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Comunità televisive

Zoro: il cazzeggio è politico

Dal puro cazzeggio all’analisi minuziosa delle inquietudini politiche a sinistra il passo è breve, se ti chiami Diego Bianchi. E quando Gazebo “fonda” un suo movimento…

Nessuno si poteva aspettare che in pochi giorni il Movimento Arturo sarebbe diventato la quarta forza politica del paese, almeno su Twitter. Quando, a fine febbraio, Diego Bianchi, in arte Zoro, e i suoi sodali hanno lanciato lo pseudo-movimento politico a Gazebo sembrava, o meglio era, una delle tante trovate della trasmissione. Un movimento nato per gioco, senza un programma, senza una linea. Eppure, in poco più di mezz’ora, ha raggiunto gli stessi follower della neonata formazione politica scissasi dal PD che voleva parodiare (Articolo 1 – Movimento Democratici e Progressisti), e nel giro di alcuni giorni ha superato la Lega Nord, Scelta Civica, e via dicendo. Portandosi dietro anche un aumento di pubblico per il programma, che nella settimana tra fine febbraio e inizio marzo ha raggiunto uno share medio del 6,58%.

Gazebo è ormai uno dei titoli di punta della Raitre targata Daria Bignardi. Da questa stagione, Bianchi e gli altri sono presenti anche nella fascia oraria tra Blob e Un posto al sole, storicamente difficile per la rete. Dal 2013, anno di prima messa in onda, Gazebo si è evoluto, e la sua nicchia di spettatori è andata via via espandendosi, diventando un piccolo fenomeno di costume. Il Movimento Arturo allora non è che l’ultimo atto della costruzione di una comunità di fan, follower e spettatori, che si è andata costruendo un pezzo alla volta. Una community, una commistione tra pubblico e conduttori, che diventa molto chiara a chiunque sia stato tra il pubblico di una puntata, e che parte da lontano, addirittura dal Grande fratello.

Zoro Story

Fa un po’ impressione, a rivederlo oggi, nove anni dopo. Si parla di un’era politico-geologica fa: era il pieno veltronismo (“too ricordi Veltroni?”, direbbero ora a Gazebo), la Juve era appena tornata in serie A, il PD era ancora un esperimento politico nuovo. La prima puntata di Tolleranza Zoro, la webseries di Diego Bianchi, è del settembre 2007: un one man show, telecamera puntata su un angolo della casa, come i moderni youtuber. Bianchi era una personalità del web, un influencer. Si era fatto le ossa non solo lavorando come content manager a Excite Italia, uno dei primi portali, ma soprattutto con gli scanzonati commenti del Grande fratello. È lì che nasce quel modello che sarà poi perfezionato in Tolleranza Zoro: telecamera stretta su Bianchi che commenta i fatti del giorno della Casa, e si sdoppia in più personaggi. Lo sfondo è quello giallognolo che fa tanto casa romana, e questo è sicuramente uno dei punti di forza del personaggio: è uno di famiglia, che commenta in maniera accessibile e chiara, intercalando con immagini che arrivano dritte dalla cultura popolare, pezzi di film e video musicali. In GF Zoro tutto è ancora un po’ improvvisato, non c’è la ricerca formale e la pulizia che ci saranno in Tolleranza Zoro, e poi ancora di più con l’approdo in televisione. Tra il 2008 e il 2012, infatti, Zoro è ospitato da Parla con me e dai programmi di Serena Dandini, diventando parte della squadra, facendo da contrappunto al chiacchiericcio politico del divano rosso, integrandolo con video che dal muro giallognolo uscivano sempre più all’aperto, con altri personaggi e a volte alcuni ospiti. Nasce un format, un modo di raccontare la politica, di cazzeggiare su di essa.

Nel frattempo, nel 2014 Bianchi ha esordito alla regia cinematografica con Arance e martello e intanto ha collaborato con giornali e riviste, oltre a una quantità di altre cose intermediali (tra cui, cara ai romanisti, KansasCity 1927, pagina Facebook anonima che raccontava le gesta tragicomiche della prima Roma americana). Gazebo è ben più di Zoro però, e attorno c’è una squadra che nelle ultime tre stagioni si è allargata e sviluppata con pochi mirati cambiamenti: dagli autori, Andrea Salerno (presente anche in corpo e voce nei servizi fuori studio, ma quasi mai inquadrato live), Antonio Sofi e Marco Makkox Dambrosio, il vignettista e disegnatore della trasmissione, ai giornalisti Marco Damilano (vicedirettore dell’Espresso) e Francesca Schianchi (La Stampa). Interessante notare come i commenti politici, che in Tolleranza Zoro erano dello stesso Zoro, in Gazebo siano affidati a due giornalisti, con Bianchi che coordina il tutto. L’eterogeneità e la capacità di amalgamare esperienze diverse resta una delle cifre della trasmissione, che conta poi star improbabili come il tassista-sondaggista-inviato Mirko Matteucci (“in arte e al lavoro Missouri 4”) e il cantante reggae Ras Santo, che segue quasi personalmente Angelino Alfano.

Il Movimento Arturo non è che l’ultimo atto della costruzione di una comunità di fan, follower e spettatori, che si è andata costruendo un pezzo alla volta. Una community che diventa chiara a chiunque sia stato tra il pubblico di una puntata, e che parte da lontano, addirittura dal Grande fratello.

In studio

Viste le origini di Zoro, non sorprende che Gazebo si basi su una forte intermedialità, con la famosa social top ten (un best of fatto di tweet) e la costante interazione con i social (con gli hashtag proposti in diretta), o “il momento feedback”, cioè lo spazio a fine trasmissione per i commenti sulla puntata. Anche il Movimento Arturo nasce dalla capacità di muoversi su piattaforme diverse. Ma la presenza del pubblico in studio è fondamentale. Una cinquantina di persone a puntata, in uno studio piccolo che, a rispettare lo stereotipo, in tv sembra molto più grande. Andare in studio a vedere una puntata di Gazebo è innanzitutto un modo per trovarsi in mezzo ai propri simili. Chi scrive ha assistito alle puntate di un venerdì autunnale, rimanendo stupito, tra l’altro, dall’ambiente familiare che si respira, lo stesso che emerge guardando il programma.

Siamo in diretta dal Teatro delle Vittorie a Roma (storico spazio Rai, ma dal febbraio 2016 c’è stato un trasferimento allo Studio 3 di via Teulada), ma si entra come se si andasse in un teatro off vicino a casa, dove ci si conosce un po’ tutti, i responsabili del programma danno pochissime indicazioni gentili, gli autori e i protagonisti scambiano volentieri due chiacchiere e naturalmente si prestano agli immancabili selfie. Ci si siede vicinissimo ai conduttori, gli ospiti (fissi e occasionali) sono addirittura in mezzo al pubblico. L’età media è sui 35 anni. Si ha, davvero, il senso della community, di un traslare una comunità televisiva e social in un incontro dal vivo. Prima della puntata, Zoro e Missouri4 cazzeggiano con il pubblico, scambiano battute, ironizzano sulla provenienza (specie per chi viene da fuori Roma, o da lì vicino: “tooo dico, Monte Porzio Catone nun è Roma, poi ce fai brutta figura”), ed è un modo probabilmente per caricarsi e scacciare la tensione, e caricare un po’ anche il pubblico. Molti gli inviti a tornare, sia dal vivo che sui profili social – la pagina Facebook del programma conta quasi trecentomila like – e sul sito, e in effetti alcuni non sono alla loro prima presenza (“ah sì che sei già venuta, me ricordo”). È un pubblico che sicuramente è andato ben oltre i confini del Grande Raccordo Anulare, anche se Gazebo è ancora un programma fortemente romano – ed è un punto di forza, specie per quanto ci scherzano in studio, “facciamoci capire oltre il GRA”.

Va notato che in studio è in scena un piccolo show che integra quello televisivo, ma non ne è lo specchio perfetto. La presenza di Missouri4, per esempio, è molto più marcata. Il pubblico della trasmissione, infine, è mobilitato attivamente anche come “inviato speciale” per quelle occasioni in cui Gazebo non può mandare i suoi, per esempio nelle visite negli Stati Uniti di Renzi (“Renzi in a day”) o di altre personalità, in cui gli spettatori mandano brevi video ironici, integrati direttamente in puntata. Si è creata, anche prima di Arturo, una comunità autorganizzata di Gazebers in the world, gruppo che su Facebook conta oltre 2000 partecipanti, con attività giornaliere, legate al programma e oltre. Ancora, siamo di fronte a un lavoro interessantissimo di unione di componenti televisive e social, di partecipazione attiva del pubblico (una participatory audience) e di impronte autoriali. E gli stessi autori sono un mix di personalità con carriera tv ed emersi grazie al web.

Siamo in diretta dal Teatro delle Vittorie a Roma, ma si entra come se si andasse in un teatro off vicino a casa, dove ci si conosce un po’ tutti, i responsabili del programma danno pochissime indicazioni gentili, gli autori e i protagonisti scambiano volentieri due chiacchiere e naturalmente si prestano agli immancabili selfie.

Il cazzeggio politico

Dalla satira politica, forse l’area in cui Bianchi si muove in maniera più agile, molti temi si sono aggiunti, in primis l’immigrazione, i terremoti e le tematiche relative al lavoro. Con i reportage dalle zone calde per i migranti in Europa (Calais, Grecia, Ungheria) e quelli da L’Aquila o più di recente da Amatrice e dal Centro Italia, Gazebo adotta uno stile marcato, a metà tra il cazzeggio e un’invidiabile capacità di analisi, che si potrebbe definire forse gonzo journalism, se non fosse una definizione abusata. L’attenzione alle fabbriche che chiudono, le acciaierie di Terni su tutte, è tale che nelle prime puntate del nuovo Gazebo c’era una breve striscia ironica, Un posto Alcoa (dal nome della fabbrica sarda in smantellamento), con annessa cover in sardo della sigla di Un posto al sole.

La trasmissione è cambiata anche per adattarsi ai nuovi orari: la tradizionale seconda serata, la fascia oraria più consona a certi contenuti e modi di Gazebo, che rimane comunque per una puntata al venerdì, ha lasciato il posto alla prima serata per alcuni speciali e da quest’anno alla striscia preserale in onda per tre giorni a settimana. Puntate brevi, sotto i venti minuti, dove lo spazio per gli approfondimenti è pochissimo – fatta eccezione per alcuni commenti giornalistico-politici degli ospiti in studio o in collegamento – e si gioca soprattutto sui social network, dove gli spettatori di Gazebo sono una nicchia stabile e affezionata. Per molti di noi, affezionati spettatori, magari emigrati all’estero, magari in fusi orari diversi, Gazebo più che un programma televisivo resta un mix tra web e tv, anche nella sua fruizione.

Forse per capire cos’è davvero Gazebo vale la pena tornare a due componenti fondative della carriera di Bianchi: il Grande fratello e l’esperienza politica nel Pci, e soprattutto nella Fgci, che non è, come racconta nella prima puntata di Tolleranza Zoro, la Federazione Giuoco Calcio Italiana, ma la Federazione Giovanile Comunista Italiana. Politica e reality, mainstream e nicchia, cazzeggio e approfondimenti: dopo nove anni restano le basi e i punti di forza dell’ultima creatura di Bianchi. Siamo oltre la satira, anche se ci sono punti in comune con i programmi di Dandini-Guzzanti o di Crozza; di sicuro siamo dalle parti della politica pop. Bianchi, in un’intervista a Repubblica, dice che Gazebo “è diventato un contro-tg, con una sua autorevolezza. Peschiamo nei social, perché lì siamo nati”. Secondo Antonio Tramontana, sulla rivista accademica Im@go, le due cifre del programma sono la marginalità e l’improvvisazione: nel senso dell’attenzione non a ciò che accade sul grande palco della politica, ma dietro, sotto, di fianco; il focus sul “circo mediatico” che segue la politica per raccontare però la politica stessa, e non altro, solo approcciandola con taglio diverso.

Non stupisce allora il successo di un esperimento giocoso come il Movimento Arturo, cresciuto a dismisura e in un certo senso fuori controllo, che in pochi giorni ha raggiunto numeri incredibili e ha visto fondare “sedi” locali ed estere, fatte da appassionati che sono stati al gioco e hanno creato profili Twitter da Toronto allo Zimbabwe, da Abbiategrasso a Volterra. Cos’è allora Arturo? Un gigantesco prank? Un simpatico scherzo riuscito? “Puro cazzeggio”, come ha scritto La Stampa? Un po’ di tutto questo, e poi la forza di una comunità in espansione, che è passata dal puro commento o dalla presa in giro bonaria dei partiti politici al cercare di fare politica, sia pure in modo giocoso e inusuale.


Luca Peretti

È dottorando a Yale University. Si occupa soprattutto di storia del cinema italiano. Collabora con giornali e riviste.

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