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Estetiche digitali

Ascesa e declino dei Let’s Play

Guardare gli altri che giocano non è una punizione, ma un’attività volontaria che genera un enorme giro di affari e molte polemiche. Mai sentito parlare di PewDiePie? Ecco.

Se un decennio fa qualcuno avesse ipotizzato un successo planetario per il game video, la previsione sarebbe stata probabilmente accompagnata da una sonora risata. Non a caso, osservare un utente smanettare con un videogioco è spesso paragonato alla contemplazione della vernice che si asciuga su una parete. Oggi, tuttavia, il game video è diventato un’industria culturale a tutti gli effetti, come confermano margini di guadagno considerevoli, un’audience globale e il crescente interesse da parte del pubblico mainstream.

L’espressione game video indica una serie di pratiche e artefatti audiovisivi creati con e a partire dai videogiochi, tra cui Let’s Play, machinima, live stream, speedrun, longplay, walkthrough e altri ancora. Nel suo ultimo report pubblicato nell’agosto 2017, la società di ricerca Superdata ha quantificato in 665 milioni l’audience globale del GVC (game video content), ripartita in 517 milioni su YouTube e 185 milioni su Twitch. Sono cifre colpiscono, perché superano quelle degli abbonati ai più popolari servizi di pay tv, video on demand e streaming musicale come Espn (90 milioni), Hbo (134 milioni), Netflix (100 milioni), Spotify (100 milioni), Pandora (81 milioni) e Hulu (12 milioni). La ricerca conferma che YouTube e Twitch sono le piattaforme preferite dai giovani – il segmento demografico 18-34 anni, pari al 15% della popolazione statunitense – che fruisce contenuti audiovisivi in rete ma non possiede alcun abbonamento alla televisione via cavo – quasi il 20% del campione. L’utente di game video ha un’età media di 33 anni, di poco inferiore a quella del videogiocatore americano medio, 35 anni, è prevalentemente maschio (54%), ha un salario complessivo medio annuale di 58.000 dollari e segue i live streaming prevalentemente di sera, durante l’intera settimana, nella fascia del cosiddetto prime time televisivo.

Uno dei generi di game video di maggior successo è il Let’s Play (LP, letteralmente “Giochiamo!”), che documenta l’esperienza ludica di un utente attraverso immagini, suoni, testo e voice over. Da non confondere con il genere correlato dei longplays, l’LP si distingue dai tradizionali walkthrough (lett. attraversamento, camminata, termine che indica le guide passo dopo passo), da una guida strategica o da un video How To. Il Let’s Play è un racconto personale, soggettivo, spesso caratterizzato dal tono leggero, comico, sagace, irriverente, ironico. Anziché offrire informazioni, l’LP dispensa interpretazioni. Il broadcast di un LP può essere live o registrato. In questo secondo caso, prevede un montaggio più o meno sofisticato, una sceneggiatura elaborata e marche di produzione di un certo livello, mentre la trasmissione in diretta è, per natura, più improvvisata. Il commento in diretta del caster è noto in gergo come riffing. Al pari del rappin’ e della slam poetry, il riffing è una performance retorica.

Osservare un utente smanettare con un videogioco è spesso paragonato alla contemplazione della vernice che si asciuga su una parete. Oggi, tuttavia, il game video è diventato un’industria culturale a tutti gli effetti, come confermano margini di guadagno considerevoli, un’audience globale e il crescente interesse da parte del pubblico mainstream.

Modelli di business e criticità legali

Anche se la diffusione di video basati su o ispirati a videogiochi risale a oltre un decennio fa, l’introduzione di piattaforme dedicate come Twitch.tv (2011) e YouTube Gaming (2015), nonché le funzionalità di live streaming e di social media di console come Xbox One e Playstation 4, hanno indubbiamente contribuito al successo del fenomeno. L’espansione dell’infrastruttura distributiva di contenuti video è stata accompagnata dall’affermazione di nuovi soggetti creativi – i video producer, noti alternativamente come vloggers, streamers, youtubers o casters – che condividono contenuti audiovisivi per fini essenzialmente commerciali. Le attività di vlogging, infatti, prevedono forme di remunerazione diretta e indiretta. Nel primo caso, le formule dominanti sono l’abbonamento(1)Gli spettatori pagano generalmente 4,99 dollari al mese per assistere alle performance del loro caster preferito su Twitch.tv. Il network trattiene la metà, ovvero 2,49 dollari, mentre gli streamer di maggior successo hanno negoziato compensi pari a 3 dollari., le donazioni da parte dei fan(2)Per mezzo di servizi come “Bits” (Twitch), Paypal o Patreon. o gli accordi ad hoc tra il producer e un multi-channel network. Le modalità di pagamento indiretto dominanti più diffuse sono invece la pubblicità(3)Sulle piattaforme di condivisione video, come il sevizio Partner Program di YouTube, attraverso il meccanismo del CPM, ovvero “costo per migliaia di impressioni” che varia tra 1 e 2,5 dollari. Se gli utenti utilizzano sistemi di ad blocking, la pubblicità non è visualizzata e dunque conteggiata., i programmi di affiliazione e la sponsorizzazione. Nel primo caso, un inserzionista colloca un breve spot pubblicitario prima o durante il video dello streamer. I programmi di affiliazione prevedono un accordo tra lo streamer e un’azienda per la promozione di un prodotto o servizio. In questo caso, gli streamer indirizzano i fan verso il sito/servizio per mezzo di un link fornito dall’azienda stessa. Questo meccanismo consente di misurare empiricamente l’efficacia dell’influenza: se il click si traduce in una transazione, ovvero se il fan acquista la merce o il servizio pubblicizzato, lo streamer riceve una commissione. Infine, lo streamer può essere “premiato” in base al traffico che i suoi video sono in grado di generare: in questo caso, l’affiliazione assume i connotati della sponsorizzazione.

Tuttavia, lo streaming videoludico presenta aree opache. La prima è legata al copyright. YouTube e Twitch non si assumono alcuna responsabilità per eventuali violazioni dei diritti d’autore da parte degli streamer che, sul piano legale, non potrebbero sfruttare videogiochi per fini di lucro. Infatti, gli EULA – i contratti di licenza che l’utente “stipula” per utilizzare un videogioco – vietano in modo esplicito ogni sfruttamento commerciale del suddetto software, salvo autorizzazione scritta del publisher. Anche se nella maggior parte dei casi le aziende tollerano gli streamer, in quanto beneficiano del marketing a bassa intensità da essi generato, negli ultimi anni non sono mancate manovre legali atte a scoraggiare tali attività. Se il legittimo detentore del copyright ravvisa una violazione, possono verificarsi due situazioni: un copyright claim e un copyright strike. Nel primo caso, il detentore esige il pagamento dei ricavi generati attraverso il broadcasting. Nel secondo, il detentore può richiedere a YouTube/Twitch l’immediata cessazione della trasmissione. A questo proposito, le reazioni dell’industria videoludica variano: alcune aziende sopportano, ma non supportano, gli streamers (Nintendo), altre li incoraggiano nella misura in cui rispettano le linee guide definite dal publisher (Ubisoft). Corsi e ricorsi: un decennio fa, alcune aziende promuovevano i machinima (Microsoft), mentre altre li vietavano esplicitamente (Rockstar Games, in un controverso caso raccontato qui). A questo proposito, nel 2015 Microsoft ha introdotto protocolli di utilizzo del software videoludico da parte degli utenti (Game Content Usage Rules), chiarendo vari aspetti legati alla monetizzazione associate a un LP. Ma le frizioni tra legittimi detentori e utenti persistono: capita talvolta che interi canali di LP siano oscurati temporaneamente o definitivamente per violazione del copyright (a livello video e/o audio), specie quando i siti di streaming aggiornano o implementano sistemi di verifica algoritmica. È successo nel dicembre 2013 su YouTube e nel 2014 su Twitch.

Un fenomeno correlato è la censura, particolarmente diffusa nel caso di video critici o negativi nei confronti del videogioco descritto. Gli esempi non mancano. Quando il “non-giornalista” Jim Sterling ha definito lo sparatutto in soggettiva The Slaughtering Grounds (Digital Homicide) come “il peggior videogioco del 2014”, lo sviluppatore ha invocato il Digital Millennium Copyright Act (1998) per ottenere la rimozione immediata del video. Sterling ha combattuto la richiesta appellandosi al primo emendamento della costituzione americana che difende la libertà di espressione. Il publisher ha risposto accusando il vlogger di diffamazione e con lui, un centinaio di utenti che “aizzati” dal critico hanno scritto recensioni negative su Steam, esigendo 15 milioni di dollari in compensazione. Anche se la causa è stata abbandonata, l’episodio attesta che lo streaming videoludico complica enormemente la distinzione tra “artefatti derivati” e “opere modificate”(4)In inglese, transformative works.. Solo queste sono protette dal fair use, che, in certe condizioni, può giustificare l’appropriazione di una porzione dell’opera da parte di un soggetto diverso del legittimo autore per finalità critiche, di commento o parodia.

La frizione tra casters e publishers è andata intensificandosi. Il fenomeno è particolarmente evidente nel caso di PewDiePie, i cui frequenti commenti razzisti hanno scatenato le ire della rete. Se ricevesse altre due richieste di rimozione da altri publisher, YouTube cancellerebbe in toto il suo canale.

La battaglia sulle star del Let’s Play

Nell’ultimo lustro, l’LP ha ottenuto un successo planetario grazie all’affermazione di una nuova generazione di streamers e casters seguiti da un pubblico essenzialmente giovanile. Laddove i playthrough delle origini erano relativamente rudimentali e, per certi versi, sperimentali, quelli moderni sono più curati sul piano formale. Non solo l’autore ha maggiore dimestichezza con il gioco che presenta, ma spesso fa sfoggio di virtuosismi tecnici, senza tuttavia mai abbandonare un atteggiamento scanzonato, autoironico e irriverente. Registrato e quindi condiviso online, l’LP non descrive tanto il gioco, quanto le reazioni del giocatore: l’obiettivo è comunicare la personalità del player attraverso l’esperienza ludica, anziché le caratteristiche oggettive del titolo in questione. Alcuni streamer sono diventati vere celebrità tra i millennials, con milioni di follower sparsi per il mondo. È il caso di Felix Arvid Ulf Kjellberg (1989-) in arte PewDiePie (pweds), che vanta oltre 40 milioni di abbonati e oltre 10 miliardi di visioni nel 2016. Kjellberg condivide una parte dei guadagni con YouTube (45%), nonché con Maker Studio, il multichannel network fondato a Los Angeles nel 2009 e che nel 2015 è stato acquistato da Disney per circa 500 milioni di dollari. Considerato da Forbes la più importante celebrità di YouTube nel 2015 e 2016, il vlogger svedese ha guadagnato circa 15 milioni lordi di dollari nel 2016. Molti altri Lpers hanno trasformato la loro passione in una professione a tempo pieno, tra cui il canadese Evan Fong (1992-, VanossGaming), gli spagnoli Rubén Doblas Gundersen (1990-, ElrubiusOMG) e Samuel de Luque (1989-, Vegetta777), l’americano Adam Dahlberg (1994-, SkyDoesMinecraft). Tra gli italiani spiccano Lorenzo Ostuni (Favij, 1995-) e Marzia Bisognin (CutiePieMarzia, 1992-). Si noti che il game streaming è un’attività meta-ludica di natura essenzialmente quantificata e quantificabile, che vede i soggetti impegnati a collezionare il numero più alto possibile di abbonati e views per incrementare il proprio capitale sociale e, soprattutto, economico. Questa logica è insieme documentata ed esacerbata da siti come Tubefilter, che pubblicano classifiche aggiornate dei caster più popolari, nonché notizie relative ai loro guadagni mensili/annuali.

Negli ultimi mesi, tuttavia, la frizione tra casters e publishers è andata intensificandosi. Il fenomeno è particolarmente evidente nel caso di PewDiePie, i cui frequenti commenti razzisti, culminati con l’uso del termine dispregiativo nigger per indicare un avversario nel settembre 2017 in una partita a Playerunknown’s Battlegrounds, hanno scatenato le ire della rete. Kjellberg si è successivamente scusato, seguendo un copione noto. Per tutta risposta, Sean Vanaman, co-fondatore di Campo Santo, lo studio indipendente che ha prodotto il videogioco Fire Watch, ha risposto all’ennesima provocazione invocando l’applicazione del Digital Millennium Copyright Act (DMCA, 1998) per ottenere la rimozione da YouTube del Let’s Play del caster svedese per violazione del copyright. L’iniziativa potrebbe avere ripercussioni enormi, perché se PewDiePie ricevesse altre due richieste simili da altri publisher, YouTube cancellerebbe in toto e in modo definitivo il suo canale. Le conseguenze per l’intero panorama degli LP e, più in generale, per i game video, sarebbero significative. Si noti che nel febbraio 2017 PewDiePie era già stato al centro di durissime polemiche per i suoi commenti razzisti e antisemiti documentati dal Wall Street Journal, che avevano spinto Maker Studios (quindi Disney) a cancellare il contratto per una serie premium su YouTube (Scare PewDiePie). Il giornalista aveva individuato numerosi clip (nove in tutto) in cui un Kjellberg in uniforme contempla un discorso di Hitler, si produce in un saluto nazista e paga due uomini per mostrare un cartello con la scritta “Morte a tutti gli ebrei”, ridendoci sopra. Dopo la pubblicazione dell’articolo, Kjellberg si è parzialmente scusato, ma al tempo stesso ha attribuito ogni responsabilità ai media, dichiarando di essere perseguitato e dunque imitando il modus operandi del quarantacinquesimo presidente americano.

In conclusione, l’LP esemplifica la natura complessa del medium videoludico nel ventunesimo secolo, in quanto accorpa attività tradizionalmente distinte: esecuzione, performance, spettacolarizzazione, documentazione, trasmissione e consumo dell’esperienza di gioco. Riconducibile al più ampio spettro dello user generated content, il game video nasce come fenomeno bottom-up – spontaneo, imprevisto e decentrato – ma si formalizza e si professionalizza in tempi rapidi, affermandosi come un genere consolidato all’interno dell’industria culturale contemporanea, in bilico tra videogioco e intrattenimento audiovisivo. Presenta aspetti controversi come l’appropriazione, modifica e ridistribuzione di contenuti sviluppati da terze parti, mettendo in discussione l’efficacia del diritto d’autore nell’epoca digitale. In un celebre libro intitolato Fan Cultures (2002), Matt Hills ha definito “élite fans” quella minoranza di appassionati che svolge un ruolo attivo all’interno dei processi culturali, trasformando il consumo in una nuova forma di produzione. Quindici anni dopo, l’influenza esercitata dalle élite di prosumers è tutt’altro che elitaria, ma la (relativa) democratizzazione dei processi creativi si porta appresso una nuova serie di problematiche. In un’era caratterizzata dal ritorno prepotente del razzismo, dell’anti-semitismo e della misoginia, il ruolo degli LP – e più in generale, dei game video – nel promuovere ideologie tossiche non può essere sottovalutato.


Matteo Bittanti

Artista, curatore e accademico, investiga gli aspetti culturali, sociali ed estetici delle tecnologie emergenti, interessandosi soprattutto del rapporto tra arte e videogame. Insegna media studies e game studies all'Università IULM. Vive tra Milano e San Francisco.

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