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Piccolo fiore bugiardo


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Piccolo fiore bugiardo

Ad aprile 1999 ero alle medie, la vita mi aveva consegnato un fucile automatico caricato a ormoni e io ero un pessimo cecchino. La tv in questo senso non aiutava: i miei coetanei avevano soubrette, veline, letterine su cui fantasticare, noi al massimo avevamo i Carràmba Boys, ma le valli di lacrime che anticipavano e seguivano la loro apparizione rendevano tutto molto poco sensuale. Ancora oggi guardando un corpo maschile scolpito provo nostalgia per lontani parenti in Argentina. Il mercato della musica pop pensava a noi preadolescenti armate fino ai denti, e come moltissime ero innamorata dei Backstreet Boys, ma tutta quella carineria mi annoiava. A quel punto il mercato proponeva il rock, un genere sexy fatto da persone sexy, caratteristica certificata dalla presenza di groupie – un ruolo tenuto in così alta considerazione da farlo sembrare un’opportunità di carriera per le ragazze, più della musicista.

Il 25 aprile 1999 stavo guardando Mai dire gol. Ogni puntata si chiudeva con un ospite musicale che cantava con Fabio de Luigi nei panni del cantante Olmo. Quel giorno gli ospiti erano i Negrita. Li avevo sentiti nella colonna sonora di Così è la vita di Aldo, Giovanni e Giacomo senza grande entusiasmo, né per loro né per il film. Cominciarono a suonare il singolo “Mama Maè”. Poi la chitarra elettrica rallentò, la batteria pure, Pau si zittì e dopo vari “Cosa succede? No, non può essere” della Gialappa’s Band, salì sul palco Olmo a cantare una versione soft di “Piccolo fiore bugiardo”. Quando Pau iniziò con il ritornello, una voce fuori campo disse “Senti come è sexy!”. Era vero. Stavo guardando la cosa più sexy dei miei primi dodici anni e mezzo di vita. Così sexy che registrai su audiocassetta l’esibizione presa dal Vhs dell’intera puntata, poi la riversai su computer così da poterla masterizzare su cd. E in tutti i formati quel brano divenne pietra angolare della mia interpretazione della sensualità. Consumai quel pezzo di tv tanto da memorizzare le parole del brano, le parole della Gialappa’s, le parole di Crozza e Dighero che entravano sul finale a fare i coristi. Quando vent’anni dopo mi trovai a Mediaset a farmi pagare per guardare la tv del passato, recuperai la puntata e ricordavo ancora tutto, turbamenti compresi. Però vi dicevo che sono un pessimo cecchino: nonostante lo scombussolamento dell’esibizione, non divenni fan del rock, né dei Negrita. Ma non riesco a non sorridere se penso a Fabio de Luigi, a cui ho dedicato così tanta attività onirica da considerarlo un ex, uno dei pochi che stimo ancora.


Memorie

Brand:New su MTV Italia


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Brand:New su MTV Italia

Una striscia bianca su uno sfondo verde e un veejay – allora si chiamavano così i conduttori di Mtv – o meglio il suo alter ego io:massimocoppola che, davanti a una camera fissa, riempiva gli spazi (oggi si direbbe di content, sviluppando una narrazione, uno storytelling, ma allora era semplicemente scrittura per la tv) tra un videoclip e l’altro, ogni sera a mezzanotte a cavallo dei Duemila. Era brand:new, un programma che sarebbe diventato di culto, una bolla prima delle bolle del social network, una community con un solo moderatore che raccoglieva gli alternativi indie che prima si radunavano sotto palco ai concerti, in qualche programma radio, sulle riviste specializzate. Tra un video di Michel Gondry per i Daft Punk e uno di Spike Jonze per i Beastie Boys, tra un monologo di io:massimocoppola sulle ciotole giapponesi, il G8 di Genova, Nick Hornby o le ragazze francesi, si costruiva uno Zeitgeist che sarebbe da lì a poco diventato di massa, catturato tanto da Instagram quanto da Sanremo.

Brand:new era tv fuori dalla tv, nel camping global di lusso di Mtv, lontano dal chiasso del Grande fratello, delle Domeniche in, del nazionalpopolare e dalla scatoletta dell’Auditel. Ed era uno sguardo disincantato e ironico verso tutto questo, un po’ Twitter senza hater ma con gli uccellini come sottofondo audio, un po’ stand-up ante Netflix, molto YouTube nello scorrimento rapido, nel flusso. Certo era anche un programma musicale – da lì sarebbero passati tutti, dai Coldplay a Moby, da Manuel Agnelli ai Verdena, Bugo, Morgan – ma della musica interessava l’aspetto sociale e antropologico, la sua caduta nel quotidiano, l’elemento di rottura, ovvero quello che avevamo assorbito dalla critica inglese più cool, da Jon Savage a Simon Reynolds. Ah, tra le varie chicche, dentro a brand:new c’era la rubrica della posta! Che ricordi! A vederla oggi – nei due video piratati che ci sono in rete, visto che Mtv non ha mai digitalizzato il suo archivio di cassette – è un bel clash semantico, e pure il manifesto di quella strana era televisiva analogica nei mezzi, già digitale nello spirito, e viceversa. Gli spettatori scrivevano una lettera via mail o via posta e poi io:massimocoppola, introdotto da “New York Telephone Conversation” di Lou Reed, rispondeva durante il programma: quello che oggi starebbe tutto in un feed di Facebook diventava format televisivo, con l’intento mai dichiarato di intrattenere e creare comunità.

Così è stato e forse, dati i tempi, un esperimento non replicabile, ma quando si cerca di portare la musica in tv bisognerebbe comunque sempre tenere, consapevoli o meno, come linee guida questi due obiettivi (li scrivo in inglese, che fa più contemporaneo): entertainment e community.


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Il videoclip di “Asereje”


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Il videoclip di “Asereje”

Quasi vent’anni fa, nell’estate 2002, usciva il tormentone delle Las Ketchup, “Aserejé”. Nel video musicale, le tre cantanti si trovano in una location non ben identificata che potremmo collocare su una spiaggia di Valencia così come di Riccione, tra gli elementi estetici tipici della stagione più spensierata e godereccia. Non c’è un arco narrativo nel video delle Las Ketchup, ci basta vederle simmetricamente disposte per illustrare al pubblico quello che deve imparare: la coreografia. Pochi passi, nessun corpo di ballo, le sorelle spagnole ci mostrano come fare per emulare a mo’ di scimmie nella sequenza di movimenti che scandisce in modo quasi militare il famoso ritornello martellante dal testo incerto.

Le Las Ketchup non hanno cambiato la storia della musica né quella dei videoclip, ma qualcosa di grosso lo hanno anticipato. Se “Aserejé” fosse uscita nell’estate 2021, sarebbe stata perfetta per il pubblico contemporaneo, e per capire cosa intendo basta guardare il video di “Pistolero” di Elettra Lamborghini o di “Movimento lento” di Annalisa e Federico Rossi. Ciò che vent’anni fa poteva essere scambiato per semplicità – o in altre parole, carenza di budget –, oggi è una regola molto comune del videoclip pop: inquadrature fisse su pochi ballerini, coreografia svolta perlopiù con braccia e mani, nessuno spostamento con le gambe nell’area intorno, proprio come in “Aserejé”, proprio come in un ballo su TikTok. La complessità di un video come “All the Single Ladies” di Beyoncé o “Hung Up” di Madonna è sostituita dalla staticità di un’inquadratura che tutti possiamo riprodurre su uno schermo verticale, quello del nostro smartphone. Al movimento che si estende nello spazio, si sostituisce quello immobile in un solo punto dell’inquadratura fissa, alla diagonale di Beyoncé con corpo di ballo al seguito si sostituisce il punto stabile di Elettra Lamborghini che, prendendo spunto dall’estetica cowboy di Dua Lipa in “Love Again”, cavalca pistole e ci illustra i passi della micro-danza che possiamo emulare per entrare anche noi nel flusso infinito di un trend. Quello che però manca ad “Aserejé” per essere davvero un video del 2021, per quanto gli elementi formali di viralità contemporanea ci siano tutti, è anche un’altra cosa. Il branded content, che vent’anni fa avremmo chiamato “pubblicità occulta”, ora è più esplicito e centrale che mai. Tanto esplicito da diventare il testo di una canzone come nel caso di “Mille” di Fedez, Achille Lauro e Orietta Berti, nell’era in cui marketing e videoclip sono diventati una cosa sola, sia nelle immagini che nel suono, musica e réclame fusi insieme senza soluzione di continuità.


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L’uomo gatto di Sarabanda


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          L’uomo gatto di Sarabanda

Agli albori ci sono stati Gianluigi Marianini, il concorrente raffinato di Lascia o Raddoppia? con Mike Bongiorno, Maria Luisa Garoppo, “la tabaccaia di Casale Monferrato”, con pure una carriera da attrice grazie alla popolarità ottenuta, e Lando Degoli, bruscamente ribattezzato “il ciccione der controfagotto” da Alberto Sordi in una scena immortale de Il vigile (la sua risposta sul controfagotto divenne un caso di rilevanza nazionale, quando “rilevanza nazionale” non era solo un frusto modo di dire). Poi è stato il turno dei campioni del Rischiatutto: Inardi, Fabbricatore, Longari (divenuta celebre per la fake news che la vede protagonista di una gaffe che, in realtà, non la riguarda). La pratica del quiz televisivo ha sempre mostrato che il successo dipende dalla popolarità dei concorrenti e, ancora di più, dal desiderio di riconoscersi, immedesimarsi, simpatizzare o, ultimamente, antipatizzare per loro.

Uno dei primi giochi a occupare una fascia che ormai è considerata “naturale” per i quiz – anzi game, come tocca dire adesso – è Sarabanda. (Negli Stati Uniti ha avuto largo successo Beat Shazam! con Jamie Foxx, un format intuibile dal titolo che assomiglia a una versione attuale del gioco finale di Sarabanda, il 7×30 – indovinare titolo e cantante di sette canzoni in trenta secondi). Sarabanda nasce nel 1997, ma il successo arriva quando i concorrenti iniziano a essere caratterizzati prima con presenze più continue, poi con i soprannomi, infine con performance a metà tra la body art e la lucha libre messicana. E qui il più noto, idolo dei millennial e fuori da ogni categoria, resta sicuramente l’uomo gatto.

Oltre a essere uno dei concorrenti più longevi, l’uomo gatto è diventato protagonista di diversi spin-off e perfino di speciali in prima serata. Imitato anche da Ubaldo Pantani in alcune puntate di Ciro, è tuttora invitato in numerose trasmissioni grazie alla notorietà ottenuta in parte come esperto di musica, in parte grazie alla sua capacità di intrattenere (il soprannome di uomo gatto deriva dall’aver partecipato come protagonista al musical Cats). Ma – mi pare – soprattutto per un tratto nuovo che ha saputo introdurre in tv: la capacità di credere moltissimo, quasi da personaggio, in quello che stava facendo, così come la capacità di litigare, accendersi, discutere animatamente – storiche le sue sfide con El tigre – che in qualche modo hanno probabilmente anticipato il gusto per la litigiosità dei nostri anni.


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Morgan, Bertè, il G8 di Genova e Cocktail d’amore


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Morgan, Bertè, il G8 di Genova e Cocktail d’amore

È il 2002, il G8 di Genova è passato da pochi mesi e ancora si respira la sua lunga onda di violenza e di morte, le scene dell’omicidio di Carlo Giuliani sono vivide negli occhi degli italiani e nessuno ha ancora consapevolezza di quanto a lungo nel tempo queste riprese saranno destinate a restare presenti e vive. Loredana Bertè e Morgan sono amici, si frequentano, spesso escono insieme in tre: lui, lei e l’altra che li ha presentati, naturalmente Asia Argento. In modo decisamente sghembo Marco e Loredana finiscono a fare da titoli di coda a una puntata di Cocktail d’amore, programma tv musicale condotto da Amanda Lear che va in onda per due stagioni dal gennaio 2002 al giugno 2003, rigorosamente in seconda serata. Insieme cantano “Dedicato” di Ivano Fossati, un pezzo portato al successo di pubblico proprio da Bertè nel 1978. L’esecuzione è imprecisa, giocata sull’improvvisazione, lei balla mentre canta, ondeggia e vagheggia mentre lui cerca di seguirla, di starle dietro: si truccano insieme seduti al piano, lei gli mette del fondotinta mentre lui suona e sul maxischermo dietro di loro scorrono le immagini degli scontri di Genova mentre, in sovraimpressione, se ne vanno i titoli di fine puntata. Lei, iperberteggiante, diva con turbante e gambe affusolate, lo sprona a essere più convinto, gli ricorda che “Dedicato” è per dire che siamo noi, siamo noi quei disgraziati, e si capisce che la canzone, lì, naturalmente non è un caso: non è un caso quel brano dedicato ai cattivi che poi così cattivi non sono mai, perché quella canzone per quelli un po’ sbandati e balordi è per i rifiutati, gli emarginati, quelli che la società lascia un passo indietro o anche molti passi indietro in più quando arriva a farli fuori. Morgan per la prima volta ha la barba in tv, i Bluvertigo si sono sciolti da qualche tempo e si è ritirato a vita privata, è diventato padre e compagno e quella è la sua prima apparizione in video dopo molto; il suo look rimanda a quello di Paul McCartney durante il lavoro su “Let It Be” e, specialmente, sul suo primo LP solista, l’omonimo McCartney, e al periodo in cui il Beatle si era ritirato nella sua fattoria in Scozia a fare il papà anche lui cercando di superare la più grande separazione artistica di tutta la storia del pop. Mentre la puntata sta finendo, dunque, Loredana Bertè e Morgan tessono una tela sottile e fluorescente tra privato e pubblico, si mostrano umani, come ripresi durante le prove. Giocano, sorridono, si sfidano nella tensione magica dell’interpretazione di un grande classico vivo, mentre dietro di loro la grande storia pubblica della nazione scorre via e la musica anziché lenirne lo sbrego ce lo mostra in tutta la sua disperazione.


Memorie

La puntata finale del primo X Factor


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          La puntata finale del primo X Factor

A distanza di qualche anno lo posso ammettere: non avevo seguito con particolare attenzione la prima edizione di quel nuovo programma, un talent canoro tra gli altri, solo con i loghi e i colori più curati, e con la struttura maggiormente rigida tipica dei format globali. Anche il 27 maggio 2008, alla finale della prima edizione italiana di X Factor, su Raidue, il televisore era acceso ma lo sguardo distratto. Almeno fino al momento in cui una concorrente, Giusy Ferreri, canta il suo inedito, “Non ti scordar mai di me”: scritto anche da Tiziano Ferro, piuttosto assonante con qualche brano di Amy Winehouse, destinato ad appiccicarsi in testa ben oltre il termine di quella dodicesima puntata. È il clic, lo scarto, il cambio di passo. Ciò che è capitato dopo lo ricordo bene: le eliminazioni, lo scontro a due, la vittoria degli Aram Quartet che in realtà sanciva soprattutto la presa sul pubblico televotante della combo tra rispettabilità musicale e forza televisiva del loro giudice Morgan (nonostante un brano-collage di aforismi, tipo “Chi beve solo acqua ha qualcosa da nascondere”), un successo discografico che ripaga del secondo posto (e porterà Ferreri in poche abili mosse da cassiera del supermercato a regina dei tormentoni estivi). Sono anni che cerchiamo di capire se nel talent prevalgono gli aspetti musicali, le canzoni e le performance, la fiammata nelle classifiche e la durata di qualche scoperta, oppure le logiche più propriamente televisive, i personaggi, i percorsi, i “diamanti grezzi” che diventano star, i litigi, le primedonne in giuria. A ondate sembrano importare di più gli uni o le altre, e ogni accurata pianificazione si scontra con le necessità e i desideri ondivaghi del pubblico. Tornare alle origini ci ricorda però anche di un’altra formidabile forza del talent show: quella dell’ingenuità, della sincera sorpresa, dell’attimo inatteso prima che le successive annate finiscano per mostrare maggiore consapevolezza e prevedibilità. Vale per il pubblico, vale per i protagonisti. La concorrente dalla voce particolare a cui hanno messo una hit nel cassetto. Gli allievi timidi e goffi di Saranno famosi, prima della macchina da guerra di Amici. La costruzione attenta e incerta di una suora che si fa valutare nel canto a The Voice, e i giudici che non se l’aspettano. La stanchezza di un genere come questo, negli ultimi anni, si spiega anche con la mancanza di qualche inattesa scintilla.


Memorie

Wilma De Angelis e Lady Gaga


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Wilma De Angelis e Lady Gaga

Nei primi giorni del lontano 2011, Wilma De Angelis propose al pubblico di Se… a casa di Paola, programma condotto da Paola Perego su Raiuno, un nuovo brano: la cover di Bad Romance di Lady Gaga, intitolata “Dimmi di sì”. Fu uno di quegli eventi in grado di – come diremmo oggi, nell’epoca post-Kardashian – “rompere l’internet”: la clip andò virale, si diffuse nelle bacheche di Facebook, quando ancora su Facebook si caricavano i video di YouTube, senza affidarsi a Facebook Watch. Io passai giorni interi a ridere di quel brano, a parlarne con amici online e offline, a ricordare l’incredibile apertura “Ti voglio bene / Ti voglio così”, tanto ingenua da spingere qualcuno a raccogliere firme per fare aprire alla cantante italiana le date milanesi di Lady G. Purtroppo non andò così.

A dieci anni di distanza, questo evento ha i nitidi contorni della premonizione. Del monito, se vogliamo. Quello strano rito fatto di televisione, reazione sui social, risate e occasionale bullismo nei confronti di una veneranda artista, era ancora merce rara all’epoca ma sarebbe diventata la base del nuovo discorso digitale. Dell’intrattenimento, anche. Attorno alle “reazioni dei social”, al “popolo del web” e alla proverbiale “ira online” si è costruita la società, la cultura e, perché no, la politica odierna. Wilma De Angelis non lo poteva sapere ma era inciampata nel futuro, facendosi male. Lo raccontò lei stessa, pochi giorni dopo l’accaduto, al blogger Davide Maggio: “Mi hanno dato della ‘vecchia pazza’ o ancora peggio. Dopo il bis a Domenica In” – perché ci fu un bis a Domenica In di cui non sapevo niente – “in cui ero accompagnata da alcuni ballerini, mi hanno dato della porcona. Ho sofferto davvero”.

Provate a immaginare se questo avvenisse oggi. Se un’arzilla e simpatica signora facesse “Dimmi di sì”, all’improvviso. Sarebbe subito su Twitter e TikTok, dove rischierebbe di espatriare, diventando meme globale. Partirebbero gli omaggi, i fotomontaggi e, sì, anche le offese insensate – con un volume anche maggiore di quello che colpì De Angelis all’epoca. La raccolta firme per il concerto di Lady Gaga avrebbe stavolta un successo internazionale, arrivando magari a Stefani Germanotta in persona; inevitabile la “collabo”, il featuring, o almeno il post su Instagram. E anche quel giorno, internet si sarebbe rotto. Il tutto, ovviamente, sarebbe durato una decina di giorni per poi essere subito soppiantato da un’altra assurdità: una petroliera incastrata, un trend su TikTok, un tentato golpe nel Caucaso. “Dimmi di sì” ha in qualche modo anticipato un mondo intero: chissà se Wilma lo sa.


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MTV Digital Days


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          MTV Digital Days

L’anno in cui cambia tutto, nella storia dei grandi eventi di Mtv Italia, è il 2013. È il momento dell’esplosione globale di una nuova ondata di musica elettronica battezzata Edm (Electronic Dance Music), che conquista le classifiche e trasforma artisti giovanissimi come lo svedese Avicii, l’olandese Martin Garrix e il russo Zedd in superstar mondiali. Nell’anno in cui esce un album gamechanger come Random Access Memories dei Daft Punk e il neonato genere trap trionfa per la prima volta nelle classifiche con “Harlem Shake” dell’esordiente Baauer, Mtv Italia celebra la nuova cultura digitale lanciando gli Mtv Digital Days. Il formato è la logica evoluzione del più storico evento di massa firmato Mtv: l’Mtv Day, che dal 1998 al 2009, una volta all’anno, aveva attratto a Bologna (fino al 2006) e poi a Genova decine di migliaia di persone per un “one day free festival” in cui si esibivano gli artisti lanciati dal canale musicale. Dal 2010, per tre anni, l’evento si allarga a tre giorni (e di conseguenza il nome si pluralizza in Mtv Days), si trasferisce a Torino e, fortemente influenzato da esperienze come il SXSW di Austin, diventa un city festival che innerva vari luoghi della città. La cosa più importante, quando si organizzano eventi musicali, è osservare il pubblico. E se nei primi dieci anni avevamo di fronte una generazione entusiasta e piena di energia, ora si cominciavano a notare i primi segnali che ci suggerivano che la formula dell’evento e la proposta musicale dovevano evolvere. La cultura digitale faceva passi da gigante, il wi-fi arrivava nelle case, la tecnologia 4g sui telefoni, la transizione della televisione al digitale terrestre era completa. Decidiamo di creare una conferenza di tre giorni sull’innovazione tecnologica e sulla cultura digitale, con incontri durante il giorno e musica elettronica la sera, ma di celebrare la modernità nei luoghi più tradizionali d’Italia: i castelli storici. Per tre anni gli Mtv Digital Days sono ospitati alla Reggia di Venaria, fuori Torino, poi nel 2015 alla Reggia di Monza. Nelle sontuose sale, ribattezzate Innovation Village, direttori di giornali, scienziati e artisti affiancano giovani youtuber, videomaker diciottenni che girano video musicali con gli smartphone e produttori adolescenti di musica elettronica. La notte si accende quando 30.000 persone affollano i parchi delle regge per ascoltare i dj set di superstar internazionali come Steve Aoki, Robin Shultz, Disclosure e Groove Armada, e italiane come Benny Benassi, Claudio Coccoluto, Bloody Beetroots, un giovanissimo Salmo, oggi il rapper di maggior successo in Italia, e l’esordiente Dardust, oggi il più importante produttore musicale italiano. Gli Mtv Digital Days hanno vita breve, solo quattro edizioni, ma fotografano un momento importante di cambiamento nelle abitudini, nel mondo degli eventi, e della fruizione dei media.


Memorie

Franco Battiato Tale e quale


immagine articolo							                      							                      							                      							                      							                      							                      		                                                         	                                                          Franco Battiato Tale e quale

Qual è il contrario di una performance-spettacolo di Beyoncé? Una non-performance di un cantautore impegnato. Se possibile Franco Battiato ha abbassato ulteriormente il già bassissimo livello, a un passo da Stockhausen, suo amico, che si sedeva tra il pubblico, esattamente come fa Maria De Filippi che conduce la trasmissione seduta sulle scale. Una performance di sottrazione e un’estetica dell’inestetico. Nessuno strass, al massimo un walzer di Strauss con recital di astronauti e voci siciliane, un abito grigio, un gilet, delle cuffie molto grandi. Seduto. Questo almeno se non consideriamo la goffa coreografia da Mauro Repetto di “Centro di gravità permanente”, di rottura con la classica prossemica, o la scenografia psichedelica degna di un video dei Daft Punk per “Inneres auge” a Che tempo che fa di qualche anno fa. La domanda allora diventa: come si concilia la negazione dello spettacolo tv tipicamente associata a un cantautore ed esasperata da Battiato con una performance da guardare in prima serata?

Lo abbiamo scoperto quando l’attrice Valeria Altobelli si è trasformata in Battiato per una puntata di Tale e quale show del 2017, proseguendo “un percorso a ostacoli con personaggi di nicchia”, per citare la giudice Loretta Goggi. Le hanno assegnato la canzone con più fraintendimenti kitsch in repertorio: “La cura”, entrata nell’immaginario nazionalpopolare televisivo sia come sottofondo alle esterne di Uomini e donne, sia come ipotetico tappeto sonoro del Punto di Paolo Pagliaro a Otto e mezzo. E in cosa consisteva l’intrattenimento per lo spettatore? O, in altre parole, cosa c’era da vedere? La valutazione delle qualità mimetiche di impersonazione: il trucco e il parrucco erano un po’ da Rosario Crocetta, i vestiti da venditore di bibbie erano verosimili, il movimento delle mani era azzeccato, e anche l’imitazione della voce. Al contrario di quando guardiamo Favino che rifà Craxi o Servillo che fa Andreotti, in Tale e quale show parte del piacere è meta-riflessivo: non cerchi di cadere nell’inganno cinematografico ma rimani lì a sondare l’aderenza e il discostamento all’originale. Il tocco di genio degli autori è stato invitare Maria De Filippi come giudice, che ne ha giustamente notato la malizia: “È un esercizio zen. Avete scelto una persona che canta raccontando senza l’enfasi del cantante”. E hanno scelto la persona che giudica e presenta senza l’enfasi del giudice e del presentatore. Tutto molto meta.


Memorie

La sorpresa Mahmood


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È stato uno di quei rari momenti in cui non solo stavo guardando in televisione un evento, ma ne facevo anche parte nella realtà – detto con quel pizzico di ego che contraddistingue il possessore di tesserino giornalistico. Sanremo 2019, la finale: Il Volo finisce terzo, e io mi giro dalle prime file della sala stampa per palesare il mio stupore a un collega seduto molti banchi più indietro. Questo gesto non solo lo ricordo, ma so di averlo visto più e più volte a fare da sfondo ai tanti video che mostravano i comportamenti “indegni” della sala stampa: esplosioni di gioia, balli e battimani e un insulto di troppo verso il gruppo musicale. Tutte cose, a parte l’ultima, presenti a ogni edizione in quel backstage, che però da qualche anno si era trasformato in un palco fin troppo esibito nei video su testate, siti, social diffusi dagli stessi giornalisti (non è un’impresa facile schivare le riprese di videocamere e cellulari, vi assicuro). Tutto questo esplode nel momento finale, quando a sorpresa vince Mahmood e Ultimo arriva secondo, polemizzando subito dato che aveva vinto il televoto. Anche i politici entrano nell’arena (siamo nei giorni del primo governo Conte, quello con i due vicepremier): Salvini tifa Ultimo, Di Maio chiede solo il televoto dal 2020. Scatta la polemica turbopopulista contro la sala stampa, la giuria, l’élite che fa vincere un ragazzo italiano (ma con padre egiziano), invece di Ultimo, scelto dal popolo. Da un lato, a livello musicale, il secondo Sanremo di Baglioni e quel momento finale sanciscono l’esistenza di voci, suoni e volti esclusi per tanti anni dal quel palco e dal podio ma ben presenti nella realtà. Un processo di svecchiamento ormai accettato, basti pensare all’edizione 2021 e ai Måneskin, poi vincitori anche dell’Eurovision Song Contest. Allo stesso tempo, dall’altro lato, quel momento finale, con le sue conseguenze, ribadisce il predominio di un dibattito pubblico isterico del tutto lontano dalla realtà. Non è cambiato molto da allora. Solo, la sala stampa del Festival di Sanremo ha imparato a limitare meglio video e social.