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Cultura digitale

Perché il brand journalism spesso non funziona

Sempre più spesso le grandi aziende si sono ripensate come editori, dedicando progetti ispirati a forme di giornalismo e narrazione. Ma i fallimenti sono molti più dei successi: come mai?

Un lupo che, minaccioso, sta per mangiarsi un agnellino. Era il 2014, e così la Columbia Journalism Review rappresentava il rapporto tra content marketing (ovviamente nel ruolo del lupo) e giornalismo. Il lungo reportage era uno dei primi che indagava sulla tendenza, sempre più in crescita, delle grandi aziende a organizzare i propri uffici comunicazione “come vere e proprie redazioni”, dando vita a progetti editoriali, proprio come poteva fare un giornale, per affidare loro la comunicazione corporate fino ad allora gestita da comunicati e note stampa in perfetto aziendalese o dai claim dei classici format pubblicitari. Quell’inchiesta ci avvertiva, è vero, del rischio che i professionisti del content marketing potessero guardare al giornalismo più come a un “trucco” che non alla sua “vera missione”, “raccontare sempre e comunque la verità”, ma non mancava di mettere in evidenza la capacità di alcune grandi aziende di lanciare una sfida e ripensare completamente il loro modo di comunicare.

A distanza di poco più di un lustro da quel reportage, la dura realtà oggi è che al grido, legittimo, di “every company is a media company”, ogni azienda sta affollando di “storie” un mercato dove il lettore ha però sempre meno tempo a disposizione e conseguentemente attenzione da spendere. Così un’indagine ha rilevato che, solo tra il 2011 e 2016, il numero medio di post pubblicati ogni mese dai brand sui loro siti o blog aziendali era aumentato dell’800%, mentre il numero medio di interazioni medie per post, al contrario, drammaticamente diminuito dell’89%. Il lupo, insomma, oltre che a divorarsi il giornalismo rischia seriamente di mangiare se stesso.

Evoluzioni e fallimenti

Va anche detto che se il nuovo mercato dei contenuti continua, senza soste, la sua evoluzione – a fine del 2019, ha previsto l’agenzia PQ Media, la spesa globale in content marketing sarà superiore ai 300 miliardi di dollari, tre volte e mezzo quella del 2009 – l’incursione dei grandi brand nel campo giornalistico, nell’uso dei formati come del suo modo di organizzare e produrre i contenuti, assieme a qualche successo conta molti esperimenti falliti e finiti nel nulla, nonostante le grandi aspettative che in molti vi avevano riposto. Per esempio non esiste più il progetto editoriale, petcentric.comdal quale prendeva le mosse quello “storico” reportage della Columbia Journalism Review: chiuso sia il sito dedicato, integrato in parte in quello principale dell’azienda, sia tutti i profili social collegati, attraverso i quali lo staff dedicava molte energie per interagire con i lettori.

A distanza di poco più di un lustro da quel reportage, la dura realtà oggi è che al grido, legittimo, di “every company is a media company”, ogni azienda sta affollando di “storie” un mercato dove il lettore ha però sempre meno tempo a disposizione e conseguentemente attenzione da spendere.

Di giornalismo prodotto direttamente dalle aziende si parla ormai da tempo come la next big thing della comunicazione, ma il brand journalism (se nel gioco tassonomico delle mille definizioni vogliamo utilizzare questa etichetta) a distanza di qualche tempo resta ancora un “genere” in cerca di identità, perennemente in cerca di un difficile equilibrio: se troppo giornalistico finisce per essere troppo poco “brand” (e quindi poco utile a chi lo finanzia), se invece le sue storie sono troppo brandizzate diventa poco o per niente giornalistico (con il rischio di essere poco credibile per chi lo legge).

Rileggendo un mio articolo di un po’ di tempo fa sul “fenomeno” brand journalism, che raccontava come le grandi aziende tecnologiche lo utilizzassero, devo notare che dei quattro casi che citavo solo uno – quello di General Electric, GE Report – ancora vive e prospera in buona salute, mentre gli altri sono finiti nel nulla: il collegamento a Real Business di Xerox reindirizza semplicemente alla home del sito dell’azienda, di Free Press di Intel chiuso nell’ottobre 2015 resta traccia solo nell’archivio della sezione newsroom del sito corporate, e di Tech Page One di Dell nemmeno quella ma solo un triste “sorry the page does not exist”. Eh sì, molto spesso qualcosa è andato storto. Caso emblematico è quello di un’azienda come Casper, molto ammirata per le sue innovative strategie di content marketing che hanno contribuito a darle un’immagine disruptive in un settore particolare come quello della produzione e vendita di materassi direct-to-consumer (“la startup che vuole diventare la Nike del sonno”, l’ha definita il New York Times). Il suo Van Vinkle’s, lanciato nel 2015, aveva suscitato molta attenzione, perché per molti versi era un banco di prova perfetto per lanciare un nuovo modello di brand journalism: un progetto editoriale indipendente (quindi esterno al sito corporate e con il brand tenuto, discretamente, in disparte), un tema non banale da sviluppare come “esplorare tutti gli aspetti del sonno, dalla scienza alla cultura pop”, con l’obiettivo iniziale di pubblicare quotidianamente una decina di articoli oltre a una serie di approfondimenti longform settimanali, il tutto affidato a uno staff di redattori molto esperti.

Van Vinkle’s però è stato chiuso nel 2017. Dopo un tentativo di correzione di rotta è stato trasformato in un sito e rivista (cartacea) trimestrale, Wolly, molto più integrata alla comunicazione corporate e alla vendita dei prodotti. Solo che anche questo nuovo progetto è di fatto fermo dall’ottobre 2018. “La chiusura di Van Winkle’s da parte di Casper mostra i limiti del brand journalism”, ha sentenziato senza mezzi termini la rivista Digiday. “I media sono un gioco a lungo termine che non consegna successi a stretto giro di posta. I responsabili marketing delle aziende sono di fronte, implacabilmente, a tassi di conversione immediati. I media sono tutto tranne quello”. Oggi l’azienda si muove su altri territori, e sul sito troviamo schede prodotto, contenuti presi dalla rete, native advertising per testate tradizionali.

Cambiare parole

Anche per questo c’è chi addirittura ha proposto di non usare il termine “brand journalism” per togliere ogni dubbio sul fatto che “brand” e “journalism” possano convivere senza indurre a incomprensioni o fraintendimenti. “Il motivo è semplice: se il tuo scopo è aumentare il ROI per un’azienda ottenendo più clienti, non sei nel gioco del giornalismo. E definire il giornalismo come brand content è dannoso perché può sembrare ingannevole per i lettori”. Quella raccontata da Van Winkle’s non è affatto un’esperienza isolata. Per esempio, se guardiamo in Italia, troviamo molti punti di contatto con CheFuturo!,  progetto editoriale che del finanziatore riecheggiava solo il nome (CheBanca!), alcuni tratti grafici del sito corporate e poco altro. Il sito ha trattato temi legati all’innovazione strategici per un’azienda che doveva costruire intorno a sé un’immagine da banca di nuova generazione, ma nonostante le molti lodi è stato chiuso nel 2017 dopo cinque anni di vita. E in questa lista vale citare anche The Towner, altro ottimo progetto al quale però Moleskine non ha concesso che un anno di vita.

Ma allora a cosa serve il brand journalism? Quale dovrebbe essere il suo reale obiettivo, quale la metrica per calcolare il suo “tasso di conversione”? Seth Godin, in una vecchia intervista nella quale affermava che le aziende “hanno bisogno di redattori più che di brand manager”, ci ricordava che “in un mondo a costo marginale zero, la fiducia è l’unica cosa urgente da costruire per un business. Non generi fiducia se ti metti costantemente a misurare e a ottimizzare per fare in modo che qualcuno compri qualcosa da te. Non ho alcun problema con le misurazioni, di per sé, sto solo dicendo che la maggior parte delle volte quando i brand iniziano a misurare le cose, poi cercano di industrializzarle, inserirle in un pezzo di software e per realizzarle assumono il personale meno costoso possibile”.

Già, ma per costruire fiducia serve proprio quel tempo che ai progetti di brand journalism non sembra essere concesso più di tanto prima di essere chiusi bruscamente o drasticamente ridimensionati. Il brand journalism spesso così è alla ricerca di un altro difficile punto di equilibrio: portare comunque qualche “numero” (interazioni, pageview, cos’altro?) per conquistarsi il tempo necessario per creare un rapporto di fiducia con i lettori e i clienti dell’azienda che lo finanzia. Il tutto in un periodo nel quale, tra l’altro, la fiducia nel giornalismo in generale è ai minimi storici. Certo, c’è chi ce l’ha fatta e può essere portato a esempio che le cose possono funzionare bene anche in questo “genere”: il citatissimo Journey, che però ha alle spalle un brand del peso specifico enorme come Coca-Cola, e che a differenza di quanto promesso al suo esordio, di essere “non solo un contenitore di informazioni corporate”, gioca oggi sul sicuro dedicandosi completamente al mondo Coca-Cola, con il nome del brand ripetuto, al momento in cui scrivo, 60 volte nella sola parte principale della home page. E poi Red Bull, l’unica azienda che si è davvero trasformata in un editore, costruendo, in quella trasformazione, la sua intera strategia di marketing, tanto da sembrare oggi più una media company che produce anche delle bibite che non un’azienda che utilizza direttamente i media per promuovere i suoi prodotti. E non mancano altri ottimi esempi di come un brand può pensarsi anche come media company, come MailChimp Presents che utilizza documentari, serie animate e podcast, o Dropbox con il suo sito Work in Progress dedicato ai temi del lavoro, o The Cleanest Line perfettamente in linea con la brand purpose di Patagonia.

Resta però una riflessione da fare: oggi il brand journalism punta molto sullo storytelling, l’idea che “dietro ogni azienda ci sia un mondo narrativo” è buona e giusta, ma il rischio è che se ne abusi convincendosi che ogni azienda di questo pianeta abbia, continuamente, storie memorabili da raccontare. Non è così. Soprattutto se, come spesso accade, quelle storie ci raccontano quanto quell’azienda è brava, bella e buona. Forse non guasterebbe pensare di utilizzare le professionalità e le conoscenze all’interno delle aziende per risolvere concretamente problemi delle persone, per capire eventi complessi o per sciogliere piccoli problemi quotidiani: una ricetta molto elementare, ma non averla seguita è alla fine alla base di molte “buone pratiche” che poi si sono perse nel nulla.


Lelio Simi

Giornalista, si occupa di innovazione, tecnologia e industria dei media (con inchieste pubblicate su il Manifesto, Pagina 99, Eastwest, Altreconomia tra gli altri). Ha scritto un libro, Mediastorm. Il nuovo ordine mondiale dei media (Hoepli, Milano 2021). Mediastorm è anche il nome della sua newsletter.

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