In un’economia basata sulla competizione di immagini e rappresentazioni, l’autenticità e l’originalità perdono il loro valore. Contraffazione e imitazione diventano i cardini di una nuova cultura che, a partire dal digitale, sta conquistando il mondo del consumo e delle relazioni sociali.
Un paio di anni fa, quando nonostante tutto era ancora possibile recarvisi da turista, vidi in un mercato di Ramallah, in Palestina, un fruttivendolo che indossava una felpa griffata The North Face e Gucci. Nel 2020, le due aziende avevano infatti lanciato una collaborazione creando una collezione limitata di capi d’abbigliamento e attrezzatura varia, dalle ciabatte alle tende da campeggio. La felpa indossata dal fruttivendolo, la cui versione originale costava più di 500 euro (e che si può adesso trovare sul mercato secondario a cifre anche a tre zeri), era evidentemente contraffatta.
Ramallah è piena di negozietti che vendono abbigliamento tarocco e così mi misi alla ricerca della felpa del fruttivendolo, incuriosito da un prodotto contraffatto così di nicchia. Ancora non lo sapevo, ma la mia ricerca della felpa farlocca era ascrivibile alla dupe culture, termine popolarizzato su TikTok e Reddit con cui si indica la predisposizione di una certa fascia di consumatori, appartenenti soprattutto alla famigerata generazione zeta, a preferire l’acquisto di prodotti non originali. Una definizione più circoscritta del termine include solo l’acquisto di prodotti che sono copie deliberate ed esplicite di equivalenti di marca, escludendo quindi la merce contraffatta come la felpa The North Face x Gucci di cui sopra.
Quello della dupe culture, la cui etimologia risale ad un abbreviazione dell’inglese “duplicate”, è un fenomeno in cui convogliano molte tematiche d’attualità, dalla sostenibilità ambientale alla protezione della proprietà intellettuale e il futuro del copyright, dall’inflazione alla distinzione filosofica tra vero e falso. Vaste programme.
Profumi clonati e Rolex fatti in casa
C’è sempre qualcuno che ha un profumo o un orologio più costoso del tuo. In un circolo di amici benestanti, un Rolex da qualche migliaia di Euro è il top di gamma così come lo è un profumo da 100 euro. Poi però uno guarda un episodio della serie TV Succession, vede Kendall Roy sfoggiare un orologio Richard Mille da quasi 200 mila euro e si accorge che i miliardari appartengono a un’altra specie animale. I profumi non hanno incrementi di prezzo così radicali ma ci sono circoli di connoisseur, rintracciabili per esempio nel subreddit r/Fragrance (più di 1 milione di iscritti), disposti a pagare svariate centinaia di euro per 100 ml di acqua aromatizzata.
La dupe culture nasce anche come risposta a questi beni di lusso inaccessibili o accessibili solo al prezzo di sacrifici ingiustificabili. Ecco quindi che pagare poche decine di euro un profumo la cui composizione chimica tenta di replicare il più fedelmente possibile quella di un profumo di una costosissima marca di nicchia non è una cosa di cui vergognarsi, ma anzi una scelta da consumatore consapevole da rivendicare con orgoglio. Per avere qualche esempio, basta farsi un giro sul subreddit r/Fragranceclones (quasi 100 mila partecipanti). Dotte recensioni comparano le note olfattive, la proiezione (quanto bisogna essere vicini per percepire l’aroma) e il sillage (la durata nel tempo) del profumo originale con i diversi cloni presenti sul mercato giungendo a volte alla paradossale conclusione che uno dei dupe è meglio della versione di marca, estremamente più costosa. In questo contesto, lo status symbol non è dato dalla disponibilità economica ma dalla conoscenza dell’originale (testato magari in un aeroporto) e degli innumerevoli cloni presenti sul mercato.
Dupe culture è un termine popolarizzato su TikTok e Reddit con cui si indica la predisposizione di una certa fascia di consumatori, appartenenti soprattutto alla famigerata generazione zeta, a preferire l’acquisto di prodotti non originali.
Ovviamente, il basso costo dei profumi dupe permette ai redditor di r/Fragranceclones di farne incetta. Un genere molto popolare sul subreddit consiste nello sfoggiare le proprie collezioni di fragranze che spesso arrivano a 30, 40 esemplari. Uno dei lati oscuri della dupe culture è infatti lo shopping estremo, reso possibile dal basso costo dei prodotti. In questa ottica, aziende di fast fashion come Temu e Shein che promuovono acquisti compulsivi (Shein mette ogni giorno in vendita migliaia di nuovi articoli) sono la prosecuzione della dupe culture con i mezzi – direbbe uno con un master in cultural studies – del late capitalism. Non è un caso che la tagline di Temu sia “fai shopping come un miliardario”. La sostenibilità ambientale di questi business model è chiaramente non pervenuta.
Ma al di là di quello che una volta si sarebbe più prosaicamente chiamato consumismo, i profumi clone sono anche uno dei tanti esempi della sempre più pervasiva difficoltà di distinguere il vero dal falso nella vita quotidiana. Una sorta di equivalente tangibile dei deepfake resi possibili dai recenti sviluppi nell’ambito dell’intelligenza artificiale generativa.
Un caso simile a quello dei profumi sono gli orologi. Il subreddit r/RepTime (377 mila iscritti, terzo più popolare subreddit a tema orologi) è dedicato ad orologi che sono repliche di orologi di lusso come Rolex e Omega. A differenza dei profumi clone, che dichiarano sempre la propria ispirazione e non si spacciano per l’originale, su r/RepTime si discutono orologi che sono spesso molto difficili da distinguere da un Rolex o un Omega autentico. Tralasciando ovvie constatazioni sul fatto che si tratti di contraffazione, affascina leggere erudite disquisizioni tecniche di persone che si costruiscono da sé il proprio Rolex assemblando pezzi comprati su internet. Questi orologiai fai-da-te spesso riportano commenti ammirati dei loro colleghi che sono da mesi in lista d’attesa per un Rolex presso un AD, “authorized dealer”, venditore autorizzato, figura mitica oggetto di infiniti meme sia su r/RepTime che su r/Rolex (238 mila iscritti). Secondo questi racconti, persone pronte a sborsare migliaia di euro per un orologio non sono minimamente in grado di distinguere uno vero da uno fatto in casa, anche se ispezionato da vicino. Parafrasando il filosofo francese Jean Baudrillard, si potrebbe dire che la dupe culture è un mondo di “contrafacta and simulation”.
Un mondo senza copyright: dai dupe all’IA
C’è un altro aspetto che rende la dupe culture l’equivalente materiale di vari fenomeni che stanno avvenendo nel mondo digitale e che sono accelerati dai rapidi progressi dell’intelligenza artificiale generativa. Mi sto riferendo al problema della protezione del diritto d’autore e, più in generale, al futuro del concetto di copyright.
Generatori di immagini come Midjourney o DALL-E (di proprietà di OpenAI) permettono a chiunque di creare fantastiche illustrazioni nel giro di pochi secondi a partire da un semplice prompt testuale. OpenAI sta testando anche Sora, un modello che permetterà di fare lo stesso ma generando video. Queste nuove tecnologie hanno il potenziale di rivoluzionare radicalmente ogni industria creativa, dal cinema ai videogiochi all’editoria. Il problema è che questi modelli sono stati addestrati con ogni genere di dati, incluso materiale protetto da copyright. Adesso la sensazione è di avere a che fare con una situazione che è già sfuggita di mano e che non sarà più possibile riportare nel perimetro legislativo di quella che è stata fino ad ora la proprietà intellettuale. Bisognerà probabilmente inventare nuovi concetti giuridici per garantire un’equa retribuzione a chi ha avuto l’idea originale. Vastissimo programme.
Anche la dupe culture è accusata di essere un parassita creativo delle idee di designer, creatori e scienziati. “Imitation is the sincerest form of flattery” ma se ti pagano delle royalty è meglio. Più che con i singoli creatori, la dupe culture generalmente intesa, se la prende però con l’idea del brand di per sé, visto come impersonale avatar che fa pagare un surplus ingiustificato per il solo fatto di avere un bollino di autenticità. Ecco allora che clonare il brand o addirittura contraffarlo non è solo la scelta di un consumatore che vuole vivere nella simulazione dell’essere un miliardario ma anche un modo, se vogliamo un po’ patetico, di ribellarsi all’onnipresenza dei brand.
Il No Logo di Naomi Klein ai tempi di TikTok
25 anni fa, l’allora ventinovenne attivista e scrittrice Naomi Klein pubblicava No Logo: Taking Aim at the Brand Bullies, saggio che crocifigge il concetto di brand e le azioni delle grandi corporation, da Nike a McDonald’s, come uno dei principali mali del mondo post caduta del muro di Berlino e dissoluzione dell’Unione Sovietica. Il libro ebbe un successo clamoroso e divenne una sorta di bibbia per il movimento anti-globalizzazione che animava le proteste di quegli anni, dagli scontri di Seattle per la conferenza OMC del 1999 fino al tragico G8 di Genova del 2001. Ironicamente, No Logo ebbe un successo tale che, si racconta, l’editore suggerì all’autrice di creare un trademark basato sul titolo. L’11 settembre, le guerre in Afghanistan e Iraq e la crisi finanziaria del 2008 ridimensionarono molto la forza del movimento anti-globalizzazione e la rilevanza delle idee espresse da No Logo. Oggi, l’onnipresenza dei brand, dagli eventi di ogni genere alla manutenzione dei tombini, è data per scontata.
I profumi clone sono uno dei tanti esempi della sempre più pervasiva difficoltà di distinguere il vero dal falso nella vita quotidiana. Una sorta di equivalente tangibile dei deepfake resi possibili dai recenti sviluppi nell’ambito dell’intelligenza artificiale generativa.
In buona parte del mondo occidentale, e sicuramente in Italia, la generazione zeta inizia a lavorare in un contesto di inflazione tenace e, a meno di aiuti familiari, ha sostanziale difficoltà a comprare beni di prima necessità come una casa. Acquistare dupe, repliche, cloni, simulacri della vanità umana come profumi e orologi che sono del tutto superflui ma al contempo onnipresenti sotto forma di brand nella vita quotidiana diventa una forma di – per usare il linguaggio di Naomi Klein – culture jamming, ovverosia un tentativo di resistenza al dominio delle grandi marche sovvertendo i loro stessi codici comunicativi. In questo caso, mentre i brand promuovono l’ostentazione dell’autenticità come status symbol, i cultori del dupe si vantano di aver comprato un falso. Il “no logo” dei no-global è diventato il logo taroccato della dupe culture.
Lo sbandieramento orgoglioso del tarocco insito nella dupe culture cozza particolarmente con contesti culturali come quello italiano dove si tende a non parlare di denaro ma a implicarlo attraverso marchi indossati, auto guidate, eccetera. A un millennial cresciuto in Italia come il sottoscritto, frequentatore bambino di campetti di calcio dove il marcatore sociale più immediato era l’autenticità o meno della maglia della propria squadra del cuore, questa fascinazione della generazione zeta per il farlocco non può che risultare intrigante. Il fatto che sia in contrasto con ecoansia e sostenibilità ambientale, temi altrettanto popolari su TikTok e Reddit e cari alla generazione zeta, non fa che rendere la dupe culture un concetto ancora più sfaccettato per esplorare le contraddizioni della nostra epoca.
Davide Banis
Lavora per una casa editrice danese. Nel tempo libero, scrive.
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