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Ferri del mestiere

Output deal: come stanno cambiando i rapporti tra le major e le tv

Pregi e difetti dell’output deal, l’acquisto in blocco dagli studios. Il broadcaster si approvvigiona di ghiotti contenuti o rischia di incatenarsi a un solo fornitore?

Croce e delizia degli scenari di acquisizione di contenuti per i broadcaster, l’output deal sembra ormai appartenere a una categoria andata di politica negoziale. Almeno nelle forme in cui lo conosciamo.

Compro tutto

Ma cominciamo dall’inizio: cos’è? In parole semplici, si tratta dell’accordo con cui un broadcaster si impegna ad acquisire per un certo periodo di tempo (in genere almeno 2 anni, spesso di più) tutto ciò che il fornitore di contenuti produrrà anno per anno. Si tratta di una pratica che riguarda soprattutto i big player: da un lato studios in grado di produrre un’importante mole di contenuti, dall’altra emittenti che possono permettersi questa acquisizione, in termini sia di spesa sia di palinsesto da coprire. Quindi generalmente studios e affini vs. editori/piattaforme con una distribuzione mista, free, pay e non lineare.

I lettori più “maturi” ricorderanno la lezione di Carosello, per cui “a scatola chiusa si compra solo Arrigoni”. Beh, anche in questo caso è così: si scommette che la qualità dei contenuti prodotti in futuro sia pari almeno a quella attuale, su cui normalmente è costruita la valorizzazione.

Comunque la si metta, si tratta di un vero e proprio atto di fede. Prevedere la resa della produzione di uno slate di film o di serie tv è il lavoro a tempo pieno di eserciti di manager, ricercatori e amministrativi (e tutti questi raramente ci prendono…). Una previsione complicata, semplicemente perché si tratta di un lavoro creativo che può subire enormi interferenze dal mercato, dalla cronaca, dal cast, dagli umori spesso capricciosi e mutevoli del pubblico.

Cui prodest?

E allora perché questa pratica continua a essere usata, in particolare su alcuni mercati? Quali sono i suoi vantaggi? E quale il suo futuro? Vediamo il punto di vista del broadcaster. Il primo effetto di un output deal sul mercato è muscolare. Il broadcaster cala il pugno sul tavolo e dice a concorrenti e spettatori: “È tutto mio!”. Se ti piacciono queste cose, per i prossimi tot anni le trovi sulle mie reti e basta. Grande segnale di buona salute, vigore e prospettiva strategica. Sono accordi onerosi, messi in bilancio per parecchi anni, che quindi esprimono fattualmente la presenza aggressiva e pesante sul mercato per un lungo periodo. In sintesi: fieno in cascina e protezione dai concorrenti.

Dal punto di vista dello studio, invece, la reazione è questa: “Yu-huuu!”. Lo studio che vende tutta la sua produzione per i prossimi anni a un unico interlocutore danza di gioia. Già. Immaginate uno studio hollywoodiano che con un’unica negoziazione si assicura gli introiti di un intero mercato per un certo numero di anni. Un risultato che in condizioni normali avrebbe richiesto molti contratti, lungo i diversi anni dell’accordo, con molti interlocutori. Tanti viaggi e tante telefonate. E tanti avvocati e tanti rapporti per fornire i materiali di trasmissione e marketing a tanti diversi clienti. Invece così risolve con un unico interlocutore con un grande assegno tra i denti! Un paradiso. Praticamente vuol dire avere già il budget fatto per gli anni a venire, e potersi dedicare completamente ad altri territori e clienti. E vuol anche dire assicurare in anticipo il finanziamento delle produzioni in arrivo, stabilizzando i business plan e le ansie del management che, ancor prima di ideare i nuovi show, si ritrovano parte dei progetti finanziati. Insomma, dal punto di vista degli studios è molto chiaro del perché questo tipo di accordi sia molto apprezzato. Se torniamo sul fronte dei broadcaster, invece, il bilancio costi/benefici è meno cristallino.

Il broadcaster cala il pugno sul tavolo e dice a concorrenti e spettatori: “È tutto mio!”. Se ti piacciono queste cose, per i prossimi tot anni le trovi sulle mie reti e basta. Grande segnale di buona salute, vigore e prospettiva strategica. In sintesi: fieno in cascina e protezione dai concorrenti.

That’s it!

Il committente, infatti, passata l’euforia muscolare, si ritrova ricco di contenuti ma con una linea editoriale ingessata da scelte e performance di altri (lo studio), per un certo numero di anni. Il budget è impegnato in questo accordo per una parte sostanziale, che può arrivare a limitare fortemente la flessibilità di palinsesto e la capacità di reazione, sempre più essenziali per la battaglia degli ascolti. Dipende ovviamente dalla “stazza” del broadcaster e dalla sua capacità di gestire uno o più output deal.

Quando un output deal finisce per rivelarsi troppo oneroso per un broadcaster, tutta la pressione passa sul collo dei programmatori: la spesa è stata fatta, sono stati ipotizzati degli obiettivi di ascolto. Ora bisogna eseguire il piano con ciò che si ha in dispensa. Ogni differente opportunità di acquisto o di produzione avrà un percorso molto arduo, dato che “la spesa è già stata fatta”, il buy ha sopraffatto il make. E i concorrenti, rimasti fuori dall’accordo, si trovano invece con disponibilità di cassa, dato che quei soldi non li hanno spesi. Quindi paradossalmente più pronti a ghermire opportunità tattiche.

Effetti collaterali

Gli output deal sanciscono spesso delle “sante alleanze” (temporanee, come tutto in questo mondo) tra il broadcaster e il fornitore di contenuti. L’idea è quella di “spalleggiarsi” in un mercato che, dopo queste scelte di campo, si mostrerà ostile a entrambi, rendendo più complicate altre partnership commerciali. In particolare gli studios, grazie a questa consapevolezza, oltre a farsi ben pagare i contenuti dell’output deal, impongono grande pressione affinché assieme ai contenuti nuovi sia acquisita anche una rilevante mole di contenuti vecchi, la cosiddetta library. Library molto spesso pregiata e dunque interessante, ma comunque spinta a forza nell’accordo base. Scatta così anche un altro deal, magari stavolta di tipo volume, e quindi basato su un volume di contenuti da acquistare, negli anni, separato per categoria: per esempio film nuovi, serie nuove, film e serie di categorie AA, A e man mano a seguire, definendo la qualità e il conseguente prezzo. L’ingessamento per il broadcaster continua a pieno ritmo!

Ma il costo dell’output deal potrebbe richiedere ulteriori sacrifici. Giacché lo studio sa che fatto il deal non avrà più relazioni amichevoli con gli “altri” broadcaster, tenderà a risolvere tutte le sue esigenze contestualmente a questo deal, in cui si trova in posizione di forza. Può trattarsi di indurre il broadcaster a partecipare a sue produzioni, a distribuire suoi canali, o altro ancora. In teoria, trattandosi di business diversi, non sarebbe proprio a favore della libera concorrenza legare tutto. Non per niente si tengono riunioni separate, si raggiungono accordi separati, i team che negoziano sono diversi, ma poi, sarà per fatalità, guarda caso le scadenze temporali risulteranno le stesse.

Ora il broadcaster è completamente circondato, vittima spontanea e felice in una gabbia dorata: per qualche anno ha contenuti di serie A, B e C oltre che obblighi di distribuzione e di produzione con lo studio. Una bella esclusiva, ma certamente onerosa. Una relazione che, come visto, dà carattere al palinsesto, al punto che, laddove si volesse a un certo punto cambiare direzione, l’operazione andrebbe fatta gradualmente. Perché il pubblico è abituato a certi contenuti, franchise, volti, il mutamento editoriale non potrà essere troppo traumatico, a pena di perdere la fidelizzazione così caramente pagata.

Va poi citato un effetto positivo per il broadcaster riguardo a questi accordi strategici: offrono stabilità alla programmazione, qualunque cosa accada. In questi anni frenetici, capita spesso che a causa di acquisizioni, fusioni o decisioni manageriali, si decida di sospendere gli investimenti. In questo caso non è possibile, perché gli accordi vanno rispettati fino a scadenza. E i programmatori si troveranno in grado di “spendere” anche quando fosse “vietato spendere”.

Gli output deal sanciscono spesso delle “sante alleanze” (temporanee, come tutto in questo mondo) tra il broadcaster e il fornitore di contenuti. L’idea è quella di “spalleggiarsi” in un mercato che, dopo queste scelte di campo, si mostrerà ostile a entrambi, rendendo più complicate altre partnership commerciali.

L’eccezione conferma il deal

C’è poi un caso particolare da considerare, che si discosta parzialmente da quanto descritto sopra. Cioè quel caso in cui il broadcaster assume una strategia editoriale completamente in linea con la produzione di uno specifico studio (per esempio, Sky Atlantic e HBO). In quel caso, l’approvvigionamento da quella fonte va difeso a ogni costo, perché sarà complicatissimo trovare contenuti con quella cifra stilistica da altre parti. Un output deal è il miglior sistema per contestualmente approvvigionarsi e proteggere la propria specificità editoriale dai concorrenti.

Tutto in un basket

Di contro, lo studio che sigla questo genere di accordo deve scegliere molto bene una controparte seria e solvibile. Avendo puntato tutto su un unico cliente, sarà bene che questi sia in grado di onorare i suoi impegni fino in fondo. Altra preoccupazione dello studio dev’essere quella di accertarsi che del suo contenuto sia fatto buon uso. I contenuti hanno bisogno di visibilità e marketing. Un buon accordo economico che poi non portasse la giusta visibilità e comunicazione ai contenuti si trasformerebbe in un boomerang per lo studio che vedrebbe il “valore” di quei contenuti, character e franchise impoverirsi.

La gioia dei finanziari

Dei grandi appassionati di questi accordi sono i “finanziari”. Perlomeno quelli delle aziende che vendono. Accordi importanti con importi stabili negli anni che blindano i piani economici degli anni a venire sono per loro un’ottima notizia. Costi e ricavi prefissati sono un’attrattiva enorme per questi sacerdoti dei fogli Excel. Però, in nome di stabilità e tranquillità, si finisce per sacrificare la possibilità di massimizzare sartorialmente la compravendita dei diritti dei contenuti. In qualche modo il management si sostituisce ai programmatori e ne libera fortemente la libertà d’azione.

Next?

L’output deal trovava il suo habitat ideale in mercati semplici, con due o tre conglomerati mediali che si confrontavano selvaggiamente in una guerra a somma zero, in finestre di sfruttamento molto rigide. Ora che il mercato si è complicato, con molti più interlocutori e soprattutto diverse maniere di valorizzazione dei diritti, anche gli accordi quadro si complicano.

Anche i deal quindi si complicheranno, con accenti sul volume e sugli impacchettamenti. Lo scopo delle nuove formule rimarrà quello di blindare un certo valore ma anche garantire una maggiore flessibilità editoriale a chi compra; chi vende, invece, avrà l’occasione di massimizzare il valore dei suoi contenuti su più compratori e linee di diritto. Quando poi l’output deal non basta più, il passo successivo è comprarsi direttamente i produttori di contenuti, come stanno facendo i grandi operatori di connettività con le major: Comcast con Nbc Universal, o AT&T con Warner Bros.


Luca Cadura

Fondatore di Kenturio, società di consulenza strategica Media & Marketing. Precedentemente è stato Presidente e Amministratore Delegato di NBCUniversal Italia, dove si è occupato di produzione e distribuzione dei canali televisivi del gruppo.

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