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Cultura digitale

Tampinati dall’algoritmo

Le pubblicità che rimandano a videogiochi che non esistono sono solo un primo indizio di una parte del web popolata e generata da bot, dove ciò che umano e ciò che non lo è più si confondono.

Li vedo ovunque. Quando apro TikTok. Quando apro Instagram e mi sorbisco la cascata di reels. Sono tutti uguali e non hanno mai senso. Non i reels. Cioè, anche i reels, ma sto parlando d’altro. Non so se vi è mai capitato di incapparci, in uno di questi contenuti assurdi che, come microplastiche, ormai sono rilevabili a ogni profondità della rete. Sono pubblicità. Promuovono alcuni videogiochi mobile, applicazioni gratuite che contengono giochetti piuttosto strani: in alcuni casi sono di logica, di costruzioni, o di abilità; in altri, hanno inaspettati contenuti pseudo-erotici. Seguono rotte particolari, non colpiscono sempre ma sembrano seguire gli utenti in alcuni periodi, a causa di qualche logica dell’algoritmo. Poi scompaiono, come se si dimenticassero di tampinarci. Alle volte ritornano.

Distanze enormi

Sono pubblicità particolari, dicevamo. Non solo per il loro aspetto, ma per quello che succede quando un utente – il sottoscritto, per esempio –, preso per sfinimento, cede e decide di cliccarci. “Vediamo un po’ questo giochetto, son curioso”, dice la vittima, ingenua, prima di ritrovarsi davanti a una schermata dello store di riferimento (App Store o Play Store, a seconda) che riporta a un altro gioco. Un prodotto del tutto diverso. Pubblicità e merce effettivamente venduta non coincidono. In gergo vengono dette “mobile shitty ads”, pubblicità mobile di merda, una forma di contenuto a cui è dedicato un subreddit e un canale YouTube, impegnati a raccogliere e archiviare gli esemplari più assurdi. 

A stupire è innanzitutto la distanza qualitativa tra la pubblicità e il gioco effettivo, perché spesso il finto videogioco che perseguita gli utenti di TikTok in TikTok ha un suo perché, mentre il gioco linkato un po’ meno. È a questo punto che ci si chiede: “Ma non fanno prima a produrre quel maledettissimo gioco, visto che non è proprio una cosa complicata?”. Un mistero del web noto da tempo che nasconde, come ha scoperto a sue spese un giornalista del Guardian, un’infinità di giochi “di merda” dalle pessime grafiche e dalla forte propensione alle micro-transazioni economiche, necessarie per procedere di livello in livello e sbloccare nuove funzionalità.

Come si può descrivere un simile fenomeno? I vocabolari si sono adeguati ai tempi, adottando nuove espressioni per spiegare le peculiarità dell’era digitale. Volendo usare il lessico adeguato, potremmo definire questo tipo di “ad” una forma di spam – nella misura in cui sono ovunque e non richiesti e rappresentano dopotutto una qualche pubblicità – anche se condividono molte caratteristiche tipiche del clickbait – sono effettivamente “esche” per un contenuto del tutto diverso da quello presentato. 

C’è solo da scavare

Ma siamo ancora alla superficie: scavando, si comincia a percepire un certo deficit di umanità in questi contenuti. I frequenti contenuti bizzarri ed erotici sembrano essere mescolati casualmente ai tropi dei videogame con la sola scusa di attirare qualche persona in più, proponendo un… vediamo… videogioco a tema zombie con una coppia in mutande che si sbaciucchia? Perché no!

A stupire è innanzitutto la distanza qualitativa tra la pubblicità e il gioco effettivo, perché spesso il finto videogioco che perseguita gli utenti di TikTok in TikTok ha un suo perché, mentre il gioco linkato un po’ meno. È a questo punto che ci si chiede: “Ma non fanno prima a produrre quel maledettissimo gioco, visto che non è proprio una cosa complicata?”. Un mistero del web.

Perdendomi in questo mare di annunci e giochi ho ripensato a un post dell’artista James Bridle, che nel 2017 pubblicò su Medium un lungo pezzo intitolato “C’è qualcosa che non va nell’internet” (scritto che avrebbe ispirato l’apocalittico saggio Nuova era oscura), in cui ci si occupava soprattutto dei video per bambini anche neonati che riempivano – e riempiono ancora – YouTube. Accanto ai classici canali pieni di clip colorate e canzoncine che fanno quotidianamente impazzire i neo-genitori e i nonni di tutto il mondo, Bridle aveva scovato anche materiali disturbanti, con scene pseudo-sensuali non di certo adatte ai bambini. Insomma, un mare di schifo al cui confronto la “tv spazzatura” d’antan è The Criterion Collection. A rendere questi contenuti disturbanti non è solo la cinica cecità che spinge qualche creator a proporre immagini simili a dei bambini, ma anche la mancanza di umanità percepita nell’elaborazione e creazione di questi video (o videogiochi). Sembrano finti, generati da un algoritmo che ha qualche rudimentale conoscenza dei gusti degli utenti ma nessun limite etico o di decenza. 

Secondo un’analisi condotta dalla società di cyber sicurezza Imperva, nel 2021 il 42,3% delle attività online sono state generate e prodotte da bot, e il dato è in crescita da tempo. Ciò significa che quasi la metà delle cose che avvengono online ha una matrice non umana: proviene da programmini automatici, linee di codice che svolgono mansioni diverse. Non sono necessariamente nocive o truffaldine, ovviamente, i bot fanno di tutto, anche cose buone. Spesso, però, questi bot si fingono umani, rientrando nella categoria delle macchine che si spacciano per uno di noi e portandoci nel territorio della uncanny valley. L’uncanny valley è quell’insieme di sentimenti di repulsioni, inquietudine e terrore che proviamo di fronte a qualcosa di molto realistico, ma non abbastanza da convincerci del tutto. È il genere di brivido che ci attraversa di fronte a certe maschere o robot umanoidi. Oppure, ancora meglio, quando un volto ci convince per un istante, prima di rivelarsi per quello che è: legno, plastica, pezza. Finti umani. Finte pubblicità.

Umano non-umano

Queste dannate pubblicità potrebbero anche rappresentare una forma particolare di media sintetici, prodotti da un ibrido umano-non umano. O, ancora meglio, da umani che hanno ormai imparato a seguire le logiche aliene delle macchine. È una differenza sottile che è destinata a diventare cruciale nel futuro, con la diffusione delle intelligenze artificiali generative come Dall-E e MidJourney, già capaci di creare immagini sulla base di indicazioni scritte (dette prompt). Meta, Google e Microsoft sono solo alcune delle aziende gigantesche che stanno investendo da tempo nel settore, presentando nelle ultime settimane IA in grado di generare video sulla base di descrizioni scritte. GitHub, uno strumento molto diffuso tra i programmatori, ha presentato “Autopilot”, una sorta di autocomplete in grado di prevedere e auto-completare il codice mentre viene scritto dal coder. È un piano inclinato, quello dei media sintetici, in cui la componente umana è imitata da macchine spesso irriconoscibili dagli umani.

A rendere questi contenuti disturbanti non è solo la cinica cecità che spinge qualche creator a proporre immagini simili a dei bambini, ma anche la mancanza di umanità percepita nell’elaborazione e creazione di questi video (o videogiochi). Sembrano finti, generati da un algoritmo che ha qualche rudimentale conoscenza dei gusti degli utenti ma nessun limite etico o di decenza.

IA simili hanno fatto buon uso del GPT-3, un modello realizzato dall’azienda OpenAI in grado di generare testo piuttosto credibile, imitando lo stile di altri autori. Il sito The Verge ha raccontato come alcuni autori stiano già sfruttando questi mezzi per generare paragrafi di testo velocemente, al fine di sfornare libri più velocemente (soprattutto nel circuito delle autopubblicazioni di e-book di Kindle Direct Publishing). Un blogger ha scoperto che molti dei libri dedicati al Web3 e agli NFT usciti in fretta e furia negli ultimi mesi risultano illeggibili e poco comprensibili, forse perché compilati utilizzando servizi simili. Viste da qui, le assurde inserzioni pubblicitarie di videogiochi che non esistono sembrano rientrare in un pattern consolidato, per cui noi umani abbiamo ceduto sovranità a servizi di automazione sempre più complessi e influenti, che hanno finito per cambiare anche le prassi dei settori che dovrebbero essere – per ora – del tutto umani. Tutto è finto, o potrebbe esserlo. Quanto alle cose “vere”, alle volte, sono pensate per sembrare finte, in un vortice di contenuti in cui il sottoscritto, umano, o così almeno mi han detto, si sente sempre più estraneo. Ospite. Spero almeno di non disturbare.


Pietro Minto

Nato a Mirano, in provincia di Venezia, nel 1987; vive a Milano. Collabora con Il Foglio, Il Post e altre testate. Dal 2014 cura la newsletter Link Molto Belli.

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