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Cominciare un’Olimpiade

A Tokyo sono cominciate, tra mille complicazioni e con un anno di ritardo, le Olimpiadi. Occasione di sport, certo, ma anche spettacolo collettivo. A partire dalle scelte della cerimonia di apertura.

Disclaimer: in questo pezzo, per descrivere la cerimonia di apertura, non sarà usato “suggestivo”.

La domanda che precede ogni cerimonia olimpica resta la solita: quanto sono disposto a cedere alla retorica? Ovviamente la risposta dipende dalla disposizione d’animo di ciascuno verso l’evento e l’abilità di chi li mette in piedi sta proprio nel forzarci a spostare l’asticella più in là di quanto abbiamo di volta in volta preventivato. Il successo della ricezione social degli eventi ha, in parte, facilitato il compito, dato che ognuno può ricercarsi, condividere e commentare il momento più adatto e trascurare in fretta il resto. Così si trova chi si commuove per la scelta del tedoforo finale, chi per il ricordo delle precedenti Olimpiadi, chi rivedendo un’atleta, chi per “Imagine”, chi per i medici impegnati contro il Covid o per la performance con cui i giapponesi rivendicano l’invenzione delle icone che accompagnano gli sport olimpici (io). Naturalmente tra un momento e l’altro c’è spazio per commentare le mise delle diverse nazioni (Italia in stile Giochi senza frontiere) o fare commenti puntigliosi sulla telecronaca (immotivati ovviamente, in realtà un gigantesco Franco Bragagna oltre a condurre con la consueta cultura tiene pure uno dei più schietti e sentiti discorsi mai sentiti in tv su ius soli e ius sanguinis).

Doppio pubblico 

Sull’aspetto tecnico, bisogna innanzitutto considerare una questione spesso data per scontata: organizzare per bene una cerimonia vuol dire mettere in piedi uno spettacolo godibile sia per il pubblico pagante sia per il pubblico a casa. È lo stesso spettacolo, ma con due fruizioni talmente diverse che non si può pensare di trattare allo stesso modo le due audience e tocca quasi creare due spettacoli diversi contemporaneamente. Allo stesso tempo, anche se il pubblico a casa è composto da milioni di persone mentre il pubblico nello stadio non può superare le poche migliaia non si possono favorire gli uni sugli altri, anzi è fondamentale che chi è sul posto appaia felice, contento e divertito, perché il rumore, le facce, la partecipazione, soprattutto la possibilità di identificarsi è fondamentale anche per chi guarda da casa. Bene, non avendo il pubblico nello stadio per le note ragioni, se da un lato sembrava che venisse a cadere la chance di sentirsi presenti e di vedere atleti esaltati nell’essere accolti da una folla, dall’altra poteva essere l’occasione per una regia solo concentrata sulla televisione. Onestamente, invece, da questo punto di vista non si sono viste grandi differenza con il passato.

Organizzare per bene una cerimonia vuol dire mettere in piedi uno spettacolo godibile sia per il pubblico pagante sia per il pubblico a casa. È lo stesso spettacolo, ma con due fruizioni talmente diverse che non si può pensare di trattare allo stesso modo le due audience e tocca quasi creare due spettacoli diversi contemporaneamente.

Probabilmente raccogliendo l’invito dell’imperatore del Giappone, la cerimonia è stata poco grandiosa e chi si aspettava una festa del Giappone più pop – manga, robot, videogame, anime – è rimasto scontento: per Londra 2012 il Regno Unito aveva immaginato una lunga celebrazione della sua storia e, nella parte più avvincente e memorabile, del suo ruolo nella creazione di un immaginario pop condiviso a livello mondiale. Poche nazioni avrebbero potuto fare qualcosa di simile e il Giappone era certo una di queste, ma gli accenni sono stati molto pochi, simpatici sicuramente, però limitati all’essenziale.

La memoria dello sport

A un certo punto di Fran Lebowitz. Una vita a New York, la scrittrice discute con Spike Lee di sport. Per Lee gli sportivi più grandi sono al livello dei più grandi artisti, Michael Jordan vale Michelangelo o Picasso, mentre per la scrittrice hanno qualcosa in meno giacché il risultato di una gara in una performance sportiva è fondamentale. Le opere di Michelangelo le possiamo riguardare ed emozionano sempre, le partite di Jordan pure, però conoscendo già il risultato avranno sempre qualcosa in meno: le gare perdono di interesse dopo che si sono svolte, mentre ai quadri migliori non succede. È curioso che guardando il documentario ho pensato che Lebowitz abbia ragione da vendere, mentre poi appena è cominciata la cerimonia olimpica e sono apparsi i primi atleti del passato mi è sembrato che la verità stesse con Lee. Forse è una delle chiavi della retorica olimpica di cui dicevamo prima. Una retorica che la pandemia, colpendo davvero in qualche modo ogni paese, non ha potuto che accentuare. 

Per Londra 2012 il Regno Unito aveva immaginato una lunga celebrazione della sua storia e, nella parte più avvincente e memorabile, del suo ruolo nella creazione di un immaginario pop condiviso a livello mondiale. Poche nazioni avrebbero potuto fare qualcosa di simile e il Giappone era certo una di queste, ma gli accenni sono stati molto pochi, simpatici sicuramente, però limitati all’essenziale.

Ho notato con commozione che certe medaglie d’oro e certe corse e storie non solo non perdono di allure dopo la loro conclusione, anzi ne acquistano. Come questa cerimonia abbia saputo ricordare i grandi del passato – perfino con la memoria dei poveri atleti israeliani barbaramente uccisi dai terroristi palestinesi a Monaco ’72 e mai degnamente ricordati ai giochi come questa volta – forse fa parte della retrotopia planetaria, ma di sicuro è stata la scelta più efficace.  


Arnaldo Greco

Nasce a Caserta e vive a Milano, dove lavora per la tv. Ha scritto per Il Venerdì, IL, Rivista Studio, Il Post, Il Mattino.

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