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Adam Curtis. Una teoria del tutto

Tra i modi di sfuggire all’algoritmo, la ricerca d’archivio e la composizione di quei materiali in nuove vertigini di senso è una strada percorsa da pochi. Ma, come dimostra Bbc, con risvolti interessanti.

Ogni mese, decine di nuovi film e serie tv potenzialmente interessanti fanno capolino sulle piattaforme di streaming in circolazione. Centinaia di ore di immagini e suoni inediti – quello che è asetticamente e indifferentemente definito “content” – sono di continuo pompate nei nostri schermi dove sono poi riorganizzate a seconda delle nostre preferenze. Se ti è piaciuto questo, ti piacerà anche quello.

Can’t Get You Out Of My Head di Adam Curtis – uscita a febbraio 2021 su Bbc iPlayer, servizio streaming della tv pubblica inglese – è una serie documentaria in sei episodi che ribalta le logiche dominanti della narrazione in streaming: 1. Non è fatta di immagini nuove girate secondo i canoni dell’estetica alla Netflix ma di immagini d’archivio, spesso oscure, mai digitalizzate e recuperate da Curtis nei meandri dell’archivio Bbc. 2. Contesta attivamente l’algoritmo del “se ti è piaciuto questo, ti piacerà quello” – che fa si che alla fine vediamo cose con cui il nostro cervello è già d’accordo, a livello sia contenutistico sia estetico – proponendo un tour de force di scarti logici e connessioni bizzarre.

In concreto, la serie, sottotitolata “una storia emozionale del mondo moderno”, ripercorre le biografie di alcuni personaggi del Novecento che vanno da Michael X, un attivista sociale della Londra degli anni Sessanta ma nativo di Trinidad e Tobago, a Jiang Qing, attrice e rivoluzionaria cinese nonché quarta moglie di Mao Zedong, passando per Afeni Shakur, membro delle Pantere Nere e madre di Tupac, intrecciandole con il racconto delle trasformazioni globali avvenute negli ultimi settant’anni. Ad accompagnare le immagini d’archivio – oltre a un’eclettica selezione musicale, tipica del regista, che spazia dai Sex Pistols a Ennio Morricone – c’è la calma voce di Curtis stesso. 

Ho scritto “regista” ma forse non è il termine più adatto perché Kevin Adam Curtis, nato nel Kent nel 1955, ci tiene a essere definito, più semplicemente, come un giornalista che usa i film come medium. Burocraticamente, è invece un “executive producer” alla Bbc, azienda a cui è legato da decenni e che gli ha lasciato la libertà di esplorare nei suoi film la società contemporanea e la storia recente in modi sempre più creativi ed elaborati. In questo senso, le sette ore e passa di Can’t Get You Out Of My Head sono certo un punto d’arrivo della filmografia di Curtis e un sunto dei motivi che lo rendono uno dei documentaristi britannici più originali e stimolanti.

L’arte del canguro e della cioccolata

I sostenitori di Curtis – tra cui rientra la giuria dei Bafta, gli Oscar inglesi di cinema e televisione, che negli anni gli ha assegnato quattro vittorie – vedono i suoi film come uno degli esempi più luminosi del servizio pubblico di alta qualità. Con i suoi taglia&cuci archivistici, che accostano polverose immagini d’archivio a musica d’avanguardia in modi sempre imprevedibili, Curtis riesce infatti a ricostruire, più che i fatti, per cui basterebbe una pagina di Wikipedia, il “mood” di un determinato fenomeno sociale o di un avvenimento storico, sia esso l’influenza del pensiero di Freud sulla società contemporanea (The Century of the Self, 2002), l’ascesa parallela del movimento neocon statunitense e del terrorismo islamico (The Power of Nightmares, 2004), la storia dell’Afghanistan (Bitter Lake, 2015) o il modo in cui il mondo reale è stato sostituito a partire dagli anni Settanta da una sua versione semplificata, stabile e più semplice da controllare, fenomeno che, tra un brano di Shostakovich e un pezzo di Burial, è ricondotto alla duplice vittoria di Trump e del referendum pro Brexit (HyperNormalisation, 2016).

Con i suoi taglia&cuci archivistici, che accostano polverose immagini d’archivio a musica d’avanguardia in modi imprevedibili, Curtis riesce infatti a ricostruire, più che i fatti, per cui basterebbe una pagina di Wikipedia, il “mood” di un determinato fenomeno sociale o di un avvenimento storico.

Stereotipando, un tipico film “alla Curtis” connette persone e situazioni apparentemente molto distanti tra loro (come la crisi fiscale di New York City e il governo di Hafez al-Assad in Siria) intervallando immagini d’archivio parimenti variegate (come un fuori-onda di Putin che mescola una tazza di tè e un oscuro segmento di un film di fantascienza vintage). Il tutto tenuto insieme dalla narrazione calma ma al contempo vagamente ansiogena di Curtis. Per i critici del giornalista – anche bonari, tra cui rientrano quelli che gli hanno dedicato un bingo sugli elementi che ricorrono ossessivamente nei suoi film – Curtis sembra uno che ha passato la notte su Wikipedia scolandosi troppe Red Bull e saltando da un link all’altro in un crescendo di collegamenti sempre più inverosimili.

Da parte sua, Curtis riconosce la peculiarità del suo zigzagare tra argomenti apparentemente distanti. In un’intervista che gli feci qualche anno fa, il giornalista inglese definì infatti questo suo modo di pensare “il canguro e la cioccolata”. “Trovi qualcosa ed è il canguro, poi trovi un’altra cosa ed è la cioccolata, e poi cerchi di vedere se ci sono link o similarità tra le due cose. In questo modo, incoraggi le persone a guardare il mondo intorno a loro in modo nuovo, fresco. I fatti [che racconto] sono tutti veri, ma è un modo immaginativo di raccontarli, di descrivere la realtà dicendo agli spettatori ‘hai mai pensato di guardare alle cose in questo modo?’. […] Se mostri al pubblico cose che sono vere e autentiche ma lo sorprendi nelle connessioni che proponi, credo che gli dai un po’ di coraggio di esplorare il mondo da soli in modi nuovi ed immaginativi, senza per forza seguire le rigide restrizioni e categorie che sono costantemente ripetute dal giornalismo”. Insomma, non “se ti è piaciuto questo, ti piacerà quello”, ma piuttosto “se ti è piaciuto questo, trova qualcosa di completamente diverso e vedi cosa ne viene fuori”. I film di Curtis sono quindi dei grandi puzzle i cui pezzi vengono rimessi insieme in un ordine nuovo e imprevedibile evocando immagini, suggestioni, teorie che era difficile vedere prima. 

Management e realtà

Ma quali sono, più nel dettaglio, i temi che Curtis cuce insieme per raccontare la modernità? Scorrendo una lista delle descrizioni dei suoi film troviamo che essi trattano di: tecnocrazia, memoria collettiva e individuale, libertà, storia delle pubbliche relazioni, dell’energia nucleare e dell’insetticida Ddt, teoria dei giochi, piramide di Maslow, nascita dei canali all news, islam, liberismo, informatica, Lsd, il Ghana degli anni Cinquanta, la Cina della Rivoluzione culturale e gli Stati Uniti di inizio Novecento. E l’elenco potrebbe continuare. La diversità di temi sottintende comunque a una serie di concetti ricorrenti che soprattutto in HyperNormalisation e Can’t Get You Out Of My Head, le ultime due opere, coagulano in una sorta di teoria unitaria: il rovinoso crollo delle grandi ideologie novecentesche ha inaugurato un periodo in cui le élite mondiali – spaventate dalle disastrose conseguenze di grandi storie ideologiche quali per esempio il comunismo – hanno rinunciato all’ambizione di cambiare il mondo, preferendo cercare di stabilizzarlo secondo una visione manageriale della società che mira a predire, organizzare e controllare il comportamento degli individui. In quest’ottica, la politica è ridotta a una sottomarca del perception management che non vuole cambiare il mondo ma solo stabilizzarlo. 

Per i critici del giornalista – anche bonari, tra cui rientrano quelli che gli hanno dedicato un bingo sugli elementi che ricorrono ossessivamente nei suoi film – Curtis sembra uno che ha passato la notte su Wikipedia scolandosi troppe Red Bull e saltando da un link all’altro in un crescendo di collegamenti sempre più inverosimili.

Mentre si studiano nuovi modi per far funzionare la società “in automatico” grazie a tecnologie sempre più affidabili e autonome, un palcoscenico di narrazioni – giornalismo incluso – è stato allestito a uso e consumo degli spettatori che ormai si interfacciano prevalentemente con una versione illusoria e irreale dello stato delle cose. Curtis pensa, per esempio, che grandi traumi occidentali recenti come Brexit e elezione di Trump siano stati soprattutto delle pantomime, storie che tengono occupata la nostra immaginazione impedendoci di progettare un futuro migliore. In tutto questo, anche per via delle avanzate tecnologie di cui sopra, il mondo ci appare sempre più complesso e impossibile da cambiare e quindi ci accontentiamo di “Reality: The Movie” piuttosto che confrontarci con “the real thing”.

Nonostante una certa atmosfera nichilista e apocalittica che avvolge i suoi film, Curtis ha una grande, esplicita fiducia nelle capacità degli esseri umani di cambiare il corso delle cose e riappropriarsi del futuro. Can’t Get You Out Of My Head si apre e si chiude con una frase dell’antropologo americano David Graeber, l’autore di Debito. I primi 5000 anni e Bullshit Jobs, morto a Venezia nel settembre 2020: “The ultimate hidden truth of the world is that it is something that we make, and could just as easily make differently”. Preso alla lettera, è facile liquidare il Curtis-pensiero come naive, implausibile o addirittura complottista. Considerare i suoi film come trattati storici è del resto operazione sconsigliabile. Le sue interpretazioni di come sono andate le cose sono infatti quantomeno discutibili e sicuramente parziali. Vari passaggi di Can’t Get You Out Of My Head, per esempio, forzano in una grande “teoria del tutto” storie che nulla hanno in comune e per cui esistono interpretazioni ben più approfondite e convincenti.

Ma è anche in questo – oltre che in un indubbio talento narrativo e nella capacità di ripescare dall’archivio Bbc immagini preziose che sarebbero altrimenti sostanzialmente perdute – che sta la peculiare rilevanza di Adam Curtis. In un periodo in cui una buona parte di film e serie televisive sembrano algoritmicamente calibrati per colpire le giuste sinapsi e innescare un mood predeterminato, le opere del giornalista inglese invitano infatti alla discussione e provano a fornire strumenti, spesso del tutto inusuali, per guardare il mondo con occhi nuovi e un surplus di immaginazione.


Davide Banis

Lavora per una casa editrice danese. Nel tempo libero, scrive.

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