Piccoli fans

Corpi più o meno conformi

L’adolescenza è anche ossessione per il corpo che cambia. E se tutto accade tra Instagram e TikTok, le cose si complicano.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Corpi più o meno conformi

Mi è capitato diverse volte di sentire i ragazzini prendersi gioco dei dogmi dell’inclusione dei corpi “non conformi”; e parlo di bravi ragazzi, che in realtà quei dogmi li rispettano a puntino, e che a differenza di qualche comico non userebbero mai il termine ritardato. Eppure quando gli dici “mettiti la crema per l’acne” ribattono “stai per caso facendo body-shaming?”. E se ci sentono usare la parola grasso, anche riferito al prosciutto, urlano dal joystick: raga, dai, si dice curvy. Evidentemente pensano che a tutta la faccenda della positivity nessuno creda fino in fondo: o quantomeno che la società non stia affatto prendendo la forma che vorrebbero gli influencer pagati dai brand negli adv

Su Instagram, una bellissima mamma paraplegica nelle stories fa i fitcheck giornalieri: consiglia abiti pratici da infilare in sedia a rotelle e non manca mai di citare i marchi dei capi o il modello di epilatore più adatto alla sua disabilità. Una curvy influencer che fa campagne per il “pianto libero” (queste sì, abbracciate in toto dalle nostre teen, purtroppo solo femmine) inquadra da vicino i suoi morbidi anelli di carne, poi scrive: grazie al tal modello di intimo non mi vergogno più delle forme. O: grazie dopo l’x percorso di mindful-eating ho fatto pace con il mio corpo. È dal tempo della prima grande campagna body positive, quella della Dove sulla Real Beauty del 2004, che i marchi si appropriano dell’ideologia virtuosa, sfruttandola più per lustrare la propria immagine che per cambiare il livello di autostima dei giovani. Tanto che perfino i ragazzini ci credono tanto quanto a Babbo Natale. E l’insoddisfazione corporea degli adolescenti, rispetto ai decenni dei media tradizionali, risulta addirittura aumentata. Adesso, più che allora, le undicenni pretendono trucchi, maschere, cerette e tutti gli altri prodotti anti-imperfezioni dei quali una volta potevano restare all’oscuro, e che ora vedono su Instagram. Un altro fenomeno diffuso tra le ragazze è quello del profilo segreto sui social: c’è quello ufficiale dove le seguono anche i genitori, e quello nascosto dove le segue tutta la scuola, e – solo se hanno corpi molto conformi – si mostrano allo specchio in biancheria intima, atteggiamenti provocanti e perché no una sbafata di sigaretta elettronica.

Su TikTok, le cose vanno in modo un po’ diverso. Alcune ragazze mi raccontano: noi su Instagram non andiamo, seguiamo solo poche cose, gli amici e Torcha per informarci. Le pubblicità le saltiamo. Passiamo la maggior parte del tempo su TikTok. Per carità, anche qui prevale il modello dominante, ma, cercando con hashtag, sbucano tante teenager intente a strizzarsi e a far ballonzolare la ciccia di troppo nelle loro camerette con una ridicola musica indie; in un altro riquadro, una ragazza con un viso deforme fa il suo video di make-up come nulla fosse, senza essere pagata da un brand. Le ragazzine con i background culturali più solidi si identificano in questo tipo di narrazioni autoironiche e giurano sui loro baffetti che non avranno mai bisogno del piegaciglia. Ma tanto dopo vanno a scuola, visualizzano le stories di quelle che hanno il profilo segreto, e nel pomeriggio sono già in cameretta a fare gli esercizi per tonificare il doppio mento con un tutorial di YouTube.


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Uno sport fatto di soli highlight

Non è vero che lo sport non interessa più. Ma la fruizione è cambiata nel profondo, tra frammenti ed entertainment.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Uno sport fatto di soli highlight

Della fuga dei ragazzi dallo sport si fa un gran parlare. Non parlo del fisiologico abbandono di attività troppo impegnative alla soglia della pubertà, ma proprio di consumo dello spettacolo sportivo. Secondo uno studio europeo, il 27% dei 16-24enni se ne dichiara del tutto disinteressato. Ma non è per quelli, ritengo, che era nata l’idea di partite più brevi o di una Super League in cui si scontrassero solo le squadre più forti dei campionati migliori: ovvero di “concentrati di spettacolo”, come sono diventate per esempio anche le ATP Finals, intervallate da videoclip, musica e live di violini elettrici luminescenti. Tutta questa corsa, solo in parte attuata, all’inseguimento degli spettatori del futuro mira a ragazzini che lo sport già lo amano, e di un ardore simile a quello dell’era analogica: solo che lo consumano sotto forme e in formati impensabili per noi, nostalgici del Totocalcio. 

Alle sette di mattina, sanno già se nella notte una finale degli Australian Open è stata sospesa per pioggia, dimenticano tutto ma non di postare la formazione del fantabasket, si stanno convertendo rapidamente alle magliette dell’Al Nassr e vanno avanti a meme su Calciatoribrutti. Ma chiedigli di sedersi fermi, o al limite di stravaccarsi, davanti a una partita intera, e si dilegueranno sdegnati. Perché investire ore del proprio tempo frammentato in un singolo incontro, quando i social ti propongono gli highlight da tutto il mondo? Quando puoi sempre recuperare e mettere like a un bel punto di tennis su Instagram? Se per Hitchcock il film era la vita senza la noia, per la gen Z lo sport sono gol e canestri senza i passaggi interlocutori. Toh, al massimo aggiungi infortuni pazzeschi e fun fact. All’opposto di noi, che ci accontentavamo dei riassunti aspettando di essere un giorno portati allo stadio, oggi oltre tre quarti dei ragazzi non ritiene importante seguire un evento sportivo in tempo reale, tenendo in minimo conto il valore dell’immediatezza, data sia l’abbondanza di gare nel corso della settimana sia soprattutto di contenuti live in generale.

A dispetto di molto allarmismo sul disinteresse giovanile, la sport industry è uno dei segmenti più in crescita di TikTok, piattaforma che ha incoraggiato anche il dilagare di un altro tipo di contenuti, quelli dei tutorial degli influencer per rifare i trick, o meglio le skill, dei campioni, e la fioritura parallela del mondo del calcio freestyle, sia maschile sia femminile: un approccio che forse allontana l’idea dello sport dalla pressione dell’agonismo sui quattordicenni per riportarlo nel mondo dell’intrattenimento. Se prima sembrava che i giovani avessero pazienza e curiosità solo per i gol, con questo nuovo spostamento di inquadratura il risultato appare ininfluente. Quel che conta, invece, è la rabona, il gestro strabiliante, la skill Messi, la skill Neymar: la ripetizione dell’eccezionale in slow-mo. Il Boss del Freestyle, con il suo profilo da 1,3 milioni di follower, ormai è invitato a intrattiene il pubblico degli stadi negli intervalli, sancendo in qualche modo un restyling del baraccone calcistico sui gusti social dei ragazzi. A noi adulti viene sempre da banalizzare: da pensare a una versione ridotta e scolpita sui problemi di attenzione dei giovani. Come in tutti i casi, invece, osservatore e fenomeno osservato qui si fondono e si inquinano. E se lo sport, o meglio il racconto dello sport e la sua cornice spettacolare, giocoforza cambia con i ragazzini che lo assumono a spizzichi, alla ricerca di un’evasione fulminea e quasi fantastica, di sicuro, evolvendo, non rischia di scomparire con noi vecchi fruitori della tv via satellite.


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Perché Barbie è perfetto anche per i bambini

L’incontro tra il film campione di incassi e i ragazzini mostra una delle grandi differenze tra gli americani e noi.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Perché Barbie è perfetto anche per i bambini

Negli Stati Uniti, il film Barbie è stato valutato inadatto ai minori di 13 anni non accompagnati, per riferimenti sessuali agli organi che Barbie e Ken non avrebbero sotto i vestiti. In Italia, invece, siamo meno moralisti ma anche più semplicioni, e l’equazione è stata: “protagonista un giocattolo = film per tutta la famiglia”. Mai approssimazione fu più opportuna: perché Barbie film è un prodotto così didascalico che solo un pubblico infantile può giustificarne tutte le esplicitazioni di intenti; perché si tratta di una grande favola aggiornata (tra Brave e Catherine Called Birdy di Lena Dunham); e poi perché i ragazzini lo hanno accolto con entusiasmo sfrenato. A luglio, mi trovavo in coda con centinaia di minorenni al Festival di Giffoni per la proiezione nella Sala Truffaut. Quaranta gradi, spruzzi di vapore sulla folla osannante, musica degli Aqua a palla, accessori fucsia, giurati disposti a tutto pur di entrare a prenotazioni esaurite. I bimbetti spingono tanto per entrare all’evento che alla fine quasi tutti i giornalisti restano fuori. A fine film, in maniera per me millennial inspiegabile, piangono a centinaia con i lacrimoni, come quando Pinocchio diventa un bambino vero, perché [spoiler alert] Barbie prende vita presentandosi alla prima visita dal ginecologo (proprio uno dei passaggi per cui gli americani invece l’hanno vietato ai bambini).

Mi chiedevo se tutto questo fosse pathos fisiologico da festival, ma in seguito i video su TikTok hanno ribadito la reazione emotiva della gen Z: i ragazzini, maschi e femmine, si riprendono commossi con la scritta e io che credevo che Barbie fosse un film stupido. Per assurdo, molti scrivono “credevo che Barbie fosse un film childish”, usando la parola come sinonimo di frivolo, ma confermando, con la loro totale adesione, che invece Barbie è esattamente un film childish, nel senso che va incontro a loro: perfino alle bambine sdentate che nei reel vestono rosa e glitter cantando “What Was I Made for” in lip-sync. Il mondo senza ombre di Barbie crolla quando Margot Robbie, durante un party, grida: avete mai pensato alla morte? Ecco, se i bambini certo amano le ricostruzioni 1:1 delle ville fucsia con piscine di plastica, è altrettanto vero che amano trastullarsi con il pensiero della morte: dei piccioni morti, dei cattivi dei cartoni morti, dei nonni morti, di quando moriremo noi. 

La piccola fiammiferaia muore, muore Voldemort, devono essere per forza morti i genitori di Pippi Calzelunghe, e le fiabe sono infestate di fantasmi. Non a caso, una delle scene più potenti del film è proprio l’incontro tra la bambola e il fantasma della sua creatrice, una vecchietta tutta storta che occupa un appartamentino negli scantinati della Mattel. Accanto al discorso femminista, ormai reso esausto dal dibattito pubblico sul film, e accolto senza sorpresa da ragazzini che succhiano gender equality con il latte, i temi della fiaba (mondo reale/mondo immaginato, animismo degli oggetti, mistero della morte e incanto della vita) sono così portanti, da rendere Barbie perfetto per loro almeno quanto per noi.


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Pixar ai 4 elementi

Cosa andiamo a vedere, al cinema? Un bel racconto, certo, ma soprattutto rassicurazioni su mondi che già conosciamo.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Pixar ai 4 elementi

All’inizio dell’estate, la Pixar ha affrontato il peggior flop della sua storia con Elemental. C’è chi incolpa una miope amministrazione post-pandemica, che da un lato ha spostato tutti gli investimenti su Marvel e Star Wars, dall’altro ha disabituato il pubblico ad andare in sala, dirottando le uscite sulla piattaforma. Sarò ripetitiva, ma mi sembra che oggi, a differenza di quindici anni fa, quando i film originali Pixar ci attiravano in sala, a richiamarci non siano tanto la qualità dell’animazione o della sceneggiatura (ok, Disney cerca sempre di compiacere tutti, e questo diventa sempre più difficile in un clima polarizzato, ma insomma…), quanto la garanzia di personaggi noti che ritornano. Ragioniamo, insomma, noi e i nostri figli – questa specie di corpo a due teste, di cui uno pagante e l’altro frignante – sempre più per universi e mondi che per singole esperienze. Crediamo ormai solo nella cross-medialità.

Ricordo che da quando ne hanno annunciato l’uscita, abbiamo atteso Toy Story 4 per otto anni, temendo che i nostri figli si sarebbero fatti troppo grandi e pelosi per accompagnarci. Ogni tanto ci chiedevamo, come per la linea blu della metro a Milano: ma quanto, quanto manca? Abbiamo abboccato all’amo di Lightyear l’anno scorso e ci teletrasporteremmo volentieri nel 2024 per vedere il sequel di Inside Out.

A vedere Elemental, per dire, io e mio figlio di cinque anni, ci siamo andati solo perché il corto di apertura era sul vecchio di Up e il suo cane: noi grandi ci siamo rimasti sotto dal 2009, i bambini invece vedono su Disney+ la striscia Doug Days, dove Fredriksen e cane vivacchiano in un sobborgo. 

Ma volevo scrivere di Elemental. I giornali americani hanno cercato falle nella trama e sbavature nel design dei personaggi. Il film non era male, invece. Sebbene si tratti di una storia d’amore tra una donna di fuoco e un uomo d’acqua, il target è più basso di quello di Inside Out. I bambini vanno pazzi per la questione degli elementi: la donna di fuoco che mangia snack al carbone, trasforma la sabbia in vetro, bruciacchia le persone di terra sul metrò, e rischia di spegnersi ogni volta che le arriva qualche goccia. Noi invece – al netto della retorica sull’amore romantico e sul talento – possiamo apprezzare la metafora sull’immigrazione. I Fuochesi, infatti, vivono ai margini di questa città piena di schizzi pensata per gli Acquatici. La famiglia d’acqua è un po’ satirica, con le ziette lesbiche, il nonno artista, la mamma pronta a comprare al suo cocco un biglietto open per tutto il mondo per tirarlo su. La famiglia di fuoco è dura, sgobbona, chiusa, e c’è dentro un’idea stupenda: parlano una lingua immaginaria in cui papà si dice ashfà, e la scrittura è una grafia inventata che richiama i caratteri arabi e cinesi. Mi ha ricordato quel bel libro di Shaun Tan, L’approdo. E intanto il film a inizio settembre è ancora in sala.


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I testi adulti della musica pop

Le barriere tra canzoncine per bambini e successi-tormentone sono cadute definitivamente, tanto vale farsene una ragione.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          I testi adulti della musica pop

A fine anno scolastico, i genitori ricevono tutti l’usb con il video che dovrebbe commuoverli mostrando un montaggio dei momenti più belli trascorsi alla scuola materna, dal Natale alla festa dei sapori, dalla gita in cascina al corso di yoga. Ebbene, con l’hype di chi assiste alla prima a Cannes, infiliamo la chiavetta e per mezz’ora vediamo scorrere faccine ridenti sui banchi o sui prati, con Annalisa che urla “il tuo modo di dire le cose che sesso fa!”. Eccoli sguazzare nella neve fresca, mentre Lazza si sgola “Questo silenzio potrebbe ammazzarmi / aiutami a sparire come cenere”. Il laboratorio di teatro va giù veloce con Madame che ansima “Fai bene / fai male”. Le mamme incinte sbattono forte le palpebre sugli occhi lucidi, i papà tengono il ritmo, i bambini cantano ignari. 

Quando io andavo alla materna, oltre a vestirci da Balanzone e Colombina, ci costringevano a cantare le canzoni dello Zecchino d’oro. Finalmente siamo liberi da quelle lagne, dice una mamma mia coetanea mentre compila la playlist per una festicciola dei 3 anni: mettiamo “Cara Italia” di Ghali (“se la metto incinta poi mia madre mi…!”). Un invitato da poco bipede chiede alla deejay “Fottitene e balla”. È la top ten di Spotify Italia la colonna sonora dei nostri figli in età prescolare. Brani come “Supereroi” nascono in qualche modo già con l’intento di acchiappare il nuovo pubblico intergenerazionale genitori-bebè-scuole; nel 2018, “Una vita in vacanza”de Lo Stato Sociale suggellava la caduta della barriera tra le canzoni da boy-scout clericali e il pop televisivo, portando l’Antoniano sul palco dell’Ariston a gridare “nessuno che rompe i palloni” al posto di “nessuno che rompe i coglioni”.

Su Facebook, qualche genitore mozartiano comprensibilmente indignato denuncia le colonne sonore ammiccanti scelte da certi “insegnanti alla moda che dicono di sì a tutto pur di non apparire retrogradi”, con l’esito di andare “nella direzione opposta all’avanguardia”, annullando “ogni possibilità di scelta diversa da quello che passa nei bar e nei supermercati”. Film come Dogtooth di Lanthimos e documentari come Wolfpack, sulle storie di ragazzi reclusi, hanno provato a dimostrare, anche sconcertando, che nessun artificioso sottovuoto può proteggerci per sempre da quella che il genitore mozartiano definiva “la bruttezza a cui siamo chiamati a assistere ogni giorno”. Allora meglio iniziare presto, dopotutto l’esposizione potrebbe generare una specie di risposta immunitaria. Perfino Alba e Alice Rohrwacher ascoltavano a palla Ambra Angiolini, e questo non ha impedito all’una e all’altra di diventare l’attrice italiana più onnipresente del cinema contemporaneo e di vincere un premio della giuria a Cannes.


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Il “carino” inquietante

Cosa succede se il protagonista di un cartone giapponese su Netflix è un albume molliccio? Un’abbuffata terapeutica.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Il “carino” inquietante

Da quest’anno, è disponibile su Netflix la serie animata giapponese Gudetama: 10 puntate brevi da 10 minuti, che vedono un flaccido albume strisciare per il mondo alla ricerca della madre, pungolato dal fratello pulcino, entusiasta e (per usare una brutta parola moderna) proattivo. Per noi europei idea e impianto sono assolute stranezze (quelle che d’altronde ci aspettiamo dal Giappone), ma in patria Gudetama è un brand da dieci anni, nato dal colosso Sanrio, lo stesso di Hello Kitty, con merchandising sterminato, libri di cucina e perfino ristoranti a tema. L’uovo pigro è l’apoteosi del kawaii, il “carino”, tanto che la maggior parte dei bambini è attratta dal design confortante; ma in realtà è un personaggio nichilista, che fa parte della wave kimo-kawaii, ossimoro che sta per “carino-inquietante”.  

In Giappone, la cosa ha un senso preciso: in una società rigida, funzionante e operosa, identificarsi in un uovo molliccio è terapeutico, perché spezza il tabù dell’oziosità. Ma da noi, proposto nella sezione kids di Netflix, può svolgere una funzione simile? Nell’ambito di un topos fiabesco classicissimo, quello del viaggio per ricongiungersi con un genitore – da Hansel e Gretel all’Estate di Kikujiro – questo prodotto mi è parso mettere insieme la svogliatezza dei preadolescenti moderni, costretti a sottoporsi a miliardi di attività performative, con un certo overload di divertimento subito dai più piccoli, che ormai piangono ai laboratori, ai corsi di parkour e perfino alle proprie festicciole. Il giudizio del protagonista è esplicito, ed è l’opposto della positivity che ci inculcano i social, rappresentata dal pulcino integrato: galleggiando a pancia in giù nella salsa di soia, Gudetama sospira: “Non va bene essere motivati”. 

Per i cinquenni, abituati all’animazione coatta e all’action hollywoodiana, il cartone rappresenta il trionfo della libertà e del non-sense (Gudetama precipita per un’intera puntata da un grattacielo planando sul suo albume). Agli undicenni, offre un misto tra la carineria abbandonata del mondo dell’infanzia e la soglia orribile, appena percepita sullo sfondo, del mondo degli adulti: al povero uovo, viene ricordato continuamente che deve marcire o crepare sul sushi a nastro. An eggcellent adventure, dice il pay-off di Netflix inglese. E adesso, a serie divorata, e colmi di un gelatinoso memento mori, non ci resta che acquistare tutto: pelouche, cuscini, maglietta, portachiavi e impasti per torte. Non importa se la nostra data di scadenza è vicina.


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Tutti in fila per Vecna e Chiattillo

Non serve più vedere le puntate intere, basta una clip sui social per farsi un’idea delle serie più adulte. E mettersi in coda.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Tutti in fila per Vecna e Chiattillo

“Sono Rosa Ricci, Di Salvo, non mi riconosci?”, grida una bambina milanese di nove anni nel cortile dell’oratorio, con un accento napoletano che – se fosse in età da Nisida – sarebbe già pronta per il casting della quinta stagione di Mare fuori. In occasione di Best Movie Comics and Games, al Superstudio di Milano, un gruppetto di bambine della stessa fascia d’età con grandi orecchini e cerchio e capelli stirati sgomitava tra i nerd per farsi i selfie con Cucciolo, Dobermann Gemma e Beppe, sempre di Mare fuori: una serie in cui nella sola prima puntata assistiamo a due morti violente, consumo di droghe e a un tentativo di stupro da parte di un giovane affiliato alla camorra. Nel frattempo, dietro a Piazza Fontana, sole o pioggia, una lunga coda gremita di infanti delle elementari prenotati da mesi aspetta di entrare al pop-up store di Stranger Things, serie tv teoricamente indicata su Netflix come 13+, dove creature con la bocca da pianta carnivora staccano teste e ragni giganti stritolano ragazzini.

Ma come mai tanti bambini in età da Superpigiamini o poco più sono in coda per comprarsi la tazza del mostro Vecna o per avere l’autografo di attori che interpretano baby-killer o assassine? No, non hanno visto queste serie di nascosto, come poteva capitare ai bambini liberi e selvaggi di Stand by Me, ma a loro queste star sembra di conoscerle, perché le guardano e ascoltano tutti i giorni ripetere i loro tormentoni negli edit di TikTok. Mi correggo, loro le conoscono. Non chiedono neanche ai genitori di guardare le puntate, perché la loro esperienza di spettatori comincia e finisce dentro i 15 o 60 secondi degli edit. Quanto basta a per mostrare tutti i look di Eleven/Milly Bobby Brown, da rasata in camice ospedaliero con i candelotti di sangue al naso, a romantica con parrucca bionda e calzettoni college. Quanto basta per vedere il numero progressivo di kill (omicidi) del Chiattillo di Mare fuori, per conoscere le punchline vernacolari della mitica Rosa Ricci, per desiderare che “quei due stiano assieme” (guardia e carcerato, rampollo e rampolla di clan rivali); o per vedere l’irresistibile guappo “Eduà” ingannare una ragazza perbene sulle note di Tous les mêmes di Stromae.

Ê interessante notare che i video di TikTok, nati presumibilmente per incuriosire, attrarre nuovo pubblico o consolidare il successo tv, siano per i giovanissimi ormai non una narrazione derivativa, ma la narrazione tout court: non il trailer di qualcosa che guarderanno, sintesi o emanazione di un universo superiore e più complesso, ma la versione concentrata di un mondo che possono limitarsi a indovinare, di cui tutto sommato sanno abbastanza per partecipare al delirio collettivo, un mondo che sono già pronti a citare e a consumare attraverso i gadget, le foto condivise, e di nuovo gli edit, creati a propria volta con Capcut, e condivisi sul profilo di mammà, in febbrile attesa di view.


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I campi estivi al tempo di TikTok

Esperienze formative che diventano challenge. E più che lo sport il richiamo diventa quel volto già conosciuto sui social.


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          I campi estivi al tempo di TikTok

Già da qualche mese, le mailbox dei genitori italiani sono intasate di pubblicità dei campi estivi. Una settimana in barca a vela dalla Liguria alla Francia, scacchi in uno chalet alpino, arpa a Salsomaggiore, teatro perché no in tedesco, e perfino coding, comics, deejay, yoga, manga e magia. Se questa proposta sembra già parodiare il genere, saremo stupiti nell’apprendere che la novità dell’estate 2023 è il camp estivo con Bella Gianda. Bella Gianda, alias Micheal Casanova, è un tiktoker trentaqualcosenne, svizzero, ex calciatore, noto ai ragazzini per il tormentone “Verifichiamo!”. Gianda in dialetto ticinese significa ghianda, espressione che per qualche motivo nel canton Ticino viene usata al posto di “salve” (e qui ci vorrebbe un bel tributo a Huber della tv svizzera di Aldo, Giovanni e Giacomo). Comunque: lui, a scanso di equivoci, confessa di aver scelto il nickname perché “pensava che fosse una parolaccia”. 

Googlo che Micheal si era già prestato al babysitteraggio nell’estate 2021, all’interno di un altro campo che prometteva ai bambini di “trascorrere momenti simpatici e allegri” (sic) “alle grida dei famosissimi motti ‘Bella Gianda’ e ‘Barboni’”. Beh, se non ti iscrivi con uno spot così! Il format “storico” dei video di Bella Gianda (storico perché il profilo TikTok è stato chiuso un anno fa, al raggiungimento dei 2,5 milioni di follower) somiglia al famoso conto dei fagioli proposto dalla Carrà in Pronto, Raffaella?. Ogni video comincia con una frase tipo “No, non mi sono mai chiesto quanti bicchieri occorrono per svuotare una piscina. Ma visto che oggi non ho niente da fare, verifichiaaamo!”. Segue montaggio velocissimo di lui che tenta l’impresa assurda: squarciare una rete a forza di gol, cuocere un pollo a suon di schiaffoni, rompere una protesi al seno da 1200 euro, contare le gocce in un boccione da 20 litri; quindi una voce contraffatta fuori campo constata l’infattibilità della cosa e lui chiude con: “barboni!”. Il volantino dell’Experience Summer Camp di quest’anno promette di “passare il tempo tra sport, momenti formativi insieme a Micheal, divertenti challenge e gli immancabili verifichiaaaamo […] all’insegna dell’esperienza multisportiva, della socializzazione e del puro divertimento all’interno di un contesto paesaggistico inestimabile e di un hotel 4 stelle”. Età di riferimento: 6-21 anni; un allargamento del target a cui nessun prodotto per ragazzi è mai arrivato (Il giornalino di Gian Burrasca era 6-14).

L’abbinamento con basket, baseball, trekking, ultimate, scherma e tchouckball (fino a qualche anno fa, questi si chiamavano Gazzetta Summer Camp) sembra ormai la foglia di fico del vero concept del campo estivo post-YouTube, ovvero il più onesto “visto che non abbiamo niente da fare”. Un’offerta di intrattenimento del genere dovrebbe avere il coraggio di vendersi per quello che è: un’aggressiva, realistica controproposta ai campi del celebre maestro Franco Lorenzoni (dove si canta alla luna e si “cerca una parentela con il cosmo”); una versione attuale e spoetizzata dei romantici compiti delle vacanze alternativi che girano a giugno su Facebook: correte nel grano, andate a pesca con papà, guardate le stelle cadenti. Gridate barboni, guardate un reel, svuotate piscine con Bella Gianda.


Piccoli fans

Remake Disney e generazioni a confronto

Meglio l’originale animato o il rifacimento live-action? Mentre il genitore analizza, il teenager medio scrolla le spalle.


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Negli ultimi anni, mentre spuntavano come funghi i vari La bella e la bestia con Emma Watson e Dumbo di Tim Burton, con gli attori in carne e ossa e le bestie in digitale, mi interrogavo sul senso di rifare tutti i classici in live-action: non era molto più intrigante il filone di spin-off sui cattivi, da Malefica a Cruella, dove al villain di turno veniva immancabilmente attribuito un trauma fondativo? Beh, a rispondermi sarebbe bastato il botteghino del Re Leone, diventato il nono film per incassi nella storia del cinema. E poi: lo scarso rischio d’impresa nel riproporre storie di successo conclamato, l’universalità delle fiabe classiche, che non prevedono neanche l’acquisto di diritti, la necessità, un po’ woke, di aggiornare le vecchie storie alla “sensibilità” contemporanea. Con La sirenetta, tuttavia, ho capito qualcosa in più. Perché quello, nel 1989, è stato il mio primo film al cinema. Ai miei genitori il cinema faceva malinconia: non mi ci portarono mai. Ma quel miracoloso giorno ero affidata a lontanissimi cugini, che decisero, quasi per disperazione, di portarci al cinema. Finito lo spettacolo – incredula, palpitante – mi rimisi subito in fila per rivederlo. Ecco perché sono “tornata” a vedere la Sirenetta con un gruppetto di gen Z, ed ecco perché a nessuna di noi è saltato in testa di fare il bis: non solo per i posti numerati al multisala (o tempora o mores), ma anche perché per guardare il remake due volte di fila occorrerebbero cinque ore. 

A fine proiezione, infiammata di febbre comparatistica, interrogavo le undicenni. Allora, cosa mi dite di questo inizio così diverso, con il mare in tumulto? E dall’ambientazione caraibica? La coreografia di In fondo al mar non era meglio nell’originale? E la strega Ursula, con il suo look queer, quanto spacca? Avete notato che la canzone “Baciala baciala” è stata modificata, beh, per assicurarsi che la cosa fosse reciproca? Vi siete indignate che lei rinunci alla sua voce per un uomo? Boh, mi hanno risposto le tre – tapine – noi non l’abbiamo mai visto. Stacco. Perché, la vecchia sirenetta era tanto diversa? Stacco. 

Ecco perché Disney continua a sfornare questa roba. I remake sono fatti perché noi ci trasciniamo i figli. Noi alla ricerca di emozioni perdute per sempre, noi innamorati di Javier Bardem, noi incapaci di fare gli adulti anche dopo esserci riprodotti più volte, noi “zii” pateticamente desiderosi di piacere ai giovani, e colpevolmente bisognosi di scusarci se siamo cresciuti in una società bianca e sessista. Mentre loro, di tutto questo nostro affannarsi, se ne fregano. Al buio della sala, chattano, masticano, creano una gif, scorrono TikTok; proprio all’apice dell’interesse, followano Halle Bailey su Instagram.


Piccoli fans

Ossessione junk food

In reazione alla celebrazione del cibo più raffinato, gli adolescenti si buttano sul cibo più unto. Da mangiare e guardare.


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Nell’ultimo pranzo con alta presenza di teenager, i ragazzi farcivano le loro piadine al grido di “ti fidi di me?”. Non citavano manco per sbaglio Leonardo di Caprio sulla prua del Titanic, ma ripetevano il motto del tiktoker campano Patrizio Chianese, un ragazzo in tuta Givova assurto al successo grazie ai suoi video di panini imbottiti. E un altro Di Caprio noto alla generazione Z è Donato de Caprio, pure lui farcitore di panini non light al grido di “Con mollica o senza?”.

Ultimamente, gli adolescenti hanno sviluppato una specie di ossessione per il junk food. Le quantità sbalorditive di cibo riuscite a ingurgitare sono un vero e proprio trend topic in tutte le conversazioni, tra loro, ma anche con noi, come se la cosa potesse sedurci in qualche modo. Sai che Tizio oggi ha fatto fuori otto piadine più una con la Nutella? Sai che sono arrivato a 1000 punti sulla mia app di Burger King? Pensavo fosse una reazione, legittima, al regime sempre più salutista, biologico, vegetariano, che noi adulti pieni di sensi di colpa tentiamo di imporre in casa. Invece, il fascino per il binge-eating sembra proprio dettato dai consumi di Youtube, TikTok, Instagram. Tempo fa, su IG mi aveva ipnotizzato il profilo di Deborah Yowa, una ragazza dalla bocca gigante che sgranocchia in modo ipnotico e molto Asmr gelatine a forma di pizza, borsette di pasta di zucchero e intere chele di granchio. Era solo la punta di iceberg di una perversione specifica: è la Corea la culla di questa pratica, detta mukbang, per cui le ragazze si filmano mentre azzannano cibi scrocchianti, gelatinosi, nervosi, tentacolari, apparentemente non così commestibili. E a proposito di roba estrema, quest’anno è morto Waffler69, uno youtuber americano noto per mangiare davanti al pubblico cibi in scatola scaduti da decenni. 

Cicciogamer, famoso anche per i suoi problemi fiscali, e per aver denunciato la Gialappa’s che gli aveva dato del panzone, è diventato virale con i videogiochi ma poi è sciamato alla cucina, e oggi i nostri adolescenti svezzati a quinoa sbavano davanti al video del Ciccioburger, un panino che occupa tutto il forno e contiene chili di carne macinata e bottiglie di ketchup. I Dieffe, due fratelli sdraiati che esercitano la professione di youtuber demenziali dalla loro casa sul lago di Garda, nell’ultimo format si sfidano a sopravvivere per una settimana con solo junk food, bevendo cola anche a colazione. Con il montaggio accelerato, mostrano gli effetti devastanti del fast food sul corpo e sulla mente, ma in qualche modo stranamente celebrandolo.

Noi miseri, intanto, ci chiediamo perché li avevamo portati a sei anni al ristorante stellato a piluccare roba rivisitata e scomposta. Invece, dovremmo capire che non si tratta solo di asservimento a un modello televisivo e nutrizionale di importazione, ma magari del loro modo di ribellarsi alla nostra cultura del food (ormai anche la maestra Concetta dell’asilo lo chiama così): nient’altro che la declinazione social e teen dei Quattro ristoranti e delle Cucine da incubo che noi stessi gli propiniamo, con l’aria supponente di chi conosce sempre un posticino.