai basterebbe dell’anno), il format vincente che si vende in tutto il mondo (ormai basterebbe in una manciata di Paesi) e che fa fare un sacco di soldi al compratore dall’occhio lungo che è riuscito a metterci le mani sopra per primo. Solo che non è facile, trovare la new big thing. Le variabili in gioco sono infinite, e il rischio di fallire è sempre dietro l’angolo. 

Quello che segue è un breve elenco, soggettivo, di quattro promesse mancate, quattro programmi che sembravano dover cambiare il mondo dell’intrattenimento e invece, per una ragione o per l’altra, non l’hanno fatto. Sono stati, chi più chi meno, dei flop. Sono però – come dire? – dei flop “costruttivi”, perché hanno tentato vie nuove e ci hanno insegnato qualcosa. Quindi, nel mio personale archivio di format, occupano un posto speciale, molto più di tanti programmi che pure hanno ottenuto risultati migliori, ma sono del tutto anonimi e fungibili.

The Truth about Interactivity

Era il 2007, oltre dieci anni fa, che in termini televisivi equivalgono a un’era geologica. La rete svedese Svt (pubblica!) lancia un programma che definire innovativo è riduttivo: The Truth about Marika. Si tratta, come verrà spiegato, di un “participation drama”, ossia un ibrido tra fiction e intrattenimento, con un livello di interattività mai tentato prima. Funziona così. Mentre sta andando in onda una fiction, una telespettatrice accusa Stv di aver rubato la storia dal suo blog personale. Ma l’accusa è più pesante, perché la ragazza sostiene che Marika, la protagonista del blog e della fiction, è una persona reale, fatta sparire da una misteriosa setta, l’Ordo Serpentis. A questo punto la fiction di partenza si trasforma in una specie di reality/talk, dando vita a una gigantesca ricerca, sia online sia sul campo, coordinata dai volti ufficiali della rete, a cui gli utenti sono esplicitamente chiamati a partecipare in prima persona. Devono darsi da fare per cercare indizi su internet e per strada, nel “mondo reale”, a caccia di codici QR, che danno l’accesso a un ulteriore livello di informazioni. Completa il tutto una sorta di videogioco online (l’Entropia Universe), creato ad hoc dalla produzione, parte anch’esso di questa articolata architettura mediale. Uno sforzo creativo e produttivo con pochi precedenti. 

Il format si fa notare, naturalmente, e vince un sacco di premi, tra cui l’Emmy per il migliore servizio tv interattivo, riconoscimento creato apposta per l’occasione. Autorevoli guru della transmedialità di tutto il mondo citano l’esempio nei loro testi per dimostrare che la televisione come l’abbiamo conosciuta finora è destinata a tramontare e una nuova era, quella dello spettatore protagonista, è iniziata. Il processo pare ormai irreversibile. E invece non è andata così. Il programma, per ammissione dei suoi creatori, è stato un flop a tutti gli effetti, tanto che progetti basati sullo stesso principio, che si stavano nel frattempo mettendo a punto (The Blackbeard Connection e The Yeti Project, entrambi distribuiti dalla società olandese Absolutely Indipendent, ora fallita) sono definitivamente archiviati. La tv continua a funzionare come prima, con buona pace dei guru. È peraltro interessante notare che qualcosa di molto simile è stato fatto anche in Italia, nel lontano 1959, quando sull’unica rete va in onda I figli di Medea, un “teledramma” ispirato da La guerra dei mondi di Orson Welles. Qui l’esperimento è stato un sensazionale evento mediale, mai più ritentato. Viene difficile pensare che gli svedesi si siano ispirati proprio al nostro remoto precedente, in onda quasi mezzo secolo prima, ma chi può dirlo?

Falling Star

Facciamo un salto in avanti di sei anni e cambiamo continente. Siamo nel 2013, in Israele. Su Canale 2, Keshet lancia Rising Star, un talent show che, ancora una volta, punta tutto sulla carta dell’interattività. Il meccanismo è semplice. Prima che l’artista in studio esegua la performance, gli cala davanti un “muro” fatto di tantissimi piccoli schermi led, che lo separa dal pubblico in studio. Quando la sua esibizione ha inizio, gli spettatori da casa possono votare attraverso un’app: in caso di giudizio positivo, su uno degli schermi di fronte all’artista appare l’immagine del votante, che può vedere la sua foto in onda, anche se nelle dimensioni di un ridottissimo francobollo. Se l’artista ottiene almeno il 70% di approvazione tra chi si è loggato (“accendendo” dunque la percentuale relativa di mini-schermi led), il “muro” si solleva e il concorrente si trova di fronte al pubblico che lo acclama in studio. Lo show, oltre che innovativo, è davvero spettacolare: il muro di ledwall che scende di colpo di fronte al concorrente, diviso in quadratini con i volti dei telespettatori che si accendono a uno a uno come tante candeline man mano che la performance conquista la platea, è assai suggestivo, poco da dire.

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La critica accoglie trionfalmente il programma, con titoli entusiastici sui giornali specializzati (“a new era of interactive television”) e premi prestigiosi; i mercati anche. Suscita l’interesse di tutti ed è subito venduto o opzionato da una ventina e passa di Paesi, Italia compresa. Sembra che niente possa fermare la marcia inarrestabile alla conquista degli schermi di tutto il mondo. Eppure, ancora una volta, nonostante le premesse più che lusinghiere, le cose non vanno per il verso giusto. Nei primi paesi occidentali in cui è trasmesso (Germania e Stati Uniti fra tutti) i risultati non sono affatto quelli sperati, considerate anche le costose campagne di marketing con cui è stato promosso, ed è cancellato dopo la prima stagione. In Inghilterra, Itv, che stava producendo lo show, lo cancella addirittura prima della messa in onda, spaventata da questi insuccessi. Altri compratori, facili a infiammarsi ma ancor più veloci a raffreddarsi, perdono di colpo interesse al format, che cade così nel dimenticatoio. Adesso, Rising Star continua comunque a essere trasmesso nella rete che l’ha lanciato, in Israele (Netta, fresca vincitrice dell’Eurovision Song Contest, viene da lì). Non si può dire che sia un flop in senso assoluto. Certo però che, rispetto alle fortissime aspettative iniziali, un po’ d’amaro in bocca rimane…

Utopia di nome e di fatto

Ladies and gentlemen, there will be a new groundbreaking reality show named Utopia”. Sono queste le prime parole del promo di un programma andato in onda in Olanda, su Sbs6, nel 2014. Si tratta di un social experiment (definizione che diventa di moda proprio in quegli anni), in cui un gruppo di quindici concorrenti deve costruire da zero niente di meno che una nuova società: Utopia, appunto. Il format, molto ambizioso, desta l’immediata curiosità del mercato. Dato che il creatore è un certo John De Mol, che nel 1999 ha lanciato quel Big Brother che ha cambiato la storia televisiva, la curiosità è ancora maggiore. Si tratta di un progetto grandioso e innovativo. I concorrenti hanno la possibilità di gettare le basi di una nuova civiltà, con nuove regole, leggi, dinamiche. Non sono neppure concorrenti in senso stretto: non ci sono vincitori né vinti, nomination o eliminazioni. L’esclusivo motivo di interesse è vedere come la nuova società cresce, prende forma e si sviluppa. Un nuovo modo di fare e guardare la tv.

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Anche in questo caso i Paesi interessati sono molti, ma è Fox negli Stati Uniti che si prende il rischio maggiore, adattandolo e mettendolo in onda subito. Appare però chiaro che il successo del Grande fratello non sarà replicato. I risultati d’ascolto sono decisamente bassi, al contrario dei costi, enormi (sembra che la rete abbia sborsato 50 milioni di dollari). Tra l’indifferenza del pubblico lo show viene cancellato in anticipo, e tra tutti gli altri mercati che l’avevano opzionato c’è un fuggi fuggi generale. E così, mentre tutti conoscono e parlano ancora di Big Brother, a distanza di vent’anni dal suo primo lancio, nessuno, o quasi, si ricorda più di Utopia, suo sfortunato fratellastro.

(Not) the Extra Mile

Torniamo allora in Israele. Su Canale 10 va in onda un programma tradizionale come impianto, ma controverso come tema: The Extra Mile. Dieci coppie divorziate (e con prole) sono spedite nel classico paradiso tropicale. Qui le coppie scoppiate devono ritrovare la complicità d’un tempo per competere in prove fisiche e mentali totalmente basate sulla fiducia e sull’affiatamento tra ex partner. Perché lo fanno? Perché chi vince assicura un futuro ai figli, che riceveranno un importante importo per i loro studi superiori, una volta raggiunta la maggiore età.

Gli ingredienti per il successo sembrano esserci tutti: ambientazione esotica, prove spettacolari, un intreccio ad altissima tensione emotiva. Il mercato risponde più che positivamente e il format riceve un sacco di opzioni: forse alla fine è stata trovata, questa benedetta new big thing. La prima nazione che si prende l’onere di metterlo alla prova, con il titolo di ¿Ex?, stavolta è la Spagna, nel 2014 (ricordatevi l’anno, è importante). Purtroppo, anche qui, il copione si ripete identico: i risultati non sono all’altezza delle aspettative e le ambizioni di The Extra Mile si arenano miseramente. Questa volta però le ragioni del flop sono difficili da spiegare. Il format ha una struttura classica, collaudata, e gli ingredienti sembrano essere tutti e solo quelli giusti, per un reality di questo tipo. In patria ha ottenuto risultati record, specie sul pubblico più giovane (e ambito). E allora? Cosa non ha funzionato stavolta? 

Nel 2014 ci sono i Campionati del mondo di calcio e la Spagna era una delle grandi favorite. Siccome la rete di The Extra Mile era la stessa che trasmetteva le partite della nazionale, la messa in onda del reality è programmata dopo l’avventura mondiale. E invece accade l’imponderabile. Quell’anno la Spagna, a sorpresa, è subito eliminata. Serve quindi un sostituto al volo per le prime serate e la scelta cade sul format, già in cantiere. I tempi di produzione sono accelerati bruscamente, la qualità del programma ne risente e i cattivi risultati arrivano di conseguenza.

Circola un aneddoto in proposito, difficile da verificare, ma che vi riporto lo stesso, perché è comunque esemplificativo di certe dinamiche interne all’industria televisiva. Nel 2014 ci sono i Campionati del mondo di calcio e la Spagna era una delle grandi favorite. Certo, non era più lo squadrone che aveva conquistato il titolo quattro anni prima, ma tutti davano per scontato che avrebbe passato almeno la fase a gironi. Siccome la rete di The Extra Mile era la stessa che trasmetteva le partite della nazionale, la messa in onda del reality è programmata dopo l’avventura mondiale, con la convinzione da parte di tutti che ci sarebbe stato un bel po’ di tempo. E invece accade l’imponderabile. Quell’anno la Spagna, a sorpresa, è subito eliminata e la sua avventura termina prima ancora di cominciare (ricorda qualcosa?). Serve quindi un sostituto al volo per le prime serate e la scelta cade sul format, già in cantiere. I tempi di produzione sono accelerati bruscamente, la qualità del programma ne risente e i cattivi risultati arrivano di conseguenza. E così una mancata qualificazione ai mondiali di una squadra di calcio ha affossato inesorabilmente le aspirazioni di un format televisivo, forse destinato al successo internazionale.

In conclusione

The Truth about Marika, Rising Star, Utopia, The Extra Mile sono quattro programmi che, per ragioni diverse, hanno deluso. Solo dal punto di vista commerciale, però. Perché come insegnamento sono stati e restano invece utilissimi. Da The Truth about Marika abbiamo imparato che lo spettatore deve avere la libertà di rimanere passivo, se vuole, e che non può essere spinto “a comando” a fare salti transmediali, su internet o in mezzo alla strada. Se vuole godersi “solo” lo spettacolo televisivo non deve avere la sensazione di perdersi qualcosa; e comunque la complessità, nell’intrattenimento, non paga. Per quanto riguarda Rising Star, la lezione che si può trarre, almeno per me, è che, nei format in generale e nei talent in particolare, è più importante la flessibilità narrativa che uno schematismo troppo rigido, anche se questo dà la possibilità di interagire con il programma; e che bisogna avere la libertà autoriale di allungare, sintetizzare, smembrare e accorpare le storie degli artisti, concentrandosi a volte sulle qualità tecniche (dando spazio all’intera interpretazione del brano), a volte sui lati umani (anche prescindendo quasi del tutto dall’esibizione), cosa evidentemente impossibile nel caso del format israeliano, che, per permettere una corretta modalità di voto, deve standardizzare le performance. In Utopia è risultato evidente che gli “elementi formattizzanti” (eliminazioni), per quanto artificiali e, se vogliamo, pure un po’ noiosi, sono utili, e servono a tenere insieme, scandire e drammatizzare il format, evitando che si “slabbri” eccessivamente. Quanto a The Extra Mile, ammesso che la storia che ho sentito sia vera, be’, ci ha confermato, se ce ne fosse bisogno, che quando il diavolo ci mette la coda, c’è poco da fare… 

Ma queste cose le abbiamo imparate perché c’è stato qualcuno che ha avuto il coraggio di provare ad andare oltre gli schemi, di tentare strade nuove, di non limitarsi a replicare il già fatto e già visto, come accade per gran parte dei programmi in circolazione, di cui ci dimentichiamo il giorno dopo la messa in onda. Ed è grazie a queste persone che si va avanti e si progredisce, non solo in campo televisivo.


Axel Fiacco

Ha oltre vent'anni di esperienza nel campo dell’unscripted. Docente in vari corsi universitari, svolge attività di consulenza e formazione a case di produzione e broadcaster italiani ed esteri. Nel 2021 fonda Format Espresso, un hub creativo e distributivo specializzato in IP, creatività, co-produzioni internazionali e distribuzione. Tra le sue pubblicazioni: Unscripted Formats. Teoria e pratica dei programmi televisivi globali (2020). La sua Friday's Espresso è la newsletter professionale sui format più seguita.

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