Il cyberpunk è tornato? Oppure non se ne è mai andato? Di certo, il sospetto è che in buona parte sia diventato realtà, a maggior ragione durante la pandemia. Viaggio nelle evoluzioni di un immaginario.
“Intanto, in Europa, il governo Padano è nuovamente impegnato in una campagna per impedire gli scavi illegali e i saccheggi della città di Venezia”, annuncia una versione cyberpunk di Enrico Mentana in uno dei tanti notiziari tv disseminati nel mondo di Cyberpunk 2077, il mastodontico videogioco di CD Projekt RED, uscito a fine 2020, che immerge i giocatori nelle elettrificate atmosfere di Night City, una metropoli ipertecnologica, cannibalizzata dalle multinazionali, devastata dal crimine e inondata di droghe. Night City si trova nello Stato Libero della California Settentrionale, Paese nato dalla balcanizzazione degli Stati Uniti d’America. Il sogno bossiano della Padania indipendente non è quindi un unicum: tutto il mondo di Cyberpunk 2077 è fatto di stati centrali allo sbando, la cui autorità è stata erosa da grandi aziende, clan mafiosi e altri gruppi simil-tribali.
Quello della decadenza del potere statale tradizionalmente inteso è del resto uno dei temi cardine del cyberpunk, il genere letterario di cui il videogioco di CD Projekt RED vuole rinverdire i fasti. Le opere essenziali del canone cyberpunk sono state recentemente riproposte in italiano in Cyberpunk. Antologia assoluta, un imponente volume edito da Mondadori e uscito a febbraio 2021 che raccoglie i romanzi Neuromante (1984) di William Gibson, Snow Crash di Neal Stephenson (1992) e La matrice spezzata di Bruce Sterling, più l’antologia di racconti di fantascienza Mirrorshades (1986), curata sempre da Sterling. Il mondo immaginato da questi libri è per l’appunto quello di Night City: tecnologia all’avanguardia sotto forma di intelligenze artificiali umanoidi mischiata con fantastiche realtà virtuali (il Cyberspazio inventato da Gibson nel Neuromante o il Metaverso, una sorta di Fortnite ante litteram, raccontato da Stephenson in Snow Crash), ma anche vicoli sporchi e bui, il tutto avviluppato in una galassia vorticante di droghe. Insomma, una combinazione di “lowlife e high tech”, come la definì Sterling.
Nel corso degli anni, tante altre opere hanno provato ad aggiungere nuovi capitoli all’avventura del cyberpunk. Alcuni di questi si sono poi rivelati fondamentali come la serie di Ghost in the Shell (dal 1989), altri molto innovativi come il fumetto Transmetropolitan (1999-2002) o il recente romanzo Marea tossica (2013) dello scrittore Chen Qiufan, soprannominato “il William Gibson cinese”, mentre altri capitoli ancora si sono rivelati lunghi, senza niente di nuovo da dire, ma buoni come recap per chi approccia il genere per la prima volta, tipo Cyberpunk 2077 (la stessa idea del governo padano è in realtà ripresa dal romanzo di Gibson Luce virtuale del 1993). In fondo, però, gli ingredienti basilari della cucina cyberpunk sono sempre rimasti gli stessi, quelli raccolti nell’antologia Mondadori. Com’è possibile, quindi, che un genere non troppo variegato come il cyberpunk si mantenga ancora così fresco, a quasi quarant’anni da quando Gibson scorrazzò per la prima volta nel cyberspazio?
Tecnologia all’avanguardia sotto forma di intelligenze artificiali umanoidi mischiata con fantastiche realtà virtuali, ma anche vicoli sporchi e bui, il tutto avviluppato in una galassia vorticante di droghe. Insomma, una combinazione di “lowlife e high tech”, come la definì Sterling.
Per rispondere a questa domanda, basta fare due passi fuori di casa. L’Italia del 2021 si presenta infatti come un paese ad alta gradazione di cyberpunk: abbondanti porzioni di vita sono vissute online, fattorini e corrieri consegnano a più non posso (come in Snow Crash) e, certo, il governo della Padania è ormai un mito vintage ma le tensioni stato-regioni dimostrano che lo stato centrale non se la passa poi tanto bene. Ma non si tratta solo dell’Italia (seppure Sterling nella prefazione all’antologia Mondadori sostenga che il nostro Paese è “tradizionalmente la nazione non anglofona che più apprezza il cyberpunk”), le atmosfere cyberpunk vanno forte ovunque, da Blade Runner 2049 (2017), prodotto negli Stati Uniti, a Cyberpunk 2077, sviluppato in Polonia, passando per la già citata Cina di Marea tossica (la Cina ha sostituto il Giappone come “patria ideale” del genere).
Oltre a quelli politici e economici, un altro aspetto del cyberpunk che mantiene intatta tutta la sua rilevanza, anzi l’ha accresciuta, è il suo esistenzialismo. È un esistenzialismo estremo in cui la realtà virtuale, nel senso più ampio del termine, è tagliata con droghe potentissime per scioccarci con l’idea che, tecnicamente, noi non esistiamo nemmeno. O perlomeno non esiste il nostro io.
Danze mentali
Nelle opere cyberpunk, l’io è come una pastiglia effervescente che è dissolta nell’acqua della tecnologia e delle droghe. Ovviamente, le due cose non sono sempre separate: spesso la tecnologia può essere una droga che dà fortissima dipendenza e a volte è la tecnologia a essere una droga usata per sballarsi o espandere la propria mente. Vediamo alcuni esempi. Una delle parti più divertenti di Cyberpunk 2077, un videogioco che troppo spesso si prende mortalmente sul serio, sono le braindance ossia una tecnologia che permette di letteralmente calarti nei panni di un altro e vivere per qualche tempo una vita diversa. Nell’universo del gioco, le braindance hanno più utilizzi: sono la nuova frontiera dell’intrattenimento (i nuovi film/videogiochi), un modo per sfuggire al logorio della vita metropolitana immedesimandosi in un turista su un’isola tropicale o in un cantante su un palco davanti a un pubblico adorante, ma anche un dispositivo terapeutico per curare le “cyberpsicosi” (la malattia che, nel gioco, è causata da un uso eccessivo di impianti cibernetici). Insomma, le braindance sono una sorta di incrocio tra un’esperienza in realtà virtuale e un cartone di Lsd. Del resto, l’accostamento tra sostanze lisergiche e realtà virtuale fu fatto da Timothy Leary, il vate del Lsd, colui che Nixon definì “l’uomo più pericoloso d’America,” già negli anni Novanta quando benedisse la realtà virtuale come “acido digitale”.
Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta erano infatti emersi i cyberdelic, gruppo di cyberpunk che, seppure sempre affascinati dalle nuove tecnologie, spingevano soprattutto l’acceleratore delle droghe e in particolare di quelle psichedeliche. Per respirare le atmosfere cyberdeliche di quegli anni, basta sfogliare qualche copia di Mondo 2000, un magazine patinato, precursore edgy di Wired, edito da un gruppo di psiconauti tecno-utopisti che si riunivano nella Mondo House, una villa vittoriana dalle parti di Berkeley, California. Oppure potete aprire una copia della nostrana Decoder, rivista pubblicata a Milano tra il 1987 e il 1998 che, come ricostruisce Valerio Mattioli su Il Tascabile, è un buon punto d’accesso nel mondo dei “pirati dei Navigli” della Shake Edizioni, la casa editrice che a inizio anni Novanta pubblicò alcuni titoli leggendari come Cyberpunk. Antologia di scritti politici curata da Raf Valvola Scelsi.
Tornando alle braindance, non è che l’idea di una tecnologia-droga che permette di trascendere il proprio ego nasca con Cyberpunk 2077. Nel Neuromante di Gibson troviamo infatti le Simstim, una “simulazione stimolata” attraverso cui il protagonista Case, un cowboy-hacker a fine carriera, si cala nei panni di Molly, una “samurai della strada,” sua alleata. Più in generale, l’intera opera di Gibson è una commedia degli equivoci su chi è chi e cosa significa essere se stessi. “Non riusciva a pensare. Gli piaceva moltissimo, essere cosciente ma incapace di pensare. Gli pareva quasi di riuscire a trasformarsi in qualunque cosa vedesse di fronte a sé: la panchina di un parco, uno sciame di falene bianche intorno a un antico lampione, un giardiniere-robot a strisce diagonali nere e gialle”. Sono le riflessioni del narratore mentre Case si riprende dalle droghe, elucubrazioni peraltro non particolarmente inedite per chiunque abbia provato un quantitativo sufficiente di sostanze psichedeliche.
“Non riusciva a pensare. Gli piaceva moltissimo, essere cosciente ma incapace di pensare. Gli pareva quasi di riuscire a trasformarsi in qualunque cosa vedesse di fronte a sé: la panchina di un parco, uno sciame di falene bianche intorno a un antico lampione, un giardiniere-robot a strisce diagonali nere e gialle”.
Viaggio al termine dell’io
Più in ambito tecnologico, nel romanzo facciamo la conoscenza di Invernomuto, un’intelligenza artificiale costretta ad assumere le sembianze di altre persone perché priva di un’identità stabile. “Queste non sono maschere. Ne ho bisogno per parlare con voi perché non ho quella che chiamereste una personalità, non molta, comunque”, spiega Invernomuto. “Chi sia” davvero l’intelligenza artificiale è quindi difficile da stabilire. “Diciamo che io sono soltanto un aspetto del cervello di questa entità,” elabora Invernomuto mentre è calato nei panni di un altro personaggio. “Dal tuo punto di vista, è come trattare con un individuo lobotomizzato. Diciamo che stai trattando con una piccola parte dell’emisfero sinistro del cervello di quell’individuo. È difficile capire se stai davvero trattando con quel tale, in un caso del genere”. Nel Neuromante, l’io dei personaggi è sempre qualcosa di aleatorio, indefinibile, un concetto allo stato gassoso. Le personalità possono essere scomposte “nei vari moduli di comportamento” e poi ricombinate. I costrutti sono personalità compresse su “una cartuccia rom” e non si capisce bene quale sia il loro status ontologico. Ci sono ingannevoli ologrammi ovunque. Spesso i personaggi si muovono “al di là dell’ego, al di là della personalità, al di là della coscienza”.
Simili esempi si trovano nella maggior parte delle opere cyberpunk, da Cyberpunk 2077 a Ghost in the Shell, sottolineando come oltre a “lowlife” e “high tech”, una terza parola d’ordine del genere può forse essere “Anātman”, il termine con cui nel buddhismo si identifica la mancanza di un io permanente e unitario. L’idea che l’io sia una pastiglia effervescente tenuta insieme solo illusoriamente non è peraltro una previsione distopica, stile governo padano, ma un’idea per certi versi già confermata dalla psicologia e dalle neuroscienze contemporanee. Come spiegato dal giornalista scientifico Robert Wright nel recente libro Perché il Buddhismo fa bene, il concetto di Anātman, il non-sé, ha infatti una buona affinità con tante teorie scientifiche che concepiscono il senso di un sé unitario come un illusione. “Non c’è un posto nel cervello dove l’ego si nasconde”, sostiene per esempio il filosofo e neuroscienziato Sam Harris, “sappiamo che tutto quello che una persona vive, le sue emozioni coscienti, pensieri, umori e impulsi che guidano il comportamento, tutte queste cose sono guidate da una miriade di processi diversi che sono diffusi in tutto il cervello e che possono operare indipendentemente uno dall’altro. Abbiamo un sistema che cambia, siamo un processo, non un sé unitario”.
L’esistenzialismo delineato dalle opere cyberpunk non è quindi un mostro filosofico che viene dal futuro, uno spauracchio di come la tecnologia potrebbe distruggerci esistenzialmente, alla Black Mirror. Al contrario, impianti cibernetici, droghe all’avanguardia, realtà virtuali, città-alveari – insomma tutti gli ingredienti basilari della cucina cyberpunk – sono un filtro attraverso cui indagare la nostra sempiterna condizione umana. Per citare il titolo di un paper della filosofa Rosi Braidotti che a sua volta parafrasa un saggio di Nietzsche: post-umano, troppo umano.
Davide Banis
Lavora per una casa editrice danese. Nel tempo libero, scrive.
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