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Marketing

Il Paradosso Della (Troppa) Scelta

Abbiamo bisogno di centinaia di prodotti con minime differenze, in fondo tutti uguali? Serve diventare esperti di birre, mozzarelle e acque minerali? 

Una signora è bloccata davanti allo scaffale refrigerato. Allunga la mano. Non sembra convinta. La allunga di nuovo. Soppesa. Cerca di percepire la consistenza attraverso l’involucro plastico. Fa un passo indietro. Analizza le alternative che le possono essere sfuggite. Avvicina il viso per leggere nel piccolo riquadro dell’etichetta dello scaffale il peso, il prezzo al grammo, lo sconto. Gira il packaging, per cercare l’informazione preziosa ma nascosta, la data di produzione. Tutte le mozzarelle oggi si autodefiniscono “fresche”. Sono tutte più o meno avvolte in packaging color pastello con la immancabile mucca, a volte ingentilito con foglioline di basilico e fettine di pomodori. Sono tutte prodotte in Italia con bandierina tricolore di supporto. Tante si definiscono biologiche, la maggior parte provenienti “direttamente dalla fattoria”, qualunque cosa significhi. Alcune si pavoneggiano con marchi di certificazioni sconosciute ma rassicuranti nel loro burocratese. Poi è arrivata la variante “fior di latte” – la mia famiglia non è stata in grado di dirmi la differenza. Poi è stata introdotta la mozzarella light (“fino al 40% di grassi in meno”), ma in ogni caso “naturalmente ricca” (che poi significa “come tutte le altre”) di fosforo, calcio e fermenti. Manca qualcosa? Ah, sì, da un po’ c’è anche quella “senza lattosio”.

Questa mitosi dei brand ha creato migliaia e migliaia di referenze presenti in un supermercato di medie dimensioni: non c’è abbastanza spazio per tutti, e gestire tutte le varianti è un costo in sé. La signora discernente è una rarità, per questo la osservo incuriosito – nel frattempo scorrono dietro di lei almeno altre cinque persone: la maggior parte dei consumatori dedica più o meno dieci secondi a ogni acquisto, e le informazioni, varianti, caratteristiche, certificazioni consultabili sono decisamente troppe rispetto ai vantaggi di una scelta accurata, anche perché ogni tipologia di prodotto (marmellate, merendine, succhi, shampoo) presenta lo stesso modello caleidoscopico di funzioni e vantaggi. Good enough è la nuova modalità prevalente del fare la spesa, perché è tutto diventato semplicemente troppo complicato per chi frequenta sempre meno il punto vendita – un fenomeno che interessa quasi tutte le fasce della popolazione. Mentre la signora conosce bene lo scaffale perché – ci scommetto – lo visita quasi tutti i giorni, io non ricordo nemmeno se i formaggi siano collocati prima degli yogurt o viceversa, perché frequento sì e no una volta ogni quindici giorni, a volte nemmeno nella stessa catena. È notorio: ogni interfaccia che usiamo raramente ci risulta complicata e insoddisfacente.

Good enough è la nuova modalità prevalente del fare la spesa, perché è tutto diventato semplicemente troppo complicato per chi frequenta sempre meno il punto vendita. È notorio: ogni interfaccia che usiamo raramente ci risulta complicata e insoddisfacente.

Oltre lo scaffale

La conformazione dello scaffale, che si ripete clonata in tutti i supermercati di tutte le insegne, è la conseguenza di anni e anni di comportamento “a gregge” del marketing, dice Youngme Moon nel suo libro Different. Quando un produttore introduce una nuova funzione (“non solo denti bianchi, anche alito fresco!”), presto tutti gli altri aggiungono la stessa caratteristica. “Senza olio di palma!”, e tutti seguono. “Tonificante” è nella maggior parte dei bagnoschiuma maschili. In più, spesso si introduce una nuova versione (qualcosa in più di una funzionalità, almeno apparentemente). La Fanta e le sue sorelle sono esempi di scuola – chissà chi ha pensato quella al cetriolo. Gli yogurt hanno versioni con ogni frutto del globo. Gli Oreo negli Usa hanno talmente tante versioni che nemmeno Wikipedia riesce a catalogarle tutte. Qualche giorno fa cercavo delle semplici penne Bic nere e non le ho trovate. Solo penne con inchiostro fluido, che secca prima, scorrevoli, fini, con l’impugnatura ergonomica.

Lo studio della concorrenza si insegna a marketing base, all’università. È una fissazione che gli instilliamo fin da piccoli. Ogni anno per il progetto d’esame i miei studenti passano metà del loro tempo a creare spontaneamente elaborate matrici SWOT prendendo in considerazione qualsiasi mossa di qualsiasi concorrente. Ci rimangono molto male quando dico “fate finta che i competitor non esistano”. Ho notato che la corrispondenza tra “analisi accurata della concorrenza” e “progetto eseguito senza rischiare troppo per prendere un buon voto” è di solito 1:1. Nella realtà i manager cresciuti si comportano allo stesso modo. “Se lo fanno gli altri tanto sbagliato non sarà”. Se hanno inserito quella funzione a qualcuno interesserà. E così nasce uno scaffale di prodotti tutti sostanzialmente uguali e tutti “leggermente” diversi. Effetto che genera un livello di funzionalità e caratteristiche che mette tutti sullo stesso piano, di nuovo. Youngme Moon la chiama “omogeneità eterogenea”. Più i brand si sforzano di apparire diversi, più risultano simili, e meno la fedeltà è difendibile senza apparire bizzarri. “Vado solo negli hotel XY” è ormai percepito come molto meno smart e normale di “scelgo le offerte Genius su Booking”.

E mentre la mia signora allo scaffale delle mozzarelle potrebbe essere definita da Moon un connoisseur della materia – conosce ogni dettaglio, soppesa ogni sfumatura, soprattutto le dà piacere farlo –, il resto delle persone ignora tutte le piccole “uguali differenze”, nella convinzione che “tanto il risultato finale, in ogni caso, non sarà tanto diverso”. Non vale la pena perderci troppo tempo. Siamo sempre di più a riconoscerci nei gruppi “opportunisti saggi”, o “pragmatici” – altre categorie citate da Moon – cioè coloro che scelgono, ma senza entusiasmo, sulla base di offerte, o addirittura non effettuano una scelta vera e propria, prendono distrattamente e buttano nel carrello. Il ciclo del connoisseur è come quello della moda: dopo l’esplosione dei corsi di sommellier, per essere in grado di riconoscere impercettibili retrogusti fruttati, ora c’è il connoisseur di birre artigianali, a doppio/triplo/quadruplo luppolo, lager, cruda, pale ale, trappista, schwambìer (a questo sito c’è un meraviglioso glossario che potete usare come gioco da tavolo per le serate invernali, a chi ne sa di più). Poi a molti passa. E si torna a prendere la birra in offerta al supermercato, tra quelle due o tre marche, o quella più a portata di mano nello scaffale. Più passa il tempo, più i connoisseur sono visti come “devianti” dalla maggioranza perché sembra strano barattare la cosa più preziosa che abbiamo, il tempo, per verificare e confrontare prodotti tutti diversi ma sostanzialmente uguali. Un connoisseur di carta igienica, in grado di distinguere tra carta in cellulosa, riciclata, con goffratura, due veli, tre veli, strappo lungo, strappo corto, peso al centimetro quadrato, sarebbe considerato quantomeno bizzarro. Eppure – lo so per esperienza diretta – ogni produttore di carta igienica pensa di combattere la concorrenza per davvero con queste – per la stragrande maggioranza delle persone – insignificanti differenze.

I Google e le Ikea crescono una volta ogni milione di nuove varianti di patatine. Chi crea qualcosa di davvero diverso scommette senza altri possibili risultati che un clamoroso successo o (cosa spesso nascosta nei libri di business) spettacolari buchi nell’acqua, mentre nessuno è mai stato licenziato per aver messo una variante in più a un prodotto o aver modificato leggermente il packaging.

Differenziarsi davvero

Nonostante anni di libri su oceani blu e mucche viola differenziarsi davvero dagli altri è questione di pochi, un evento rarissimo, peraltro sempre correlato alla capacità dei brand di osservare davvero le persone, e quasi mai al pedinamento dei concorrenti. I Google e le Ikea crescono una volta ogni milione di nuove varianti di patatine. Chi crea qualcosa di davvero diverso scommette senza altri possibili risultati che un clamoroso successo o (cosa spesso nascosta nei libri di business) spettacolari buchi nell’acqua, mentre nessuno è mai stato licenziato per aver messo una variante in più a un prodotto o aver modificato leggermente il packaging. I manager salvano se stessi, in un mondo in cui il breve periodo è dominante. Preferiscono rischiare di fare un +/-5% in tre mesi, che focalizzare le risorse su di un improbabile prodotto rivoluzionario pronto tra tre anni che può costare il posto (e mettere una terribile macchia nel curriculum, in un mercato come quello italiano che non premia di sicuro chi ha rischiato, ma chi è sopravvissuto).

Il libro di Youngme Moon si ferma prima di darci una visione del futuro. Di sicuro però punta troppo sulla fine prossima del connoisseur. Lo scaffale colorato con tutte le sfumature di pantone online non esisterà più per chi non lo vuole più vedere. Internet, che accoglie sia la coda lunga di Amazon sia le reti social-commerce di nicchia, può fornire contemporaneamente esperienze esaltanti a pragmatici e connoisseur. Nella scia della semplificazione della varietà è il lancio dello store online che vende allo stesso prezzo (3 dollari) e con solamente – per dire – un paio di tipi di detersivi per i piatti. Non a caso si chiama Brandless. La lista della spesa è salvata nelle app dei supermercati (e riproposta automaticamente, per gli opportunisti saggi, o addirittura sottoscritta in abbonamento, per i pragmatici disillusi). Procter and Gamble ha smesso l’anno scorso di fare promozione targetizzata su Facebook. A quanto pare non valeva lo sforzo di creare micro-segmentazioni per prodotti di cui le persone fanno fatica a riconoscere le differenze. Il risultato è paradossale e contrario a quanto si insegna nei manuali di marketing: lo “spray and pray”, spesso sprezzantemente associato all’investimento televisivo, risulta più efficiente, alla fine.

I connoisseur all’opposto hanno gruppi Facebook e forum in cui perdere giornate a disquisire (per esempio) sul colore troppo ambrato di una pale ale. Hanno store online di nicchia in cui comprare un pallet di vino particolare prodotto in soli 25 chilometri quadrati nel cuneese e soffermarsi poi nei commenti su come quest’anno “sia troppo cedevole alla degustazione, con retrogusto non persistente o nullo”. Ma c’è spazio anche per cimentarsi su prodotti poco ispirazionali: su Amazon ci sono anche i recensori di acqua minerale. Ecco alcuni esempi – se ne trovano almeno altri 80 sulla pagina.

Acqua consigliataci a medicina, a lezione di urologia. Ne bevo moltissima per ragioni dietetiche e questa presenta il minor residuo fisso tra le acqua più popolari.

(4 persone l’hanno trovato utile)

L’acqua ***** in linea di massima è ottima. Questa non era eccezionale, non so se fosse dovuto a una conservazione non eccelsa (magari in magazzino).

(5 persone l’hanno trovato utile)

La pax romana tra pragmatici e connoisseur avverrà online, anche perché dentro di noi ci sono sempre, a seconda dei prodotti, entrambi i ruoli, ora che le nostre identità sono digitalmente fluide e variegate. La vita passata a soffrire il paradosso della scelta del crescente numero di pragmatici e disillusi può essere facilitata dall’intelligenza artificiale e dalle tecnologie vocali. “Alexa, mettimi la mozzarella e la birra nella lista della spesa”. Quale birra? Quale mozzarella? Confido sul fatto che Amazon e gli altri siano artificialmente intelligenti per propormi quella più adatta ai miei gusti mediani. Questo in attesa che qualcuno inventi di nuovo un prodotto o un servizio che sia talmente diverso da non avere varianti bio o meno grassi, almeno per un po’.


Gianluca Diegoli

Dalla Bocconi in poi osserva passare i trend dall’evanescente confine tra online e offline. Di giorno si occupa di marketing e digital, di notte ha scritto Svuota il carrello per UTET. È professore a contratto in IULM e in Master. Ogni venerdì alle 9 manda la sua newsletter.

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