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Frammenti

Fine delle trasmissioni

La televisione, la sua storia, ma anche i ricordi, le vite di tutti noi. Un intreccio costante. Comincia qui un percorso d’autore attraverso i decenni. Con Carosello e con il flusso che si interrompe.

Nel 1975 le trasmissioni cominciavano alle 12.30 sul primo canale Rai e alle 18.15 sul secondo. La vita televisiva per me che avevo nove anni iniziava intorno alle 17, ora della merenda (c’era, ma sono ricordi sfocati, un programma di cartoni animati) e finiva, come per tutti i bambini, dopo Carosello.

Non mi ero mai chiesto cosa ci fosse in televisione prima delle 17.15 e dopo Carosello, ma appunto ero un bambino, e i ricordi sono davvero vaghi. Posso elencarli: mio padre che tirava di boxe, inginocchiato, per stare alla mia altezza, mia madre che preparava il latte col Nesquik, ah, certo, il bollitore per le siringhe sul fuoco (stavo sempre malato e andavo avanti a penicillina), e mia nonna che arrivava con la siringa in mano: non guardare – diceva – che subito faccio.

Però ricordo anche la televisione, Carosello, ovvio. Mio nonno amava più di me il programma e specialmente una pubblicità, quella di Jo Condor e del gigante buono. C’era una volta un paese felice, dove tutti erano in armonia, ma arrivava sempre un Condor cattivo (molto comico) che rompeva qualcosa. A rimediare il macello c’era il gigante buono, con la barba, puniva Jo Condor e riportava il paese nella felicità. Pubblicità della Ferrero. Come il Gigante conservava la felicità nel simpatico villaggio, così la Ferrero prometteva che un buon cioccolato al latte o una serie di cioccolatini ci avrebbero donato una certa soddisfazione: diciamo così, il piacere della vita.

Oh, il gigante buono della pubblicità, non somigliava a mio nonno, tranne per l’altezza, cioè per me mio nonno era altissimo e comunque quando trasmettevano la pubblicità, lo chiamavo sempre, lui dovunque stava mi raggiungeva nel tinello, e mi sistemavo sulle sue gambe. Non è che ricordi bene queste cose, voglio dire, le deduco per contrasto. Una volta infatti chiamai mio nonno ma lui, strano, era chiuso in camera da letto e non voleva uscire. Rivedo la scena ancora oggi (che ho 55 anni). Sì, ho un ricordo vivo, accovacciato davanti a quella porta chiusa, e bussavo, bussavo: fu un momento triste, come se Jo Condor avesse vinto – da questo deduco, appunto, che gli altri momenti, in braccio a mio nonno fossero allegri.

C’erano oggetti che facevano parte dell’arredo televisivo, a parte divani e sedie, che mi facevano, non so perché, paura. Il trasformatore per esempio. Un aggeggio enorme, diventava incandescente. Quando l’accedevi l’immagine non compariva subito sul televisore, veniva fuori a poco a poco, a volte ci metteva un sacco di tempo, e anche quando spegnevi, prima c’era un risucchio, sembravano dei vagiti, forse era – così pensavo – il televisore che si lamentava, non voleva spegnersi. Mio nonno comunque ogni tanto cambiava il trasformatore, ne prendeva uno ancora più grande e secondo lui migliore di quello precedente. 

Mio nonno faceva il muratore, aggiustava le cose, come il gigante buono della pubblicità: si occupava anche di elettronica. Aveva viaggiato. Ai tempi, per lavoro, dal suo paese (Sant’Agata dei Goti) si era spinto fino a Milano. E poi era un reduce di guerra. L’8 settembre del ’43, stava in alta Italia e tornò a casa a piedi, costeggiando l’Adriatico, spiaggia dopo spiaggia, e poi s’arrampicò sull’Appennino: ricordava tutto, i paesi che aveva attraversato, gli occhi degli italiani che l’avevano accolto – brava gente, generosa, diceva (“Ma quale gente, – rispondeva mia nonna, – pensava sempre e solo alle donne”).

C’erano oggetti che facevano parte dell’arredo televisivo, a parte divani e sedie, che mi facevano, non so perché, paura. Il trasformatore per esempio. Un aggeggio enorme, diventava incandescente. Quando l’accedevi l’immagine non compariva subito sul televisore, veniva fuori a poco a poco, a volte ci metteva un sacco di tempo, e anche quando spegnevi, prima c’era un risucchio, sembravano dei vagiti, forse era – così pensavo – il televisore che si lamentava, non voleva spegnersi.

Ricordo un racconto di mia madre. Una mattina suo padre (appunto mio nonno), inaspettatamente aveva acceso il televisore e non perché volesse vedere la tv. A quell’ora i programmi non c’erano, e infatti: sfrigolio, sfarfallio, puntini, elettricità statica, rumore di sottofondo, e il tutto in bianco e nero. Era rimasto a fissare lo schermo. Finché mia mamma si avvicinò: “Papà, – gli disse, – che succede? È presto per i programmi, che vi siete confuso? È mattina, non pomeriggio”. Così mio nonno spense il televisore e disse: “La morte deve essere così”. “Così come?”, chiese mia mamma. “Così come il televisore, – rispose mio nonno. – Prima si vede tanto e poi all’improvviso solo puntini”.

Qui i miei ricordi hanno un’accelerazione. Mia mamma mi svegliò all’improvviso: era notte, doveva essere finito Carosello, ma da quanto tanto? Dobbiamo portare nonno all’ ospedale, ormai sei grande, stai attento a tua sorella, pochi minuti, andiamo e veniamo. Fu la prima volta che mi trovai solo, di notte. Poi mica aveva capito cosa fosse successo. Il silenzio della casa, quello, era il rumore più forte che avevo mai sentito. Allora feci una cosa, accesi la televisione, cercavo compagnia, le immagini note. Dunque, il trasformatore, l’attesa ed ecco formarsi l’immagine. Mi ricordo le nuvole e poi le le trombe e quindi vidi comparire una strana figura geometrica, un traliccio sì, saliva verso l’alto, spariva fra le nubi. 

Infine una scritta: fine delle trasmissioni. Poi un cartello nero, le trasmissioni riprenderanno domani alle 12.30. A parte che era la prima volta che vedevo la sigla di chiusura delle trasmissioni, nota anche come “Armonie del pianeta Saturno” – ma l’avrei saputo decenni dopo – ma non potevo, cioè non ero pronto a immaginare che qualcosa finiva, con quella sequenza, la marcia sostenuta da trombe e oboe, l’ascesa verso il cielo e poi il nulla: il fruscio statico, la danza sbilenca dei puntini, lo scricchiolio elettrico.

Anni dopo, un fisico mi disse che quel fruscio, insomma il tipico rumore che caratterizza l’assenza del segnale tv, contiene un’eco del Big Bang iniziale. L’onda è arrivata fino a noi a testimonianza della forza dell’evento iniziale – mi spiegava il fisico. Una scoperta che tra l’altro aveva chiarito molte cose in ambito astronomico e introdotto il concetto di Big Bang, e comunque suggeriva la potenza della vita. Ma allora, a nove anni, nella solitudine della casa, dopo che il traliccio era asceso al cielo e poi scomparso tra le nubi, portando con sé la decomposizione delle immagini televisive, passare da Jo Condor ai puntini e dai puntini al nulla, mi sembrò un evento spaventoso. Graffiante. Un lamento, tanto che mi coprii le orecchie, poi spensi il televisore e corsi via terrorizzato. 

Di sicuro da bambino sarò stato triste, arrabbiato, annoiato, ma quella volta la paura mi fece scoprire la debolezza del mio corpo. La morte aveva fatto un ingresso trionfale, via trombe o obici e poi raffinato, sotto forma di sfrigolii inquietanti. Così, come il televisore aveva perso un ordine, non più immagini e storie ma solo caos elettrico, anche il mio corpo lo perse, tanto è vero che per la prima volta in vita mia mi feci pipì sotto: ero gelato. I miei tornarono. Mia mamma, giura che si trattò di un’ora, a me sembrò un’eternità, fatto sta che con loro arrivarono anche gli infermieri, trasportavano il corpo di mio nonno.

Ebbi – mi ricordo bene – una crisi di pianto. Non per mio nonno, credo non avessi ancora capito cosa fosse successo. Piansi per reazione, per scacciare il senso di fine delle trasmissioni che avevo scoperto. Perché era vero, prima si vedeva, poi all’improvviso più niente. Piansi anche da solo, non ricordo consolazioni, posso capire il perché, la veglia e il funerale da preparare.

Mia mamma si avvicinò: “Papà, – gli disse, – che succede? È presto per i programmi, che vi siete confuso? È mattina, non pomeriggio”. Così mio nonno spense il televisore e disse: “La morte deve essere così”. “Così come?”, chiese mia mamma. “Così come il televisore, – rispose mio nonno. – Prima si vede tanto e poi all’improvviso solo puntini”.

Forse è per quello che è successo, per contrastare quella spiacevole e ormai insanabile sensazione che a quel ricordo ne associo un altro: sono in terza media, a casa, malato – ai tempi, stare malati a casa significava abituarti all’ozio, appunto i programmi cominciavano tardi – e insomma mi ricordo che giravo la manopola della sintonia, freneticamente, perché qualcuno mi aveva detto che c’erano altri canali che trasmettevano e infatti a un certo punto, mi accorgo che dallo sfarfallio sta per spuntare un’immagine: una rivelazione, c’erano altri canali, altra vita nell’etere, la vita dunque non finiva: ricordo la sensazione di felicità, c’era altro da vedere e da scoprire.

Poi è passato del tempo e ho razionalizzato, costruendo scuse, meglio metafore. Una è: gli anni Settanta sono finiti quando la fine delle trasmissioni è stata dimenticata, perché sono arrivati altri canali che trasmettevano sempre, a tutte le ore, regalandoci l’idea dell’eternità. Gli anni Settanta sono finiti quando abbiamo buttato i trasformatori e cambiato il Tubo a raggi catodici. Gli anni Settanta sono finiti quando è iniziato il colore e gli anni Ottanta hanno portato in trionfo immagini variopinte e altri consumi, televisori sempre accesi e altre idee di società: più aperte, non solo villaggi felici e cioccolatini. Tante cose ancora, e insomma, alla fine abbiamo pensato a vivere nel colore, a divertirci e sì, anche a indebitarci. Col tempo ho fatto tutte queste metafore ma solo per non farmi sopraffare in un’ora qualunque del giorno da quel ricordo, la fine delle trasmissioni e il conseguente sfarfallio statico. Credo ancora che questo sfarfallio nasconda degli strumenti narrativi molto efficaci che andrebbero governati e divulgati e sì, passano anche per la tv: ma questa, temo, sia un’altra scusa, o metafora che dir si voglia.


Antonio Pascale

Giornalista e scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con Il Mattino, Lo Straniero e Limes. Tra le sue opere: La città distratta (1999), La manutenzione degli affetti (2003); S'è fatta ora (2006), Le aggravanti sentimentali (2016).

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