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Rkomi, cowboy di periferia a misura di meme 

L’esplosione di notorietà post-Sanremo si affianca alle classifiche musicali, cambiando la natura di chi è diventato star.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Rkomi, cowboy di periferia a misura di meme 

“Se sei il primo a crederci è come una droga”. Era il 2016 quando Rkomi cantava queste parole tra i palazzi di Calvairate, mentre diventava uno dei nomi più in vista in quello che è definito all’unanimità l’anno d’oro della trap italiana. Mirko Martorana, che per il nome d’arte ha scelto di affidarsi all’intramontabile fascino del fenomeno linguistico meneghino, il riocontra, all’epoca era un ragazzo con il cappuccio del piumino in testa e l’espressione scura di uno che Non ha mai avuto la sua età

Cinque anni dopo quell’annus mirabilis, Rkomi diventa l’artista con l’album più venduto in Italia. Oltre al successo di Taxi Driver, il 2021 è l’anno in cui ha solcato il palco della settantaduesima edizione di Sanremo, un passo irreversibile che lo ha portato a giocare in un altro campionato. Non per le vendite né per la fama, che già non mancavano: l’Ariston dà, l’Ariston toglie. Rkomi diventa un personaggio, un abito, un trend, una sagoma. La musica sfuma e passa in secondo piano, negli anni Venti del Duemila vale mille volte di più diventare un meme – braccia sui fianchi, pantaloni e guanti di pelle ed espressione delusa – che scrivere un ritornello di successo. 

Nel flashforward che segue il post-Sanremo di Rkomi, dove l’ormai ex trapper ha consacrato questa immagine da cowboy di periferia, un po’ Sin City, un po’ Ryan Atwood di The O.C., c’è il pop totale, tridimensionale. C’è la storia estiva da tabloid con l’ambitissima presentatrice Paola Di Benedetto, c’è il progetto della grande tv. Chiamato alle armi da Fedez, che si è cucito una stagione di X Factor addosso, Rkomi si appresta ad affrontare una nuova sfida, dove non basteranno le flessioni sul palco per dare quel qualcosa in più. Tutti i preparativi per il grande ritorno del re sotto i riflettori del talent suggeriscono che questo sarà il Grande Show di Fedez, e anche Rkomi ne fa parte, prestandosi alle continue gag su Instagram, cortigiano per scelta e vittima per forza, come i tanti altri trastulli passeggeri che il padrone di casa ha avuto prima di lui. 

Gli apocalittici rimpiangono il vecchio Rkomi, gli integrati ne lodano il successo e la capacità di cambiare. Il ragazzo d’oro della trap, quello dalle rime gentili e dalla scrittura serrata, non ha niente a che vedere con questo nuovo personaggio di latex, nel bene e nel male. La domanda giusta da porsi guardando la sua storia però è un’altra. È Mirko a essere cambiato per sempre o è il rap che è ormai tutta un’altra cosa? La risposta non è semplice. Ma una cosa è certa, se sei il primo a crederci è come una droga.


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Chiara Ferragni, presentatrice digitale

Sanremo scatena polemiche. La più nota influencer italiana scatena polemiche. Metterli insieme è un cocktail esplosivo.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Chiara Ferragni, presentatrice digitale

Intervistato in Chiara Ferragni. Unposted, il direttore creativo di Moschino Jeremy Scott dice che lui e Chiara hanno qualcosa in comune: il fatto di essere cresciuti tra le difficoltà e i limiti di una provincia che non li capiva. Ferragni è cresciuta a Cremona, a 80 chilometri da una delle capitali mondiali della moda, Scott in una fattoria in Missouri. Nel docu-film del 2019 ci sono due grandi temi, il successo e l’odio per il successo. Anche dove la difficoltà non esiste, dove il senso di rivalsa non è necessario, la struttura narrativa su cui si poggia il mito di Ferragni affonda le radici in un dualismo imprescindibile: i follower, gli hater.

Quando Amadeus ha annunciato – o sarebbe meglio dire confessato, come un Raskol’nikov schiacciato dal peso morale di questa impresa quinquennale – con ben otto mesi di anticipo che al suo fianco a Sanremo 2023 ci sarebbe stata l’imprenditrice digitale, sapeva perfettamente ciò che avrebbe scatenato. In un impeto novecentesco, il presentatore ha usato la scrivania del Tg1 per preservare quel briciolo di istituzionalità che resta alla kermesse, ormai reinventata dai tempi moderni, tra fenomeni come il Fantasanremo che superano la verticalità autorale, e la rinnovata dimensione temporale di un festival che durante l’anno non si spegne mai. Amadeus sapeva che mancava solo lei, e con lei, ovviamente, il fiume in piena di polemiche che avrebbe portato. 

Chiara Ferragni ha capito diverse cose molto prima di tanti altri. Ha capito che se qualcuno ti critica per i piedi, è più engaging ricordare che sei tu ad avere il coltello dalla parte del manico e anche gli hater tornano utili se li rimetti al loro posto con risposte taglienti – la pagina lerispostedellaferragni, sottotitolo “La Ferragni che asfalta gli haters” conta 230.000 follower. Sin dalla nascita del suo blog, The Blonde Salad, Ferragni usava a suo vantaggio un pregiudizio, un germe di disprezzo che sentiva serpeggiare attorno a sé, l’associazione tra capelli biondi e stupidità, la sua esclusione anacronistica dal mondo elitario dell’alta moda. Ora questa lotta contro i mulini a vento dell’odio gratuito e performativo fa uno storico passo avanti. Il palco dell’Ariston sarà il più grande campo di battaglia che Ferragni ha mai calpestato, il tempio delle critiche, della lente di ingrandimento su ogni minuscolo, impercettibile errore, il banco di prova più temuto da chiunque nel mondo dello spettacolo. E anche stavolta, come in tutto quello che fa, Chiara Ferragni sarà ineccepibile, bellissima, perfetta; e proprio per questo così odiabile


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Sul carro di Elodie

Dalla sala prove di Amici ai duelli social intorno al pride, la crescita della popstar italiana è un romanzo di formazione.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Sul carro di Elodie

Se Charles Dickens fosse nato in Italia nel XXI secolo, avrebbe scritto un romanzo di formazione su un giovane di Grandi speranze che partecipa ad Amici di Maria De Filippi. Attualmente, nessun altro racconto popolare riesce nell’intento di mettere in scena il meccanismo di Bildung più del programma di Canale 5. Tanti piccoli eroi, ciascuno con il suo nucleo narrativo che può diventare grande storia o fermarsi ai cancelli del successo e dell’età adulta. Tanti piccoli eroi, alcune sontuose heroides, come Elodie Di Patrizi, concorrente dell’ormai lontana quindicesima edizione.

Strano a pensarci ora, ma c’era un tempo in cui Elodie era sommersa dalla furia di Emma Marrone nella sala prove di Amici; se ne stava in piedi, silenziosa, con addosso la divisa bianca della sua squadra, i capelli cortissimi e rosa, lo sguardo mortificato ma iracondo. Arriva seconda in quella edizione, poi dritta a Sanremo: la sua formazione sembra completa, ma la trappola della tv dei grandi sogni è sempre dietro l’angolo. Un passo falso, una canzone sbagliata, e da giovane promessa a solito stronzo,meteora precoce della cultura pop, è davvero un attimo. 

C’è un piccolo iato, tra il 2017 al 2019, che lascia Elodie in un limbo. È un tempo breve, ma fondamentale nella carriera di un personaggio che viene da quel mondo. La sua immagine non è del tutto definita, il suo stile musicale neppure. Poi, nell’estate fortunata di Margarita, al fianco di Marracash, qualcosa cambia. Si affranca dalle derivazioni estetiche rock-salentine emmamarronesche e diventa una vera e propria popstar, la nostra Dua Lipa, musa Versace, idolo delle folle e delle discoteche. 

A tre anni esatti dal tormentone estivo che l’ha rilanciata, tra un altro Sanremo da concorrente, uno da super ospite e un prezioso sodalizio con Mahmood, Elodie sfila sui sanpietrini bollenti del Pride di Roma urlando le sue hit al microfono, disinvolta e sincera. Nei giorni successivi alla manifestazione, ottiene una medaglia al valore, diventa l’oggetto di una card sui profili social di Matteo Salvini, che la usa per alimentare il suo hashtag aggressivo passivo, #colpadisalvini. Non è la prima volta che i due battibeccano, e non è la prima volta che Elodie ci mette faccia e voce, senza tirarsi fuori da polemiche spinose che cavalca con una certa spavalderia. È forse questo, il grande balzo in avanti della sua formazione: la realtà. Non solo un profilo Instagram da milioni di follower, non solo tormentoni, ma anche carne e ossa, sul carro, tra i fan: nell’era dell’attivismo performativo, Elodie fa delle sue performance materia d’attivismo.


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Tananai e il successo occasionale

Gli ultimi saranno i primi, si diceva. E il Festival quest’anno l’ha confermato, con la ribalta del perdente.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Tananai e il successo occasionale

Vent’anni fa, nel 2002, all’ultimo posto della classifica di Sanremo c’erano i Timoria con la canzone “Casa mia”. Oggi di questo brano hanno memoria in pochi: riecheggia solo come testimonianza del passaggio della band bresciana sul palco dell’Ariston. Nella storia del Festival, infatti, rimangono le stranezze, i tormentoni, i grandi successi, le cadute, gli imprevisti. Siamo portati a dimenticare fisiologicamente tutto ciò che sta sullo sfondo, le decine e decine di canzoni in concorso che spariscono senza lasciare traccia. Quest’anno, all’ultimo posto della classifica di Sanremo, c’era invece Tananai. 

Poteva trasformarsi in uno dei fili d’erba che compongono il grande prato della kermesse, e invece è diventato fiore, aggiungendosi alla lista dei pochi e fortunati ultimi illustri. Inutile cercare una formula che spieghi il motivo per cui alcuni artisti, alle volte, riescono a ribaltare la classifica: le ragioni sono tante e cambiano via via. Ma una cosa è certa: la rilevanza di un personaggio non piove dal cielo; il trucco, semmai, può essere far credere che questa cosa arrivi dal nulla. Tananai ha capito che oggi per essere un artista pop non basta fare hit, devi metterci lo storytelling, la narrazione parallela al palco, i fuori onda, l’emoji che funga da allegoria per il fandom – nel suo caso, una lontra. Quell’ultimo posto poteva passare inosservato, e invece lui è diventato un personaggio, o forse è più attuale dire un meme

Un frammento di racconto su internet può diventare virale o può sparire nel nulla. Nel caso di Tananai, il video nei camerini del teatro Ariston ha aperto un varco con il pubblico che lui stesso ha sapientemente allargato. Amato subito dalla tv generalista per la sua apparente giovane sfiga – figlioccio di zia Mara, pupillo di Amadeus, ospite gradito di Zoro – e accolto su internet a braccia aperte per la sua perfetta compatibilità con il mezzo, tra tweet ironici, stories simpatiche, un’estetica romantica e un po’ fattona, tutta occhiaie e rose rosse. Insomma, Tananai è un perdente ma non è un loser.

Ora Tananai siede al fianco di Fedez, nelle vesti di ennesimo co-protagonista delle sue avventure estive in cima alle classifiche, nel singolo “La dolce vita”. I due si conoscevano da prima, ma un tempo il cantante dell’ultimo posto stava dietro le quinte, a scrivere per il principe dei tormentoni. La prima prova stagionale post-sanremese è stata dunque superata, e il merito è oggettivamente tutto suo. Social media manager di se stesso, Tananai è la pop star del presente. Il problema, piuttosto, è che nessuno sa quanto sia pericolosamente vicino il futuro.


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Il ritratto di Gianluca Vacchi

Anche “quelli dei balletti” desiderano un’agiografia, in forma di documentario. Ma poi lo stesso si insinua la realtà.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Il ritratto di Gianluca Vacchi

“Ho sdoganato la libertà di fare e mostrare quello che si vuole… La libertà di fare quel cazzo che ci pare”, recita con marcato accento bolognese la voce di Gianluca Vacchi, mentre danza in smoking sull’orlo delle Dolomiti, nell’ultimo fotogramma del documentario Mucho Más. Una frase che, bisogna dargliene atto, sintetizza in modo onesto l’immagine di un personaggio che abbiamo imparato a conoscere negli anni principalmente grazie ai suoi movimenti pelvici a bordo piscina scanditi da ritmi latini. 

Gianluca Vacchi non ha mai avuto bisogno di apparire in tv. Sommando i suoi follower arriviamo a 45 milioni – che siano tutti veri, scire nefas. Non ha avuto bisogno di apparire in tv perché non ha mai avuto bisogno di parlare: internet ci ha portato indietro di cento anni, di nuovo al cinema muto, alla slapstick, ai frammenti della scuola di Brighton; da questo punto di vista, Vacchi è il nostro Buster Keaton. 

Qualcosa però è cambiato nelle ultime settimane. Lo vediamo commosso dalla zia Mara che spiega al pubblico di Raiuno la sua filosofia dell’enjoy; verbo difficile da tradurre in italiano, un mix di godimento e strafottenza. Vacchi si è stufato di essere solo un cinquantenne salterino che si prende la libertà di fare il cazzo che gli pare. Vuole dirci chi è davvero e, come tanti, lo fa in un documentario che ha ben poco di documentaristico. Proprio come gli aristocratici nei secoli passati, anche lui chiede un dipinto che non dev’essere fedele alla realtà, ma raccontare la sua magnificenza ai posteri. Se a Carlo V il ritrattista limava il mento asburgico, Vacchi si rappresenta come un superuomo che dorme in camera iperbarica e fa esplodere gli utili dell’azienda di famiglia. E nessuno dica più che è solo “quello dei balletti”. 

Per quanto piatta possa essere un’opera agiografica come Mucho Màs, l’era della tridimensionalità del racconto ha i suoi lati positivi. Un prodotto che da solo risultava mistificatorio si è arricchito di una serie di imprevedibili dettagli esterni: le denunce dei domestici, le note vocali, la contro-risposta della servitù fedele che rassicura il mondo, il re è una bravissima persona, chi ne parla male è solo invidioso. Lo chiamano Streisand effect, il tentativo di occultare qualcosa che ormai è di dominio pubblico: più si cerca di farlo sparire più diventa grosso. Mucho Más è un grande effetto Streisand che, senza la forza della fluidità narrativa del presente, sarebbe rimasto solo un piattissimo e sbiadito ritratto nobiliare.


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L’anno in cui è sorto il Soleil

Anche per fare la protagonista dei reality show serve del mestiere. Per sfruttare l’onda, ma soprattutto restarci su.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          L’anno in cui è sorto il Soleil

Soleil Sorge è un nome che nell’ultimo anno si è sentito spesso in giro. È anche un nome che, con qualche piccolo aggiustamento sillabico, si trasforma nella frase “Sorge il Sole”. Non è casuale, ovviamente, ma non è neanche un nome d’arte. Soleil Anastasia Sorge, nata nel 1994 a Los Angeles e cresciuta tra la California e l’Abruzzo, è in effetti una piccola ma potente stella che illumina la nostra televisione. 

Esiste una categoria ormai non più così recente di personaggi dello showbiz che potremmo definire dei famous for being famous. È un segmento di popolarità che nasce prima della definizione stessa di influencer, prima che i social facessero da acceleratori di micro-fama. Serve risalire a Paris Hilton, in primis, e all’impero dell’intrattenimento Kardashian, poi: solo il secondo ha avuto vita davvero lunga. In Italia non abbiamo mai avuto un vero corrispettivo, e anche i tentativi di emulazione – come, pochi mesi fa, la serie The Ferragnez – risultano poco convincenti, troppo poco americani. Questo non significa che abbiamo rinunciato al genere, tutt’altro. Solo lo abbiamo nutrito con altri cornici, da Uomini e donne, che produce influencer nuovi di pacca a ogni stagione, fino ai reality come il Grande fratello vip

Soleil, che di programmi così ne ha fatti tanti – quasi tutti, al punto che per alcuni, come L’isola dei famosi, potrebbe apprestarsi al secondo giro in tre edizioni – è una professionista del genere. È un animale da diretta, una macchina da guerra della competizione televisiva, una dispensatrice di dinamiche, come le chiamano i vari fandom che seguono lei e i format in cui compare; nel suo caso, i Sole Army, pronti a farla schizzare in tendenza ogni volta che è sullo schermo della tv. O quando lancia la sua linea di costumi, State of Soleil, che trionfa nei trending topic

Intervistata da Francesca Fagnani, Ilary Blasi risponde in modo onesto all’appunto della giornalista sul cast dell’Isola che sembra un grande déjà vu: dice Ilary, ci sono personaggi che non sono concorrenti, ma professionisti dei reality. Soleil Sorge è una di loro. Non è solo una influencer da un milione di follower con la sua linea di costumi, non è solo una corteggiatrice di Uomini e donne, non è solo la cosa più simile a una sorella Kardashian-Jenner che possiamo avere nei nostri parterre italici. È tutto questo insieme, un frullato di neo-popolarità che la rendono, di fatto, la migliore concorrente da reality possibile.


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L’insostenibile leggerezza di Mahmood

All’Eurovision Song Contest abbiamo di nuovo visto il lato sgangherato del cantante, contraltare a stile e pose.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          L’insostenibile leggerezza di Mahmood

Emma Marrone walked so Mahmood could run. Non è una frase davvero pronunciata da qualcuno ma l’adattamento di un meme che gira da anni su Twitter. Si usa per dire che spesso i grandi successi derivano dal duro sacrificio di chi ha aperto la strada tempo addietro senza essere compreso, una metafora particolarmente calzante con l’exploit dell’Eurovision in Italia negli ultimi cinque anni. Non è successo tutto all’improvviso, ci sono voluti almeno dieci anni e molti allineamenti di pianeti perché si arrivasse a questo punto; ma ciascuno, dai Maneskin a Nina Zilli, ha fatto il suo. 

Di Emma all’Eurovision nel 2014 si ricordano le interviste in inglese, ritenute non all’altezza della sua performance e del suo innegabile talento. In Italia, in effetti, abbiamo una lunga tradizione di sfottò dei nostri connazionali che incespicano tra le parole anglosassoni. Eppure, quando Mahmood si è trovato nella stessa identica situazione della collega qualche anno dopo, non ha generato né indignazione né malumori. Mahmood intervistato all’Eurovision del 2019 – dove per molti, non solo italiani, quel secondo posto fu una vittoria mutilata – che regala al giornalista un pittoresco “Mi cabeza esta ciao!” non è provinciale, non è incompetente. È un campione di gaffe controllate, un perfetto mix di goffaggine e autentica coolness.

Anche durante l’ultima edizione, in coppia con l’animo più dionisiaco del duo, il giovanissimo e mai stanco Blanco, Mahmood continua a rendersi sempre più iconico, sempre più deliziosamente maldestro. Persino quando in conferenza stampa si lascia scappare un ruttino al microfono, convinto di non essere sentito, procede languido sul red carpet della sbadataggine funzionale. Un tratto estetico che cozza con la precisione meticolosa della tv – e delle apparizioni esteticamente impeccabili che lo contraddistinguono – ma che trova invece online una dimensione perfetta di accompagnamento all’istituzionalità più severa dello show. 

Infatti, il vero dietro le quinte che tutti vorrebbero vedere non è tanto nelle varie declinazioni off dell’evento, ma nelle mani di Mahmood. Lui che, in piena notte, attaccato alle spalle del fidato compagno d’avventura, inforca un monopattino e gira per il centro di Torino cantando, con una diretta Instagram sgangherata che vale più di mille interviste. Spontanea, storta, complementare allo spettacolo marmoreo che regala sul palco. Una dualità, quella di Mahmood, che spiega bene anche il rapporto tra i due mezzi, nuovi e vecchi: non può esserci informalità senza formalità da spezzare.


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Vittorio Sgarbi, il primo meme italiano

La raccolta dei momenti tv memorabili è nata ben prima di TikTok. E il critico d’arte ne è il massimo interprete.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Vittorio Sgarbi, il primo meme italiano

La data di scadenza di un meme è brevissima. Il ciclo di vita di un contenuto virale dura così poco che basta fare una breve rassegna mentale dei trend degli ultimi sei mesi: una cosa successa due settimane fa pare già vecchia. Questo principio di caducità spaesante che fa da sfondo al nostro zeitgeist però a volte si spezza. Come quando il video di una rissa avvenuta all’interno di uno storico programma tv tra due uomini piuttosto attempati si piazza primo tra le tendenze di YouTube e non le molla per una settimana, diventando un microscopico pezzo di storia.

Lo scontro tra Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini al Maurizio Costanzo Show è uno di quei casi in cui ciò che sappiamo sul presente e sul futuro dei media si ribalta. Tutto ci suggerisce che il mondo stia andando in una direzione fatta di micro-realtà, piccole bolle in cui ciascuno trova il suo immaginario – non più collettivo, ma parziale – di riferimento. Eppure, nello studio di un programma che va in onda da quarant’anni, un personaggio che da almeno trenta rimane fedele alla sua essenza riesce a rompere lo schema di prevedibilità attuale e a diventare l’ennesimo nuovo tassello di una cultura pop trasversale.

Vittorio Sgarbi è un meme da prima che i meme fossero inventati. È una cornice semantica, una riproduzione infinita dello stesso concetto da usare a piacimento. È il “capra, capra!” che riverbera nelle nostre tv, e poi sullo schermo dei nostri smartphone. Il punto di forza del suo personaggio è sempre stato interrompere il flusso della normalità con un’azione fuori misura, proprio come succede con tutto ciò che oggi definiamo virale. Sgarbi, nei suoi lunghi anni di carriera, ha reso l’imprevedibile norma, senza sapere che questa caratteristica lo avrebbe reso di fatto immune alle mutazioni del mezzo.

Lo schiaffo di Will Smith, la fuga di Bugo dal palco di Sanremo: per impalpabile che sia l’essenza del content nell’era della sua riproducibilità su TikTok, rimane un segnale di fondo a suggerire che per quanto possiamo essere disintermediati e atomizzati, i riti collettivi e generalisti continuano a produrre immagini solide che superano lo scoglio dell’ephemeros – letteralmente: “che dura un solo giorno”. Sgarbi è allora un totem della viralità. Qualsiasi cosa faccia o dica riesce a essere visibile, anche quando il tentativo non è così volontario. È il bello della diretta, ma non quella di Twitch.


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Manuel e Lulù, vita e morte di una ship

Lontano dagli studi tv e sugli smartphone, ogni storia d’amore è messa a dura prova. La tragedia è un attimo.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Manuel e Lulù, vita e morte di una ship

La parte più interessante di un rapporto pubblico che giunge al termine sono i dettagli. Nelle ultime settimane, quotidiani, televisioni e social sono stati invasi dai particolari tra il grottesco e l’esilarante sul divorzio di Johnny Depp e Amber Heard: ogni frammento di racconto costruisce nella nostra testa un puzzle che raramente corrisponde alla realtà, ma questo non ci frena dal comporlo. Lontano da Hollywood, ma non distante dai riflettori, un’altra separazione recente ha raccolto grandi attenzioni. Un fulmine a ciel sereno caduto sulla testa di fandom e ship – termine coniato dalle community su internet per descrivere una relazione reale o potenziale per cui il pubblico parteggia, dividendosi in fazioni –, la fine della storia d’amore tra Manuel Bortuzzo e Lulù Selassiè.

“La coppia nel reality tira” è il mantra che si ripete da anni. Nelle ultime edizioni del Grande fratello vip, il motore della narrazione è stato tenuto in piedi dalle molteplici relazioni amorose nate tra inquilini: Ignazio Moser e Cecilia Rodriguez, Giulia Salemi e Pierpaolo Pretelli, Clizia Incorvaia e Paolo Ciavarro; nella sesta edizione, dove le liaison sono state più numerose del solito, ha preso vita la storia tormentata tra Manuel, atleta dalla biografia tragica, e Lulù, principessa – o meglio princess – di Etiopia. L’aristocratica decaduta che ama CardiB e l’eroe ferito che canta Ultimo. Nei sei mesi del reality i due amatissimi protagonisti sono passati dalle liti furiose alle promesse di matrimonio. Ma il cursus della ship, a differenza di una serie tv o di un racconto di finzione, evolve in una fase successiva, quella post-televisiva, sui social.

Manuel e Lulù proseguono così la loro favola saltando da un medium all’altro. Rimbalzano tra stories e ospitate in tv, si rimpallano la relazione fino ad arrivare al punto di rottura che avviene con un comunicato Ansa: una scatola cinese di contenuti, dove la gerarchia dei media privilegia l’istituzionalità – che sottintende freddezza – di un’agenzia di stampa; anche stavolta i particolari sono fondamentali. Lulù apprende dal comunicato di essere stata lasciata, lo racconta in diretta su Instagram. Manuel è beccato con la sua ex. La famiglia Bortuzzo sembra essere in mezzo a questo conflitto amoroso, speculazioni e dietrologie dei fandom fioccano. Come Montecchi e Capuleti, i due si separano per un’incompatibilità che sembrava il motore del racconto romantico. Come in una tragedia shakespeariana, è nei dettagli che si consuma il dramma. 


Stories di tv

Alessandro Orsini, nemico pubblico numero uno

Ogni personaggio ha il suo ruolo in commedia. E la commedia divenuta farsa si chiama talk show.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Alessandro Orsini, nemico pubblico numero uno

La prima regola della censura, solitamente, è non poter parlare di censura. Eppure, nel secolo dell’iper-comunicazione e dell’infinità di spazi a nostra disposizione, dove tutti riusciamo a dire la nostra su qualsiasi cosa, uno dei ritornelli più in voga è proprio la minaccia alla libera espressione. Elon Musk compra Twitter per difendere il free speech, la tv italiana prolifera di personaggi autoproclamatisi scomodi, esiliati che tuttavia trovano sempre una parrocchia che li accolga. Il più in vista dei dissidenti nostrani, non c’è dubbio, è l’ambitissimo animale da talk show, il professor Alessandro Orsini.

Partiamo da un presupposto, ossia che la litania del non si può più dire niente serve a tutti, sia a chi la pronuncia sia a chi la contesta. Siamo nell’era del content, dove la quantità supera di gran lunga la qualità, e tutto ciò che può strabordare da un medium all’altro è ben accetto. I talk show, già salotti polverosi e seri, oggi sono una forma di intrattenimento ad alto tasso di riciclabilità, e ogni ospite può trasformarsi in trending topic. Ma la tv è narrazione, e in tutti i racconti che si rispettino devono esserci dei ruoli assegnati perché la storia stia in piedi. Orsini, che da quando è in tv ha divorato la scena con dichiarazioni che sembrano pensate per farsi titolo, è il cattivo perfetto. 

Non solo nel contenuto, ma anche nella forma, Alessandro Orsini è il villain di cui avevamo bisogno per il racconto del presente, un anti-eroe double-face che, a seconda da dove lo si guardi, assume il ruolo di voce fuori dal coro o di incarnazione di pregiudizi e timori del cosiddetto pensiero dominante. Voce, aspetto, prossemica: Orsini è la Jessica Rabbit del salotto televisivo; non è cattivo, è che lo disegnano così. Puntuali come orologi svizzeri, i giornalisti, gli opinionisti e i commentatori del giorno dopo lo catapultano nel vortice della polemica social quotidiana. Più non si vuole che parli, più lo si fa parlare. In narratologia è definito attante un elemento del racconto che ha una funzione narrativa precisa – definizione che, ironia della sorte, deriva dai famosi studi di Vladimir Propp sulla fiaba russa. Per capire quale sia il ruolo dell’attante in una storia, invece di chiederci chi è dovremmo domandarci cosa fa. E per trovare una risposta all’onnipresenza di Alessandro Orsini, dunque, più che domandarci chi sia, ha senso interrogarsi su cosa fa in tv, su internet, a teatro, in radio, e ovunque oggi serva il suo ruolo.


Stories di tv

Nella tana di Francesca Fagnani

Puoi essere più o meno belva, quel che è certo è che con queste interviste sarà molto facile diventare meme.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Nella tana di Francesca Fagnani

L’era delle paparazzate e delle fughe di notizie è finita. L’impero degli scoop si è sgretolato, lasciando spazio a quello dell’auto-narrazione, del selfie, dei box domande su Instagram, delle stories che durano ventiquattro ore, quelle che bastano per stufarsi di un gossip. Come dare, dunque, qualcosa di inedito al pubblico, se tutto quello che vogliamo sapere di una celebrità è già davanti ai nostri occhi? Una risposta interessante a questa domanda difficile potrebbe essere Belve, il programma condotto da Francesca Fagnani – con lo zampino di Irene Ghergo – ora in onda nella seconda serata di Raidue, e in precedenza su Nove. 

“Che belva si sente lei?” è la frase con cui Fagnani apre tutte le interviste. Le sue domande non sono accomodanti, il suo atteggiamento neppure. Non ha problemi a far trapelare sguardi di disapprovazione e versi di disappunto. Ed è così che l’intervista si trasforma in un dispensatore di possibili titoli virali, momenti che sono già cult nell’istante in cui avvengono: come l’intervista recente a Donatella Rettore, che tra una risposta e l’altra incalza la presentatrice con frasi scottanti rivolte alla comunità Lgbtq+. Fagnani non si perde d’animo e risponde a tono, procede un po’ stizzita e la storia è già scritta, Twitter è pronto a ritagliare l’istante nefando e a farne ciò che serve. Lo scoop, la frase shock, il meme, l’estratto che entra nelle tendenze di YouTube.

Le belve di Francesca Fagnani sono tutte donne, tranne qualche rara eccezione, ma il messaggio implicito del programma è che la capobranco è lei. Il suo stile sfrontato è già parodia social – su Instagram e TikTok la giovane imitatrice degli influencer, Valentina Barbieri, la omaggia con una caricatura –, mentre conquista implacabile il palco de Le Iene, il microfono di Un giorno da pecora. La tana di Fagnani è scomoda, fredda, le prede sono disorientate dalla sua formalità beffarda: durante tutto il colloquio con Ilary Blasi, la conduttrice de L’isola dei famosi si confonde tra un tu confidenziale, spinto dal tono delle domande, e un lei istituzionale, rigorosamente tenuto in piedi da Fagnani. Se c’è un modo per distinguersi nel mare di informazioni e di contenuti è creare un luogo dove la forma, prima del contenuto, brilli di riconoscibilità. Piccoli gesti rituali che rendono queste interviste qualcosa di più di un semplice Q&A su Instagram. Fagnani stuzzica il can che dorme, crea l’occasione di una reazione. E di queste belve che abbaiano si nutre internet.


Stories di tv

La terza via di Emanuela Fanelli

Come una brava attrice comica fa da ponte tra la televisione generalista e i meme su TikTok.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          La terza via di Emanuela Fanelli

Di Emanuela Fanelli non se ne ha mai abbastanza. Ogni sketch potrebbe essere migliore di quello precedente, ogni personaggio più divertente dell’ultimo. Pur riproponendo praticamente lo stesso schema comico da tre stagioni in Una pezza di Lundini, il programma che l’ha consacrata con il grande pubblico, riesce a essere nuova ogni volta che va in scena. A essere precisi, però, grande pubblico non è la definizione giusta. Anzi, forse è più corretto chiamarlo grande nicchia, il popolo della seconda serata e soprattutto del taglia e cuci sul web, dove siamo tutti allenati a una forma di détournement quotidiano. 

Nel patchwork mediale di cui si nutre il programma cult degli ultimi anni, forte non tanto per i risultati di ascolto ma proprio per la sua natura frammentata, scomponibile, memetica, Emanuela Fanelli è la colonna portante. Senza di lei, Una pezza di Lundini sarebbe potuto rimanere un fenomeno circoscritto a una cerchia di fedelissimi fan, che sono pochi, se paragonati alle unità di misura generaliste, ma molto compatti. Il vero salto quantico lo ha dato la sua presenza che, grazie a un meme che definire virale è un eufemismo, si è allargata a macchia d’olio sul social delle pillole audiovisive per eccellenza, TikTok. I video dei suoi annunci – parodia irresistibile di una signorina buonasera scazzata e bistrattata – sulla piattaforma cinese contano milioni di visualizzazioni. Sul web c’è chi si chiede “Chi è la donna che gesticola nel trend di TikTok?”, da quando trenta secondi scarsi l’hanno trasformata in un simbolo: la mano che ruota a mo’ di auhm auhm, l’occhiolino, l’espressione di complicità e il ghigno goffo di chi si sente furbo. E da là, il fiume irrefrenabile dell’emulazione. 

Emanuela Fanelli è la caricatura della tv a uso e consumo di chi la tv non la guarda più. Con l’inizio dell’ultima stagione della Pezza, dove la sua presenza si fa sempre più centrale, arriva un nuovo carico di contenuti da ritagliare e riqualificare. Così, se fino a qualche mese fa era Simonetta la truccatrice di Anna Magnani, ora è l’agente scelto Marilena Picozzi, entrambe parodie fin troppo plausibili di personaggi appartenenti all’immenso universo narrativo di Rai Fiction. Più che una pezza, quello di Fanelli è un ponte tra la moltitudine spezzettata di internet e i monoliti della tradizione televisiva. La terza via di Emanuela Fanelli, né con la prima serata né con YouTube, eppure magicamente ovunque.


Stories di tv

Dario Fabbri fa sul serio

Identikit di un esperto in controtendenza: austerità e consapevolezza che diventano meme


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Dario Fabbri fa sul serio

“Io se scoppia un olocausto nucleare e mi chiedono dov’è che voglia stare – se in un bunker o in una cantina – rispondo «con Fabbri»”, scrive Selvaggia Lucarelli su Domani a proposito di Dario Fabbri. Cercare il faro durante la tempesta, del resto, è un riflesso incondizionato. Nel caso di Fabbri, l’analista geopolitico più ambito del momento, e di cui fino a pochi mesi fa alcuni forse conoscevano la firma su Limes ma quasi nessuno il volto e la voce, questa investitura a deus ex machina della razionalità e della complessità in un momento di caos capita a puntino.

Abbiamo imparato la lezione negli anni di pandemia: quando un argomento è totalizzante per il discorso pubblico c’è bisogno di esperti. Esperti che, spesso, indossano una maschera che li rende degni di nota: il virologo scettico, il ministro fanfarone. Con la guerra è cambiato il copione, ma non il canovaccio. Fabbri, per chi non aveva alcun interesse per la geopolitica prima del 24 febbraio 2022, arriva in medias res nel flusso del commento sui media fatto di infiniti pezzi, dai thread su Twitter ai parterre dei talk show. Dove ci sono urla e insulti, Fabbri porta solida conoscenza e un punto di vista distaccato, alto, algido: ci spiega il senso delle grandi potenze sul portale Rai Play Sound con i podcast Imperi e Nove minuti, ci racconta la guerra con il suo Scenari (allegato a Domani), ci fa la rassegna stampa estera su Radio Tre Rai, e poi, da Mentana, ogni pomeriggio è là, seduto con i suoi maglioni di cachemire e l’espressione immobile; mai un sorriso, mai un’esitazione, braccia conserte e sguardo fisso.

Dario Fabbri è l’antidoto al sentimentalismo, è l’anti-spettacolo. E di questa austerità lucida, in totale controtendenza con il filone agitato e di pancia dell’infotainment televisivo, il pubblico si è accorto. Nell’ironia con cui Fabbri usa Twitter per ricordare ogni giorno che sarà ospite a Speciale La7 si intravede un abbozzo di vanità, un occhiolino con l’audience più “selezionata”, quella online, cui confessa con una battuta la consapevolezza di essere improvvisamente ovunque, a reti unificate. Su Instagram, il profilo cresce in linea con la sua temperanza: ordinato e schematico, troviamo al suo interno un piccolo archivio dell’iper-presenza improvvisa. Le pagine di meme si appropriano della sua immagine, unico certificato di esistenza rilevante sul web. La differenza con i suoi colleghi però è fondamentale: non sono parodie né sfottò, al massimo esaltazioni delle sue caratteristiche più ammalianti. Anche in forma di meme, dunque, Dario Fabbri mantienel’aura di porto sicuro, di eminenza. Un vanto di pochi.


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