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Le insalate della nuotatrice

Attorno al benessere, tra integratori e zuppe, si consuma l’intreccio tra celebrità sportiva e beni di consumo. Tutta salute.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Le insalate della nuotatrice

Chi ha visto l’ultima stagione di Pechino Express avrà sicuramente notato la sponsorizzazione di Sustenium, un’azienda che produce integratori di diverso tipo. È una sponsorizzazione riuscitissima, perché le caratteristiche del gioco non fanno apparire forzate, ma necessarie, le tante inquadrature sulle borracce dei concorrenti marchiate con l’integratore. La collaborazione di Sustenium con Federica Pellegrini, una dei concorrenti di Pechino Express, prosegue tuttora visto che “la Divina” (quando si scrive di sport i soprannomi paiono essere d’obbligo e le ripetizioni vietatissime) è testimonial con lo slogan: “la scelta di Federica Pellegrini per l’energia”. Oltretutto, stando ai dati de Il Sole 24 ore, l’Italia già “vanta il più grande mercato degli integratori alimentari in Europa, oltre un quarto del suo totale”.

Siamo un Paese che ci tiene alla salute, evidentemente. Ma che Pellegrini rappresenti un testimonial ideale per le aziende che promettono “benessere” lo dicono anche i prodotti OrtoRomi che si sono legati ancora più strettamente alla campionessa. Da settimane la voce di Federica Pellegrini intervalla gli ascolti su Spotify pubblicizzando una gamma di prodotti molto vasta, dalle insalate già lavate ai mix in ciotola, dalle zuppe ai minestroni, ai piatti con legumi e agli estratti di frutta. Alcuni prodotti, come i cuori di iceberg già lavati, hanno Pellegrini in camicia e pantalone di jeans anche sulla confezione, testimonial ideale di un’azienda che – stando al sito – fa di “benessere, trasparenza, fiducia, freschezza, sano e pronto” i propri valori. E poi rilancia: “Il concept vincente dello scorso anno OrtoRomi, la mia scelta di benessere vede oggi un’evoluzione in una chiave che amplia i confini della scelta di benessere e che diviene una dichiarazione di amore genuino verso i propri cari, verso la natura, il pianeta, la terra e i suoi frutti: OrtoRomi, la scelta di benessere per chi amo”. L’orto a cui fa riferimento l’azienda è naturalmente quello che tutti abbiamo in mente, eppure, curiosamente e per caso, comincia così anche ortoressia (dal greco orthos – corretto – e orexis – appetito), un concetto che negli ultimi tempi sta diventando sempre più à la page e che Wikipedia definisce “un disturbo alimentare proposto da alcuni medici e psichiatri, descritto come una forma di attenzione abnorme alle regole alimentari, alla scelta del cibo e alle sue caratteristiche” anche se poi specifica che “l’ortoressia non è attualmente riconosciuta come patologia dal DSM-5, il principale manuale di diagnostica dei disturbi mentali”. 

Di recente se ne è parlato anche grazie al successo su TikTok del trend legato alle almond mum, le mamme (e in fondo ogni genitore) che dedicano eccessiva attenzione alla forma e alla salute dei figli imponendo loro dei regimi alimentari particolarmente severi e restrittivi. Sono questioni molto serie, eppure la sensazione è sempre quella di vivere in un sistema di comunicazione che non sa riconoscere la moderazione, per cui perfino uno stile di vita che è utile sia per l’ambiente sia per la salute viene bollato per via di alcune estremizzazioni.


Supermarket

Pokemon e foglie di tè

Tra le bevande estive, un posto speciale è quello del thè freddo. Ancora più prezioso se procede al grido: collezionali tutti!


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Pokemon e foglie di tè

Tra i settori in cui la competizione pubblicitaria è più agguerrita c’è, per qualche strana ragione, quello del tè freddo. Le aziende si sfidano con spot televisivi, con banner invadenti, sponsorizzando sempre più eventi sportivi e musicali, e continuano persino a comprare le due finestre in alto nella prima pagina dei quotidiani. Come nel Medioevo, quando le guerre erano praticamente impossibili d’inverno, e da “gentiluomini” ci si scannava soprattutto d’estate, così oggi la sfida tra tè si accende quando le temperature si fanno più alte. “Non uscire nelle ore più calde del giorno, bere molta acqua, consumare tanta frutta e verdura fresca”, ripete l’esperto di turno, puntuale come le canzoni di Edoardo Vianello, appena luglio è alle porte. Magari un giorno, speriamo presto, anche le news saranno sponsorizzate e il tè diventerà perfino un consiglio medico. 

Il più estivo dei tè, almeno nominalmente, Estathè, anche quest’anno punta sulla sinergia con i Pokemon, avviata già nel 2020 con i primi bric collezionabili con le illustrazioni dei personaggi. Quest’anno prosegue con la nuova bottiglia di tè deteinato, la cui forma zigrinata alla base vuole richiamare in qualche modo “l’iconico bicchierino” (sic).  La “brick bottle”, così la definisce l’azienda, è di materiale 100% riciclato e riciclabile, vero infuso di foglie di tè (cosa che ci fa dunque sospettare che non tutti gli altri siano fatti così, e dunque cosa ci mettono?) e ha un tappo richiudibile. Naturalmente parliamo di tè deteinato, per rendere ancora più chiaro che si rivolge ai piccoli. Anche se il fenomenale successo di Pokemon Go dovrebbe ricordarci che il rapporto Pokemon-bambini non andrebbe dato così per scontato o, meglio, per esclusivo. Chissà che non sia già significativo già il fatto che sulla Wikipedia riservata ai Pokemon esistano una serie di approfonditissime pagine che ripercorrono tutte le collezioni di Pokemon uscite sui bric di Estathé, maniacali e ricche di dettagli come, d’altra parte, richiede una enciclopedia che voglia dirsi tale. (Mi pare importante segnalare che sulle confezioni c’è anche un Qr-Code che, selezionato, rimanda a una pagina web in cui è possibile scattarsi un selfie con un Pokemon).

Negli anni scorsi alcune raccolte punti della grande distribuzione hanno ottenuto successi impensabili proprio quando hanno incontrato contemporaneamente la passione di adulti e meno adulti, incrociando il desiderio del giocattolo con l’ossessione del collezionista. Decine di psicologi e scrittori hanno provato ad affrontare il collezionismo, facendo risalire il gesto all’atavica necessità umana di raccogliere. In tal senso, l’attività di fare la spesa può essere allora la versione completa e moderna dell’antico gesto di procacciarsi il cibo. Mettere i prodotti nel carrello equivale a cacciare, guadagnare punti a raccogliere.  


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Gli infiniti omaggi al Napoli calcio

Tra artigiani e prodotti industriali, sono decine i prodotti che salgono in corsa sul carro del vincitore. Dello scudetto.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Gli infiniti omaggi al Napoli calcio

All’inizio è stata la torta Osimhen, che in qualche modo ricorda l’attaccante del Napoli: una torta i cui ingredienti più visibili sono il cioccolato per il viso e la granella di nocciole per i capelli (su cui naturalmente si appone l’ormai notissima mascherina nera). Rilanciata entusiasticamente su qualsiasi social, quindi mostrata su tv e giornali fino al consueto epilogo: consegna festosa al centravanti sorridente a favore di telecamera. Ma rapidamente si è perso il controllo. Ed è spuntato qualsiasi cibo a tema Napoli. Ora che tutti possono farsi influencer e imprenditori sono spuntati il panino Osimhen, la pizza Osimhen, le mimose Osimhen, perfino il pancake a forma di pene, e poi ancora “la linguina con tartare di gamberi, crema di piselli su besciamella di mare con un po’ di colorante azzurro”, l’uovo di Pasqua, il cocktail “Farfalla azzurra” con gin della Tasmania ovviamente azzurro, le torte scudetto, varie birre artigianali (tra cui si segnala la bella bottiglia con San Gennaro di Assafà), e ancora, ancora, ancora.

Ma se nel campo dell’artigianalità, pasticcieri, tiktoker, panettieri, mastri birrai – e chi più ne ha più ne metta – si sono dati da fare, altrettanto è capitato nel campo dell’industria alimentare. La pasta Garofalo ha realizzato l’apposito formato Enne: una pasta rotonda come un pallone con al centro la N del Napoli. Lanciata anche con un divertente spot di Pierluigi Pardo che fa la telecronaca di un piatto di pasta allo scarpariello, adesso in vendita su Amazon alla cifra di 7,90 euro al pacco (da 500 grammi). Pure il caffè Borbone ha realizzato un prodotto per l’occasione, Mia Magica Napoli nel cuore, con trenta frasi diverse ispirate a Napoli, dunque collezionabili, attorno alle cialde pronte. In Georgia è apparsa una Coca-Cola con il volto di Kvaratshkelia, campione autoctono, ma il Napoli ne ha fatto interrompere il commercio perché detentore dei diritti di immagine del calciatore. E poi ci sono pure i confetti Crispo del Napoli, il Santero 958 del Napoli, lo spumante Astoria del Napoli, le Amica Chips di Maradona. Si aggiungono tutte le aziende che hanno voluto acquistare spazi pubblicitari per celebrare, omaggiare o festeggiare lo scudetto acquistando cartellonistica e pagine di quotidiani. Kimbo “il caffè preferito dai napoletani”, Juan Jesus, Zielinski e Simeone in mutande per la pubblicità di Yamamay, Gotech+ la valigia dei campioni con Di Lorenzo in abiti civili, trolley e pallone al piede, il latte Berna che diventa B3rna per la “colazione dei campioni”, il pallone con dei ritagli di cravatte di Marinella al posto degli usuali esagoni neri, “Acqua Lete ci ha sempre creduto” (è lo sponsor da anni), Amazon, la catena di supermercati Decò, Msc Crociere, Sannino Group distributore di Italo l’estintore che si limita a un “Grazie ragazzi”, Italia Paghe, Ftg Home azienda di ventilatori, il vino Moio rosso, Euronics (“Sarò con 3”), Mirò il profumo dei tifosi, Ranieri impiantistica, R-store, il Consorzio Mozzarella di bufala, EA7, Kiton, la Fiammante, Banca di Credito Popolare. 

E poi ci fermiamo. Ma per stanchezza, non perché siano finite. Al punto che le pagine pubblicitarie senza un “grazie ragazzi” o un’allusione al 3 o un calciatore del Napoli sui quotidiani o sulle tv locali fanno ormai venire il dubbio: “cos’ha questa azienda contro il Napoli calcio? Sono pure loro tifosi di qualche squadra del Nord?”. Battutine a parte, c’è sia un effetto bandwagon, sia quella infantilizzazione del tifo per cui davanti a due prodotti in tutto e per tutto uguali si sceglie quello marchiato della propria squadra, sia soprattutto un’identificazione tra squadra e città che non ha paragoni nel resto del Paese.


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Le vitamine dei Minions

Per convincere grandi e piccini a prendersi cura del sistema immunitario, nulla è meglio di omini gialli ormai dappertutto.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Le vitamine dei Minions

Tra le cose, tantissime, che non abbiamo visto arrivare ci sono sicuramente anche i Minions, buffi omini gialli dal linguaggio non comprensibile e un corpo simile a una pillola larga con degli arti cortissimi. I Minions nascono come personaggi secondari nella serie di film Cattivissimo me, ma hanno talmente tanto successo che si impongono presto come protagonisti nei sequel e immediatamente come protagonisti del marketing, soppiantando completamente gli altri personaggi del franchise. Anche chi non ha mai visto un minuto dei loro film sa, infatti, chi sono: li ha visti come giocattoli in mano ai bambini, nelle pubblicità, nei travestimenti, sui cartelloni. E li conosce anche se, molto probabilmente, non ha idea di che carattere e che ruolo abbiano, cioè scagnozzi e lacchè di padroni cattivi che servono con assoluta deferenza, sempre però danneggiandoli involontariamente, perché con la loro stupidità finiscono inevitabilmente per combinare qualche (divertente) pasticcio. Sono come dei lemming o degli zombie, ma nell’universo infantile in cui vivono finiscono per essere come i protagonisti delle comiche. Cadono, inciampano, sono goffi, diventano vittime dei loro piani diabolici. E i bambini li amano per questo.

Adesso i Minions sono protagonisti anche dell’ultima campagna pubblicitaria di Actimel e appaiono enormi sulla confezione di Actimel al supermercato (peraltro la forma della bottiglietta di Actimel e quella dei Minions sono molto simili, tant’è vero che sulle bottigliette ci sono repliche di personaggi diverse, collezionabili). Affascina, quindi, questa loro parabola: personaggi nati come servitori sciocchi di padroni malvagi, sostanzialmente privi di volontà singola, che diventano testimonial perfetti per allargare la platea di compratori di una bevanda “che aiuta le persone a prendersi cura del proprio sistema immunitario”. Accanto alla collezione c’è tutta una serie di giochi scaricabili attraverso un QR-Code e giocabili su telefonino. Giochi per “allenare la concentrazione, la memoria, coordinazione e reazione, l’attenzione, l’equilibrio e l’agilità”. Insomma, siamo nel campo del benessere e della salute: vuol dire genitori che, sull’onda dell’entusiasmo per i personaggi, convincono i propri bambini a bere la bevanda ricca di probiotici e vitamine (sui benefici dei probiotici i pareri sono ancora contrastanti, quelli delle vitamine sono invece indiscutibili e, dunque, chissà che per dare il buon esempio le bottigliette non se le scolino grandi e piccini assieme). Dopo anni di Covid, le piccole epidemie di scarlattina o streptococco quest’anno sono state vissute con particolare preoccupazione. È curioso che tante piccole cose che avremmo potuto imparare con la pandemia – più attenzione all’igiene delle mani o la mascherina in certe situazioni – sono state abbandonate con malcelato sollievo, mentre tornano in auge soluzioni che hanno dalla loro parte più il marketing che la scienza (vabbè, facciamo 50 e 50).


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La colazione dei campioni

Il croccante segreto di lunga vita custodito dai cereali del mattino e dai loro inventori


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          La colazione dei campioni

Nel 1994, esce un film di Alan Parker dimenticato troppo presto (il film, ma forse anche il regista) che in italiano ha come titolo Morti di salute, anche per strizzare l’occhio a La morte ti fa bella, buon successo di un paio di stagioni precedenti, mentre quello originale è The Road to Wellville (comprensibile, ma effettivamente di difficile traduzione). Si racconta in chiave molto satirica la vita di John Harvey Kellogg, l’inventore degli omonimi cereali e, soprattutto, dello stile di vita sano che tutt’ora ci fa apparire la colazione al mattino coi cereali come sinonimo di benessere. Il sig. Kellogg, interpretato da Anthony Hopkins, apre un sanatorio in Michigan dove cura i pazienti attraverso un particolare metodo fatto anche di clisteri, stimolazioni elettriche, vegetarianesimo e astinenza sessuale (con particolare severità e attenzione anche a evitare la masturbazione). Naturalmente i cereali svolgono un ruolo fondamentale nel processo di emancipazione umana. Il film è tratto da un libro di T. Coraghessan Boyle che non è stato mai tradotto, anche se del signor Kellogg esiste una biografia abbastanza recente (2010) di Silvestro Ferrara, purtroppo introvabile, ma non a caso inserita allora nella collana “I cattivi” dell’editore Bevivino. La chiave del racconto è, se possibile, ancora più grottesca, ma la descrizione del regime necessario al benessere ovviamente non cambia di molto. Dunque, che i cereali non siano l’elisir di lunga vita non è un segreto nascosto, ma è materia perfino di perfide rappresentazioni hollywoodiane. E però, allo stesso tempo, anche se privata delle pratiche più controverse, quell’ideologia ha stravinto ovunque. Io consumo cereali al mattino con la ferrea convinzione che sia salutare e, come me, decine di altri milioni di persone affollano i corridoi coi cereali dei supermercati – anche in tutto il vecchio mondo, una delle vittorie più tangibili del modello alimentare e comunicativo Nordamericano – con la convinzione che siano la chiave per una vita piena di energie, meno stress, meno paure, ansie, malanni. Così non mi stupisce che sui cereali per la prima colazione del marchio Fitness (rivale di Kellogg) campeggi, già da un po’, Cristina Chirichella, campionessa della Nazionale Italiana di Pallavolo. A cui si è aggiunto, di recente, Danilo Gallinari, forse il miglior giocatore italiano di pallacanestro (anche se, al momento, purtroppo infortunato), e un concorso per vincere un allenamento in palestra insieme a loro. Perché il connubio tra cereali e benessere è ormai una convinzione praticamente innata. Si discute molto negli ultimi anni di ortoressia, cioè l’ossessione per il mangiare sano che può, in certi casi, sortire addirittura l’effetto opposto e peggiorare la vita a chi cade in certi eccessi di controllo, come se fosse una delle chiavi per descrivere la nostra epoca. Ma forse lo è ancora di più proprio l’incapacità di tenere assieme la conoscenza di un fenomeno e la pratica quotidiana. Riguardare di sera Morti di Salute, disponibile su Amazon, e fare colazione coi cereali, soddisfatto, convinto che non ci sia nulla di meglio, e dare una barretta di cereali ai miei figli per merenda a scuola.      


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La pasta delle principesse

Nei formati e nei colori della pasta c’è la speranza, piuttosto vana, che i bambini facciano meno storie a pranzo.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          La pasta delle principesse

Devo ammettere che non conoscevo il marchio di pasta Dalla Costa fino al momento in cui ho scoperto la sua linea “Disney Princess”. (Dopotutto, non si fa la pubblicità esattamente per questo?). Sulla confezione risplendono tre principesse tra le più amate del canone Disney: Belle, Rapunzel (o Raperonzolo per gli sciovinisti) e Cenerentola, assieme ad alcune tra le più note “garanzie” per prodotti alimentari: “Grano 100% italiano”, “Trafilatura al bronzo”, “Bio”. Tutte cose importanti, reali sicurezze – ci mancherebbe –, ma che molto rapidamente hanno perso di significato per trasformarsi in qualcosa di simile a “buttadentro”. (Forse “senza olio di palma” è la più nota del genere). Naturalmente anche il formato della pasta è a tema: ci sono scarpette di cristallo, carrozze a forma di zucca, fiori, castelli da favola e principesse. E pure il colore ha la sua importanza, perché in ogni pacco c’è anche della pasta verde e rossa, realizzata con pomodori e spinaci. In modo che riecheggi immediatamente il pensiero: “Così i bambini mangiano anche un po’ di verdure”. Perché, d’altra parte, realizzare un pacco di pasta a forma di principesse se non per rendere felici i bimbi e sperare che smettano la loro tipica inappetenza e, per una volta, mangino con gusto? Senza doverli pregare e magari perfino qualcosa di sano? 

Ma Dalla Costa è un pastificio che lavora moltissimo sul rapporto giocoso del cibo. Realizza infatti formati di pasta molto diversi e ricercati: sempre per rimanere sul mondo Disney c’è la pasta che ha la forma delle automobiline di Cars e dei personaggi di Topolino e Paperino (anche queste con l’aggiunta di pomodoro e spinaci, perché il piatto sia più “completo”). E poi altre decine di orsacchiotti, “alfabeto e numeri tricolore”, “space” (cioè razzi, pianeti, astronauti), smile, “sea life” (cavallucci marini, polipi, pesci, barche), Natale (albero, candele, regali), Pasqua e perfino Halloween (ragni, streghe, pipistrelli, zucche). Campeggia in alto sul sito la specifica “Pasta dal 1898”, formulazione a cui i pastifici tengono, giustamente, moltissimo. Qualche mese fa, per citarne un’altra, De Cecco ha modificato tutte le proprie confezioni e ha pubblicato un comunicato stampa per avvisare che, dopo una ricerca “storica, giuridica, scientifica, archivistica”, si era scoperto che i De Cecco sono “mugnai” e poi “pastai” dal 1831 e non dal 1886 come riportavano, erroneamente, i pacchi. (Mi colpisce sempre la specifica anagrafica. Di recente, vicino casa mia, ho visto un negozio specializzato in cassoeula che, per prima cosa, ha riportato sull’insegna “dal 1945”. E io non l’avevo mai visto fino al giorno prima. Sì, lo so, vuol dire che la faceva dal 1945, ma altrove. Però resta buffo). 

A ogni modo, la vera domanda resta sottintesa dal primo rigo: ma i bambini poi mangiano la pasta se ha il formato di una principessa, una zucca di Halloween o un cavalluccio marino? Ecco, per il marketing vale come per le storie: mai rovinare del buon marketing o una bella storia con la verità.


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Una tazzina di buoni propositi

Quale Paese hanno in mente alcuni noti cantanti? Stando a un noto marchio di caffè, buoni sentimenti e obiettivi vaghi.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Una tazzina di buoni propositi

L’Italia che vorrei è il nome della campagna di Lavazza, legata allo storico marchio “Qualità rossa”. Ma L’Italia che vorrei è un bello slogan immaginifico al punto che, in passato, è stato usato anche in altre occasioni. È stato, infatti, il titolo di un libro di Fabio Franceschi, il presidente di Grafica Veneta, la principale azienda produttrice di libri in Italia, e quello di un libro di Gianfranco Fini, un manifesto scritto nel 2010, quando era all’apice della sua carriera politica. E ancora di un libro di Walter Veltroni del 2013, con una specifica (L’Italia e la sinistra che vorrei), così come di uno stracitato articolo di Oriana Fallaci, uno di quelli che finiscono nelle card colorate che girano sui social, come di altre decine di articoli di giornale, pagine Facebook e velleitarismi vari.

In questo caso Lavazza fa immaginare l’Italia che vorrebbero a Levante, Elodie e Marracash. C’è il volto di Levante sul barattolo di caffè, quello di Marracash sulle cialde e quello di Elodie sulla più tradizionale busta di plastica, assieme alla richiesta di un’Italia più libera, più equa e più giusta. Anzi, senza “più”, proprio equa, libera e giusta. Un richiamo al motto della Rivoluzione francese, ma con la giustizia che ha preso il posto della fraternité. (Chissà perché dei tre ideali rivoluzionari, la fratellanza è sempre quella che ha avuto meno successo). A voler essere ancora più precisi, a ogni testimonial corrisponde un desiderio: “uguaglianza” è quello di Marracash, “giustizia” quello di Levante, “libertà” per Elodie. (Chissà se ci sono state riunioni per assegnare il desiderio al testimonial più adatto).

Dunque, libera, equa e giusta, al contrario, evidentemente, di coloro i quali vogliono un’Italia più iniqua, ingiusta e schiava, che non si sa mai bene chi siano, ma ci saranno. Anni fa, Stefano Benni, in una delle pagine più riuscite del suo Bar sport (ammesso che ce ne siano di non riuscite), raccontava la tipica figura dell’avventore da bar che monopolizza la conversazione lamentandosi del fatto che in Italia non va bene niente, a differenza dei Paesi in cui “le cose funzionano”, senza però mai specificare quali siano poi quei Paesi. Neri Marcorè, in una ben riuscita imitazione di Edoardo Bennato, si inerpicava in discorsi complottisti lamentandosi di “loro”, “quelli che non vogliono fa funzionare il Paese”, anche se – pure nel suo caso – non si capiva mai bene chi fossero questi “loro”. Questi due riferimenti non per dire che i tre cantanti abbiano un comportamento simile, anzi sono tre persone che fanno in maniera evidente della coerenza un valore irrinunciabile, ma perché il “problema” che ho con certe campagne è che, se non hanno un avversario, finiscono per perdere di incisività e, soprattutto, risultarmi aleatorie. In un mondo dove non esistono realmente Joker o Lex Luthor o Voldemort, chi vorrebbe davvero un’Italia non giusta, non libera o non equa? Chi lo rivendica? Contro chi si combatte? D’altra parte, non stiamo vivendo da più di un anno una situazione in cui tutti, a parole, dicono di volere la pace e tutti, lo stesso, si accusano l’un l’altro di volere, in realtà, la guerra o la tirannia? Perché quando “pace” diventa uno slogan, si svuota di significato. E lo stesso può accadere con tutti i buoni propositi.


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Il gelato che unisce le generazioni

A chi sono rivolte le vignette che decorano il Cucciolone, destinate a sparire dopo una veloce risata? Forse, a chi è già grande.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          <strong>Il gelato che unisce le generazioni</strong>

Nel 2020 Unilever ha annunciato che avrebbe smesso di rivolgere le pubblicità dei propri gelati e dei propri dolci ai minori di dodici anni, decisione presa per venire incontro all’Organizzazione Mondiale della Sanità che aveva denunciato (e continua a farlo) l’obesità infantile come uno dei problemi principali del nostro secolo. Addirittura, Wall’s (il corrispettivo britannico di Algida) ha guidato questa rivoluzione rivolgendo tutte le pubblicità non più ai bambini, ma ai genitori. Mi torna improvvisamente in mente questo proclama che, allora, venne riportato con solennità un po’ ovunque, passando accanto al bancone dei gelati di un supermercato dove vedo il Cucciolone dell’Algida con Mario, Luigi e Yoshi, in occasione dell’uscita di Super Mario Bros. – Il film, e l’edizione del Cucciolone con “Le vignette di Scottecs” e pure la specifica, perché il messaggio arrivi proprio a tutti, “disegnate da Sio”. In effetti, le barzellette di Sio appaiono sul Cucciolone Algida ormai da un paio d’anni, erano state annunciate nel 2021 assieme a un Calippo a forma di spada laser di Star Wars, una serie di Magnum legati al tema “Divina Commedia” in occasione del settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri e al Cornetto Algida stellato di Martina Caruso (chef per l’appunto stellata del ristorante Signum a Salina).

Ma il successo di Sio deve essere stato superiore a quello di Dante visto che è ancora nei banconi, a differenza del Magnum Purgatorio. Il rapporto tra Cucciolone e disegnatori di fama, peraltro, è antico, visto che negli anni Ottanta aveva le vignette con i personaggi della Disney, e poi per anni i disegni sui biscotti sono stati frutto della lunga collaborazione con uno dei più famosi fumettisti italiani, Giorgio Cavazzano. Tutta questa digressione per dire che se Sio e Super Mario non parlano più ai minori di 12 anni, significa che parleranno certo ai teenager – che, par di capire, meritano ogni bombardamento pubblicitario – e poi a me. Perché se il Cucciolone non si rivolge più ai ragazzini, ma ai loro genitori, vuol dire che il destinatario di quelle barzellette di Sio e di quel Super Mario sono proprio io. Il che non avrebbe nulla di strano. Per quanto possa avere ormai l’età in cui vale la pena tentare la simulazione della pensione sul sito dell’Inps, sono cresciuto con Super Mario. E ho letto volentieri Scottecs ogniqualvolta (sempre) mio figlio l’ha dimenticato in un punto di casa dopo aver riso sonoramente. 

Mai come in questi ultimi anni, infatti, i gusti e i consumi dei bambini e dei loro genitori sono stati simili. A volte proprio sovrapposti, perché capire i propri figli è diventato spesso sinonimo di farsi piacere le cose che piacevano a loro, che fossero trapper scalcagnati, cartoni animati e serie televisive dalle trame strampalate o biscotti al cioccolato. Passati rapidissimamente da anni in cui i genitori storpiavano di proposito il nome degli Spandau Ballet per trattare i figli con evidente sufficienza a quelli, i nostri, in cui cantano assieme ai ragazzi le canzoni scritte da Cardiotrap in Mare fuori. Magari mangiando assieme un Cucciolone, rievocando i fasti dello slogan sui dieci morsi dieci.


Supermarket

Dolci dal sottosopra

Cosa c’entrano dei biscotti alla fragola frizzante con una serie di Netflix? Immaginari golosi, tra forma e sostanza.


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In occasione dell’uscita dell’ultima stagione di Stranger Things è stata messa in vendita un’edizione speciale dei biscotti Ringo. Sulla confezione si legge “Limited edition” – l’inglese fa subito molto esclusivo – e si vedono un demogorgone e due belle palme violacee: sia come richiamo molto specifico alla quarta stagione della serie, sia perché la confezione è tutta, in realtà, tra il rosa e il viola non solo per richiamare la serie, ma anche perché i biscotti sono al gusto “Fragola Frizz”, come chiarisce bene una fragola, la farcitura rosa dei biscotti e la scritta esplicativa “con crema che frizza al gusto fragola”. I Ringo hanno, poi, anche disegni realizzati per l’occasione su uno dei versi, cose come la Bmx simbolo della serie già dalle prime puntate, un canestro da basket, il numero 011 e altri ancora. Insomma, una confezione realizzata con grande perizia e attenzione a ogni particolare, ma forse presi proprio da questi dettagli finiamo per dimenticare quello fondamentale, soprattutto per un biscotto, e cioè il gusto. 

La cura con cui sono stati realizzati i biscotti sul piano estetico avrebbe permesso anche un’edizione limitata tenendo fermo il gusto più noto dei biscotti. Sarebbe bastato. Se invece è stato scelto un gusto spiazzante come la fragola, e l’aggressività è stata perfino accentuata sia nella comunicazione sia nell’esaltazione dell’aspetto “frizzante” vuol dire che quell’aspetto, secondo i produttori del biscotto, e forse perfino quelli della serie tv, è un elemento decisivo. Il corrispettivo del carattere dei ragazzini di Stranger Things che tengono a cuore l’amicizia più di ogni altra cosa, che sono placidi ma coraggiosi, è un biscotto al gusto fragola che frizza. I veri fan della serie e i veri fan dei Ringo sanno tirare fuori il meglio di sé tanto nella vita reale – i Ringo soliti – che nel sottosopra – i Ringo alla fragola frizzante. Una scelta diversa è stata fatta da Danette, quando ha realizzato un’edizione speciale dei suoi budini al cioccolato dedicandoli a La casa di carta. In questo caso solo il packaging, con la riproposizione dell’ormai notissima maschera di Dalì, richiamava la serie. Ma il gusto restava quello originale. (Tra parentesi, ma questo particolare merita un supplemento di ammirazione: che giro assurdo il maestro del surrealismo che appare su una scatola di budini al cioccolato nella sua versione stilizzata e mascherata di una serie tv su una banda di rapinatori?). 

Cento anni fa si discuteva della possibilità di realizzare un’opera d’arte totale che tenesse assieme tutte le arti. Ma forse la sola opera d’arte totale che può permettersi la nostra epoca immersa nel consumismo e nella produzione eccessiva e frenetica di miti e segni è proprio un biscotto alla fragola che frizza che unisce una serie tv Netflix, dei biscotti noti e simbolici e poi vista, udito, gusto, tatto, olfatto, emozioni.


Supermarket

La pasta dei supereroi

L’incontro pubblicitario tra un noto marchio di pasta e il Marvel Cinematic Universe avrà davvero le sue buone ragioni?


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In una delle scene più note di Avengers: Endgame – il film di maggiore incasso dell’Universo Marvel, il secondo in assoluto nella storia del cinema – si vede Thor che, depresso dopo aver fallito la precedente missione, è abbondantemente ingrassato e beve birra in accappatoio. Non posso fare a meno di pensarci quando al supermercato vedo la Pasta Garofalo che, ormai da diversi mesi a questa parte, ha una partnership con la Marvel e ha realizzato dei pacchi di pasta per l’uscita di Thor: Love and Thunder, di Black Panther: Wakanda Forever, di Doctor Strange nel Multiverso della Follia. Negli ultimi anni i carboidrati hanno subito una tale demonizzazione che, di primo acchito, mi pare incongruo che Chris Hemsworth (Thor), con quel fisico, possa essere legato a un piatto di pasta. Naturalmente è colpa mia. 

L’ossessione sempre più diffusa negli ultimi anni per il cibo salutare ci rende vittime di un discorso di marketing che, a differenza di altri, invece di svolgersi alla luce del sole è più subdolo. Parliamo di “carboidrati”, come categoria – e già solo il fatto che sia diventata una categoria la dice lunga su come siamo messi –, e lo facciamo in un discorso che è diventato comune senza che nessuno lo promuovesse apertamente. (Per una ragione affine, altri marchi vendono formati di pasta classici, ma con la farina di legumi, così pensando di tenere assieme l’antica abitudine e la nuova necessità di alternare le proteine). Ma c’è poi un secondo sospetto che mi prende guardando Benedict Cumberbatch sui fusilli: la pasta con i supereroi mi fa pensare a quelle merci che puntano sull’infantilizzazione pur non dichiarandosi da subito, apertamente, come prodotti per bambini. Gli yogurt con l’orsetto, i surgelati con il draghetto, il prosciutto cotto con una forma bizzarra e la lucertola. Immagino la mamma che mostra il pacco al bambino riluttante già al supermercato e gli domanda con voce soave “la mangi la pasta di Thor?” e lui dice sì perché pensa solo ai colori sul pacco, per poi, invece, rifiutarla una volta cotta. E mi sembra che quella pasta allora non si rivolga a me. 

Ma c’è addirittura un terzo aspetto che trovo buffo per un marchio che, in qualche modo, intende rappresentare un’eccellenza: qual è il nesso tra la pasta e i supereroi? Non si finisce per assomigliare così, almeno in parte, a quei prodotti che svolgono una funzione semplice, assimilabili in tutto e per tutto ad altri, e che sperano che un personaggio famoso doni loro appeal? I quaderni scolastici con i personaggi dei cartoni animati, le lenzuola o i pigiami o le sedie di plastica delle squadre di calcio, l’uovo di Pasqua degli influencer. I quaderni sono realmente tutti uguali, per questo i bambini comprano quello con il loro personaggio preferito. Un pigiama semplice svolge una funzione semplice, per questo lo stemma della squadra del cuore può rappresentare un surplus per qualcuno. L’uovo di Pasqua di Mare fuori non lo compri per la qualità del cioccolato, ma per il gusto di vedere il logo di Mare fuori sulla carta esterna. Quella pasta, invece, mi pare di averla vista comprare, e l’ho comprata, sempre per gusto, e se bisogna dare un senso ulteriore allora qualcosa non torna.  Ovviamente chi ha fatto queste scelte ne sa più di noi, e se ha deciso di sacrificare una parte di significato per una confezione più ammiccante avrà le sue ragioni (di solito ben rappresentate da numeri a decine di zeri). Ma se è vero che da homo sapiens siamo ormai diventati homo consumens, lasciateci almeno il piacere di dare un senso più profondo alle poche scelte che davvero ci sono concesse: quelle tra qualche marchio.


Supermarket

Uova di stagione

Gli influencer (e le serie tv) all’assalto delle uova di Pasqua, e di tutti i rituali che punteggiano il nostro calendario.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Uova di stagione

Ogni volta che una celebrità dei social pubblica un libro ci si domanda: a quante copie corrisponderanno tutti quei follower? Si fanno calcoli probabilistici e ci si pongono domande: e se almeno un follower su cento comprasse il libro? O almeno uno su mille? E sarà vero che i follower di Twitter comprano più libri di quelli di Instagram, o sono tutte leggende? Molto spesso finisce con un buco nell’acqua, qualche volta con successi epocali. Nessuno ha ancora capito qual è il discrimine.

Gabby16bit è uno youtuber, famoso per i suoi gameplay e il suo canale da tre milioni di follower, ha pubblicato diversi libri, dunque nel suo caso il rapporto follower-vendite ha funzionato. Perciò qualcuno ha pensato di dare una risposta anche a un’altra domanda: a quante uova di Pasqua corrispondono tutti quei follower? Perché, al supermercato, quest’anno è disponibile anche l’uovo di Pasqua di Gabby16bit, realizzato da Giochi Preziosi. Scrivo “anche”, perché non è l’unica celebrità che “si è regalata” (orrida e, naturalmente, abusatissima espressione) l’uovo di Pasqua quest’anno. C’è l’uovo di Fedez (al centro pure di una querelle con Selvaggia Lucarelli riguardo a quanto del ricavato delle vendite finisca realmente in beneficenza), l’uovo di ClioMakeUp, quello di Lyon, quello di Benedetta Rossi (speriamo almeno che il suo cioccolato sia migliore degli altri), l’uovo di Elettra Lamborghini e, ça va sans dire, quello di Chiara Ferragni (riguardo al quale c’è perfino un giallo: secondo qualcuno sarebbe lo stesso uovo del 2022 e la prova starebbe nel fatto che le sorprese non sono cambiate, altri smentiscono clamorosamente). Alcune di queste uova hanno pure le sorprese in qualche modo coordinate, per esempio in quello di ClioMakeUp ci sono sorprese a tema “trucco”, mentre fonti ben documentate dicono che le sorprese delle uova di Elettra siano tutte leopardate. 

Se proprio ci tenete a scoprire la sorpresa in anticipo, YouTube è pieno di video di influencer che aprono uova di altri influencer per scoprire cosa c’è dentro, un gesto che i bambini fanno da decenni senza immaginare che un giorno sarebbe stato registrato sotto il nome di “unboxing”.  Curioso pure che in molti di questi unboxing, le uova di Pasqua degli influencer e quelle di Strangers Things o di Emily in Paris siano trattate allo stesso modo, come fossero tutti personaggi di fantasia. Racconta Annie Ernaux in Guarda le luci, amore mio, che la stagionalità della natura si ritrova in qualche modo nei supermercati. Che lo scorrere delle stagioni viene riprodotto attraverso il lento alternarsi delle merci. L’inverno diventa primavera, le arance diventano albicocche e poi ciliegie, i panettoni diventano dolci di carnevale e poi uova e colombe. Anzi, forse va aggiunto che oggi che la stagionalità della frutta è stata sconfitta dal cambiamento climatico, dalla rapidità dei trasporti e dal consumismo, e le fragole sono sugli scaffali per dodici mesi, l’unica stagionalità rimasta è quella artificiale. Per cui sparite le creme solari e i prodotti contro le zanzare, arrivano i diari scolastici degli influencer per il ritorno a scuola (pardon, “back to school”), poi i travestimenti per Halloween, quindi Natale, Carnevale, San Valentino e il giro ricomincia. Sempre più feroci anche i tentativi di colonizzare i pochi spazi del calendario non legati a prodotti specifici: gli ingredienti per preparare la pastiera ormai si trovano ovunque e i nonni chiedono che il due ottobre arrivino loro gli auguri per la festa dei nonni, come se fosse una tradizione esistita da sempre.