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Media e mobilità

Fare il rider ai tempi del contagio

Dalla viva voce di chi consegna cibo a domicilio durante l’emergenza sanitaria, un viaggio tra strade vuote, androni dei palazzi, rapporti senza contatto e aggregazioni umane ai margini.

“Andate fuori, nel mondo vero, andate a lavorare come buttafuori in un sex-club, come guardiani in un ospedale psichiatrico o in un mattatoio. Camminate a piedi, apprendete le lingue, imparate un mestiere o un’occupazione, che non ha nulla a che fare con il cinema. Il cinema deve avere alla base un’esperienza di vita”. 

Werner Herzog

Sono un artista, lavoro con la scultura, utilizzo diversi materiali, tradizionali e sintetici. Disegno, sperimentando tecniche diverse. Nel mio lavoro sono interessato ai processi di trasformazione della materia, delle forme e delle immagini. Da cinque mesi ho iniziato a fare il rider a Milano per una delle aziende principali, quella del canguro. Il canguro che porto sullo zaino è catarifrangente ed è stilizzato, non si capisce subito che animale sia. Lo zaino che porto sulle spalle è un cubo, grande ma leggero.

Ho iniziato a fare questo lavoro per vari motivi: per stare in strada, per fare delle foto agli interni delle case, per guadagnare qualcosa ogni mese. Pensavo che queste fossero le uniche motivazioni che mi stavano muovendo verso questa attività, poi lavorando ne ho scoperta un’altra che lentamente è diventata la principale: girare in bici a consegnare il cibo mi permette di guardare le cose senza essere visto. La gente non si accorge di me, sono una presenza che non è messa a fuoco. Mi è capitato, per esempio, di consegnare a persone che conoscevo senza che loro mi riconoscessero. Una sera ho fatto una consegna a un mio studente messicano, eravamo a una distanza di pochi centimetri e lui non mi ha riconosciuto, forse perché ero fuori dal mio ruolo o forse perché le cose che conosciamo, spostate in un altro contesto, diventano irriconoscibili. Questo stato di anonimato mi dà la possibilità di osservare e di sentirmi altro rispetto a quello che faccio durante il giorno (lavoro principalmente la sera), di vivere un’ambiente e delle persone che diversamente non avrei modo di frequentare. 

Mi ricordo quasi tutte le case da cui sono passato, ne fotografo con rapidità i dettagli degli interni che mi colpiscono, è un esercizio sulla rapidità, identificare qualcosa d’interessante in pochi secondi e scattare la fotografia con il cellulare. Nelle immagini non compaiono mai persone, solo luci, fregi o pavimenti, quello che è stato creato dall’uomo per far vivere l’uomo. Mi sembra che gli interni dei palazzi abbiano la capacità di poter raccontare non solo delle persone che ci abitano, ma anche di quelle ci hanno vissuto in passato.

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Foto di Lupo Borgonovo

Ordinario e straordinario

40.73, 24.14, 29.45, sono i chilometri che ho percorso in bicicletta in alcune sere mentre era in atto il contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19. Posso lavorare, a mio rischio, dal momento in cui i ristoranti possono fare servizio di delivery; quelli che non si appoggiavano alle piattaforme di consegne si sono attrezzati per farlo e mi capita di fare dei ritiri in posti dove non ero mai stato. In questo periodo straordinario l’aria è pulita, ma fuori ci sono unicamente ambulanze, vigili del fuoco e pattuglie delle forze dell’ordine, le loro sirene e le loro luci si percepiscono di più nelle strade deserte e danno un suono e un colore alla situazione di allarme di queste serate di isolamento. La città è vuota, si viaggia veloci in bicicletta, i semafori continuano a funzionare ma non c’è traffico da dirigere. Le pubblicità, invece, si sono fermate e sono le stesse da tempo, non vengono aggiornate al loro ritmo normale, non c’è nessuno che potrebbe guardarle.

Una sera, tornando a casa, mi sono fermato in piazza Durante per bere e mi sembrava di riuscire a sentire l’odore degli alberi, non so se fosse solo suggestione. In questi momenti categorie come ordinario e straordinario finiscono l’una nell’altra e ci si sorprende per cose che in altre situazioni non avremmo notato. Ho riletto recentemente degli appunti che avevo scritto in estate, appena iniziato a fare questo lavoro, l’atmosfera sospesa di agosto ricorda queste sere di fine inverno: “D’estate escono fuori, scendono nelle strade. In inverno si confondono o semplicemente non escono, restano a casa. In via Pacini un anziano porta sulle spalle strane bombole collegate a tubi colorati che scompaiono nelle tasche del suo gilet, il suo cappello con la visiera è cosparso di lucine a intermittenza, cammina curvo, le bombole devono avere un certo peso”. Ho visto e sentito almeno diverse persone urlare da sole, camminare lungo i marciapiedi strillando a folate, nessuna in italiano, persone ai margini che riempiono questo vuoto con le loro voci. Ho visto un homeless in corso Buenos Aires camminare solo e scalzo in mezzo a negozi chiusi e, la sera seguente, mangiare dei biscotti seduto su un marciapiede in via Doria.

Quando passo da via Ponte Nuovo incontro sempre un uomo, una specie di vichingo, avrà una sessantina d’anni, capelli lunghissimi e grigi e così la barba. Lo vedo alla fermata dell’autobus di fronte al distributore di benzina, sembra che aspetti il mezzo pubblico ma, quando arriva, non ci sale mai. Ogni volta che gli passo a fianco in bici lo saluto apertamente, lui si guarda intorno e forse pensa che mi sia confuso e che voglia salutare un’altra persona e poi, senza ricambiare, torna ad aspettare. Potrebbe essere un fantasma. Ho sentito un pizzaiolo esclamare “è arrivato Star Wars!”. Star Wars fa le consegne con un monopattino elettrico, è l’unico a farlo, ha una maglietta molto aderente che sottolinea la muscolatura concentrata in una piccola statura, il cellulare è in una guaina fissata al braccio con un elastico di spugna. Sembra un personaggio di un film post-apocalittico.

L’app che uso mi permette di vedere il nome dei clienti e una sera dovevo consegnare la cena a una ragazza che si era registrata con un nome simile a quello di un personaggio dei fumetti, tipo Eva Kent. Non riuscivo a trovare il suo numero civico e le ho telefonato, aveva una voce maschile, da ragazzo, non riusciva a spiegarsi bene e faticavo a capirla; alla fine sono riuscito a trovare la palazzina in cui abitava, era in una zona periferica, via dei Missaglia. L’ho aspettata al portone, ed è sceso dalle scale un ragazzo che sembrava una ragazza, il nome che mi aveva colpito era un’invenzione, un’altra identità. Ho conosciuto un ragazzo africano con la bicicletta tempestata di luci, luci ovunque, poche funzionanti e quando si scaricano le lascia lì, aggrappate come trofei, sembrano incrostazioni su uno scoglio. È lui che ora usa i guanti in plastica del supermercato per entrare in contatto con gli italiani. I transessuali di via Padova continuano a cercare di prostituirsi, stanno appoggiati ai portoni delle case, ogni volta che passo in bicicletta mi fischiano dalla loro postazione. Le prostitute di via Vallazze non si vedono da settimane.

Ma cosa mangiano i piccioni in questi giorni? La dieta del colombo urbano è prevalentemente vegetariana e si basa sul consumo di granaglie. Il loro fabbisogno giornaliero, nelle città, è principalmente soddisfatto dagli esseri umani, sia in via diretta che indiretta. L’eccesso e l’abbondanza di cibo porta i piccioni a impigrirsi. I piccioni non sono pronti all’assenza degli esseri umani.

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Foto di Lupo Borgonovo

Senza contatto

Gli ordini di cibo arrivano continuamente e non si fermano. Anche se sono concentrati in meno ristoranti, il cellulare vibra. Le ore in bicicletta passano veloci, mi muovo ripetutamente da un ristorante a un’abitazione, consegno una quantità notevole di pizze, dalla periferia al centro; non c’è distinzione tra le zone o differenza di estrazione sociale fra i clienti, tutti la vogliono, in queste sere più che mai. Fa eccezione una consegna che ho fatto un lunedì mattina, ho portato in via Filzi un sacchetto enorme di pasticcini che a malapena entrava nello zaino, pesava come un sacco di pietre.

Da qualche settimana, quando accedo all’app, appare una nuova schermata con un messaggio che mi ricorda di rispettare le distanze di sicurezza e di evitare il contatto diretto con le persone. A corollario di questo messaggio appare una video simulazione in cui due attori, uno nelle vesti del rider, l’altro del cliente, recitano la consegna senza contatto. Il tutto ha il sapore di uno di quei video con le istruzioni diffusi sugli aerei prima del decollo. 

Fuori dai ristoranti aspetto che mi vengano dati i cibi da portare ai clienti e ad attendere ci sono molti più rider del solito. Gli ordini sono concentrati, dato che pochi ristoranti rimangono aperti. Non ho molte occasioni di parlare con gli altri, ci salutiamo, un cenno d’intesa è sufficiente. Si creano spontaneamente diversi gruppi divisi per etnia e mi rendo conto che se chiudessi gli occhi potrei sentirmi in un qualsiasi altro luogo, in Afghanistan, in Africa o in Sudamerica. Molti giovani pakistani hanno come immagine dello sfondo dei loro cellulari le foto assieme ai propri figli. Si parlano altre lingue, lingue che non conosco e che per me sono solo dei suoni. Ci sono pochissimi italiani che fanno questo lavoro a Milano e non mi capita di incontrarli spesso. I miei colleghi non mi parlano del virus anche se molti sono dotati di mascherine e guanti in lattice: la preoccupazione è che stiano diminuendo le ore di lavoro, solitamente chi lavora di più copre trentacinque o quaranta ore a settimana. “Settimana prossima ne ho venti e di solito ne ho trentacinque”, questa è la prima cosa che mi ha detto un ragazzo pakistano che incontro spesso. “Ciao fra” o “Ciao amico”, così mi salutano i colleghi. Spesso cercano di capire chi io sia, da dove venga, vedo che mi osservano. L’altra sera un ragazzo si è avvicinato e mi ha detto “Urdu?!”. Gli ho detto che sono italiano e lui si è scusato. Molti mi scambiano per afgano o pakistano e mi parlano nella loro lingua. Con Urdu, la lingua ufficiale del Pakistan, quel ragazzo voleva sapere se fossi pakistano. Molti rider non finiscono il loro viaggio al termine dell’orario di lavoro, ma raggiungono le loro famiglie o i loro amici in altre località, come Novara e Saronno.

Il modo di fare le consegne è cambiato, ora si chiamano “consegne senza contatto”. Mantengo la distanza necessaria dal cliente o gli lascio il pacco contenente il cibo sul pianerottolo, ma non ho mai ricevuto tante mance come in questo periodo, alcune caricate sull’app, altre lasciate fuori dalla porta degli appartamenti e altre ancora consegnate a mano (allungando le braccia e allontanando i corpi all’indietro). L’altra sera avevo la tasca piena di monete, il giorno dopo le ho dovute cambiare da un tabaccaio. È come se vivessi nelle foto che ho scattato in questi ultimi mesi, immagini senza esseri umani, solo architetture. Non sono stato visto ma ho visto molte cose, è una specie di sogno, risvegliato da un uomo enorme che vive in strada e mangia un panino, che mi dice “no problema, no problema”.

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Foto di Lupo Borgonovo

Lupo Borgonovo

È nato a Milano nel 1985, dove vive e lavora. Artista visivo, il suo lavoro è stato esposto in diverse mostre personali e collettive in gallerie e musei nazionali e internazionali. I suo lavori sono raccolti sul sito www.lupoborgonovo.com.

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