immagine di copertina per articolo Il successo della bontà nelle serie tv
Serie TV

Il successo della bontà nelle serie tv

Mentre guardavamo agli antieroi delle cable, i network rispondevano con protagonisti troppo perfetti, da This Is Us a The Good Doctor. Elogio della bontà televisiva.

Sappiamo tutti cosa succede ogni volta che esce una serie cattiva con un protagonista cattivo che fa cose cattive. Arriva subito qualcuno a protestare: oddio i camorristi, oddio la droga, oddio i nostri bambini. Il nesso causale tra la rappresentazione della violenza e quello che avviene nel mondo reale non è mai stato dimostrato (e mai lo sarà), eppure autori e showrunner sono spesso costretti a giustificarsi per crimini che non hanno commesso. Ma è mai accaduto il contrario? Qualcuno si è mai lamentato della troppa bontà? Qualche associazione di cattivi ha mai contestato il nefasto influsso che le buone azioni, gli “scusa, non volevo”, gli abbracci e le riconciliazioni hanno sui nostri comportamenti? Evidentemente no, anche perché, diciamolo, le buone notizie fanno notizia solo in negativo. “Giocatore tira volontariamente fuori un calcio di rigore perché il fallo non c’era”. Invece di cliccare sull’ennesimo video da colonnino destro dovremmo chiederci: perché ci colpisce tanto? Perché abbiamo bisogno di ricordarci che esiste ancora della brava gente? In altri termini: se la violenza non fa male a nessuno, la bontà invece può essere emulativa, specialmente attraverso il filtro della finzione? Qualcuno crede di sì.

La tv generalista americana è sempre stata un trionfo di buoni sentimenti e famiglie felici che si assomigliano tutte. La bontà è sempre andata di pari passo con la semplicità della struttura di un episodio qualsiasi, ovvero: quotidianità, conflitto, riconciliazione, vogliamoci bene. Ma anche per preparare un buon bagno caldo ci vuole talento, fatica, abnegazione.

Un bel bagno caldo

This Is Us (Nbc) e The Good Doctor (Abc) sono le due novità di maggiore successo degli ultimi anni. Mettono in scena personaggi che non farebbero male a una mosca, eroi vecchio stampo senza macchia ma con molte paure. Hanno saputo registrare numeri che sui grandi network parevano ormai irripetibili, grazie anche a una capacità immediata di fidelizzazione. Entrambe rientrano perfettamente in una definizione che circola da qualche tempo: warm bath tv, ovvero un intrattenimento televisivo capace di rassicurare e tranquillizzare gli spettatori come un bel bagno caldo alla fine di una lunga giornata.

A tal proposito, Jason Clodfelter, dirigente di Sony Pictures Television, dichiarò che il mondo è già talmente complicato che le serie tv devono alleggerire l’esasperata conflittualità: When you love your characters and the world and sense of tone, you don’t need an insane amount of plot to put into 42 minutes of television” (ogni riferimento a fumettoni isterici come Scandal e How to Get Away with Murder è puramente casuale). Clodfelter parlava evidentemente dei network, che negli ultimi anni hanno perso la bussola, sorpassati prima dai cable e poi dallo streaming nella capacità di intercettare gusti, manie e passioni del pubblico. Per un po’ hanno cercato di inseguirli sul terreno del reale, dunque della diversificazione dei generi e degli antieroi. Ma, giusto per fare qualche esempio, sui network non si può bestemmiare, non ci si può drogare in santa pace, non si può fare niente. E dunque? L’unica è tornare ai fondamentali.

Da un lato il confortevole nostos verso un passato felice (da cui l’inarrestabile vague di revival come Roseanne, Will & Grace, Mad About You e chissà quanti altri ancora), dall’altro l’imprevista affermazione di show buoni come This Is Us e The Good Doctor. L’ormai consolidata seriefilia affonda le radici in una fruizione a cadenza settimanale che per decenni ha accompagnato gli spettatori occidentali. Ciò che le generaliste hanno sempre saputo fare, e di cui hanno e avranno ancora bisogno, è strutturare un racconto attorno a delle abitudini narrative che possano fondersi con il consumo: feste comandate, compleanni, riunioni familiari, ricongiungimenti. This Is Us (il cui titolo sarebbe potuto essere, senza ironia, The Good Family) riprende questa tradizione e si afferma sin da subito grazie al suo concept di base: la vita di una famiglia attraverso diverse generazioni. Si presenta come una serie anni Settanta che abbiamo in qualche modo già visto, e allo stesso tempo come il suo naturale sequel qualche decennio dopo. Due piccioni con una fava. Ma con una differenza sostanziale rispetto al passato.

La tv generalista americana è sempre stata un trionfo di buoni sentimenti e famiglie felici che si assomigliano tutte. Chi non ha mai sognato un padre come Charles Ingalls de La casa nella prateria, che di giorno andava a spaccare la legna in camicia e bretelle e poi tornava a casa ad accudire figlie cieche e mogli premurose tra procioni e scoiattoli? La bontà è sempre andata di pari passo con la semplicità della struttura di un episodio qualsiasi, ovvero: quotidianità, conflitto, riconciliazione, vogliamoci bene. La grande lezione della prima e seconda golden age seriale ha però lasciato delle tracce. Si può mettere la bontà al centro rimanendo al contempo complessi (come nel caso delle varie linee temporali di This Is Us). Facile a dirsi. La cattiveria e il male, si sa, sono infinitamente più affascinanti per gli spettatori, e prima ancora per chi scrive. Al contrario, i buoni sentimenti potrebbero far passare la voglia non tanto di fare questo mestiere ma proprio di vivere (quando lavoravo per una fiction Rai mi chiesero di scrivere una scena in cui la moglie di un pescatore siciliano, donna pia e devota, pregava la Madonna nella sua stanza da letto. Volevo spararmi). Ma quello che i critici non capiranno mai a proposito dei prodotti popolari è che anche per preparare un buon bagno caldo ci vuole talento, fatica, abnegazione.

immagine articolo

Sono perfetto dunque soffro

Il Sacro Graal di ogni autore televisivo si chiama identificazione, o meglio immedesimazione. Dal Miglior Drama Ever al feuilleton quotidiano, tutti cercano di agganciare lo spettatore, in un modo o nell’altro. È quello che esigono i committenti, e in un certo qual modo anche il pubblico. Non si può prescindere dai personaggi e dai relativi fatal flaw. L’intuizione di This Is Us e The Good Doctor è di porsi come fine l’immedesimazione attraverso i mezzi dell’utopia e dell’ideale, incarnati da veri e propri supereroi della bontà, da amare e stringere forte forte come e più di un parente.

Randall Pearson ha 36 anni, è stato adottato da una famiglia di Pittsburgh e ha un irrisolto rapporto con il padre adottivo e il padre naturale. Il suo problema? È perfetto. Guadagna molti soldi, ha un fisico d’acciaio e tutti lo amano. “Non ha vizi, il suo unico vizio è la bontà, la sua spinta verso la perfezione”, dice di lui la moglie Beth. Un personaggio su carta insopportabile. Chi vorrebbe un marito, padre, fratello del genere? Ma il bello della finzione è che puoi fare il furbo, usando tutte le tecniche che vuoi. Da dove viene questa straordinarietà? La risposta sta nei flashback (e nei flashforward: ciao Lost): Randall neonato, piccolo, adolescente problematico come tutti, giovane adulto, anziano. Randall è capace di tutto, anche di convincere un suo conoscente a non suicidarsi “perché non può succedere niente di brutto la vigilia di Natale”. Il superpotere di Randall è il prisma attraverso cui osserviamo le vite degli altri personaggi e che permette di digerire storyline insopportabili come il dimagrimento della sorella o la dipendenza da farmaci del fratello. Ma “essere il migliore” presenta un conto da pagare: il crollo nervoso alla fine della prima stagione è uno dei momenti più duri da sopportare per noi spettatori proprio perché avevamo creduto in lui. “Randall non puoi spezzarti. Se tu ti spezzi noi come facciamo?”.

C’è anche chi è perfetto senza volerlo. Shaun Murphy è un giovane e brillante medico chirurgo. Di più, un genio. Sa pensare fuori dagli schemi e trovare la soluzione a qualsiasi rebus medico. Soffre anche di una sindrome autistica che lo condiziona a livello sociale e lo rende diverso dagli altri. Shaun dice tutto ma proprio tutto quello che pensa, compie azioni che nessuno si sognerebbe di mettere in pratica. È un candido, e come tale indifeso. David Shore, autore di The Good Doctor, ha dichiarato che non si aspettava il successo immediato della serie e che avrebbe preferito una risposta più graduale da parte del pubblico (come nel caso di House, la sua indimenticata hit). Evidentemente la scelta di un personaggio così buono, che non sa badare a se stesso ma sa badare agli altri, ha subito fatto presa sugli spettatori, stimolando una sorta di identificazione al contrario: non sarò mai come Shaun, ma la sua sincerità può aiutarmi ad affrontare le mie difficoltà quotidiane. A fronte di una costruzione abbastanza classica, The Good Doctor diventa molto più incisivo quando introduce la cattiveria nella vita senza intoppi di Shaun, tramite un vicino di casa che sfrutta la naïveté del nostro eroe per motivi puerili e dunque ancora più gratuiti. L’obiettivo è sottoporre lo spettatore a un vero e proprio ricatto emotivo: come si fa a voler male a qualcuno di così buono?

Una domanda analoga aleggia in Rise, serie che nei desideri dei dirigenti Nbc avrebbe dovuto prendere il testimone del warm bath da This Is Us (purtroppo senza gli stessi risultati di ascolto). Scritta da Jason Katims, già autore di masterpiece della bontà come Friday Night Lights e Parenthood, racconta la vita di un liceo di provincia tra match di football e musical. Protagonista è il professor Lou Mazzucchelli, eccellente guida morale per i suoi studenti ma a quanto pare non per il suo primogenito alcolizzato. Attorno a lui un gruppo eterogeneo di personaggi che potremmo definire “united colors of minoranze”. Pensate a ogni possibile combinazione di margine, moltiplicate per Glee, e avrete un quadro pieno di adorabili nerd. Si può rimproverare a Rise una certa ripetitività (i discorsi motivazionali del professore), ma di certo non la volontà di mettere in scena un mondo che ancora non esiste ma a cui tutti dobbiamo aspirare: in quale universo un padre organizza una festa per il proprio figlio e alla fine chiama un Uber per tutti gli amici adolescenti che hanno bevuto troppo?

Family, medical, teen: certo che è possibile scrivere e raccontare la bontà, a patto di spingere l’acceleratore fino in fondo (fateci piangere, ma fatelo per bene). Al pari di Shaun Murphy che non coglie le battute perché strutturalmente incapace di farlo, anche queste serie non possono permettersi secondi livelli di lettura, pena la rottura del patto con lo spettatore. Devono solo produrre plot a basso voltaggio a partire dalle cose minime quotidiane che accadono a chi, come Randall, è impegnato nella propria ricerca di perfezione. Molto probabilmente tutta questa illogica bontà non cambierà i destini dell’umanità né susciterà insani desideri di imitazione, ma ogni tanto potrà alleviare le difficoltà e gli orrori del mondo là fuori. Esattamente come fa un bel bagno caldo.


Nico Morabito

Palermitano e parigino. Coautore dei film La Dernière Séance (presentato alla Settimana della critica della Mostra di Venezia 2021 e vincitore del Queer Lion) e Fuori Tutto (Miglior documentario italiano al Torino Film Festival 2019). Ha collaborato alla scrittura del film Le Favolose (presentato alle Giornate degli autoridella Mostra di Venezia 2022). È professore a contratto all’Università di Paris Nanterre, dove tiene un corso di scrittura audiovisiva dal 2019.

Vedi tutti gli articoli di Nico Morabito

Leggi anche

Restiamo in contatto!

Iscriviti alla newsletter di Link per restare aggiornato sulle nostre pubblicazioni e per ricevere contenuti esclusivi.