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Fiction

L’eredità delle serie israeliane

I figli nati dal successo internazionale di BeTipul (In Treatment) e Hatufim (Homeland), in patria e nel mondo.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 21 - Distretti produttivi emergenti del 05 giugno 2017

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Nell’ultimo decennio, la fiction israeliana esce dai confini locali grazie a una campagna promozionale che ne esalta l’impulso creativo e l’originalità. E così, mentre alcune serie di particolare successo sono adattate e riproposte in diversi contesti culturali, altre sono esportate e trasmesse in doppiaggio o con i sottotitoli. Non è solo il prodotto a essere esportato, tuttavia, ma gli stessi showrunner israeliani negli ultimi anni si sono imposti fra le forze creative di maggior rilievo nell’industria tv americana.

Tutto inizia nel 2005, quando Hot 3 trasmette la prima stagione di BeTipul, la serie che, dopo aver riscosso un enorme successo locale, è acquistata da HBO, che ne produce un primo adattamento, In Treatment (2008-2010), a cui ne fanno seguito molti altri sia in Europa sia in America Latina. La formula di BeTipul è riproposta molto fedelmente nei suoi adattamenti: la programmazione in striscia giornaliera di 30 minuti in episodi che mostrano le attività settimanali di uno psicoterapeuta costituisce una vera e propria rivoluzione formale, soprattutto nell’ambito televisivo americano. Rivoluzione legata all’uso di un formato breve che, fino ad allora, su HBO era stato esclusivo appannaggio di comedy come Sex and the City ed Entourage, e alla programmazione su striscia giornaliera infrasettimanale, da sempre limitata al daytime delle soap opera, e dunque solo associata ai network. A tutt’oggi In Treatment rimane l’unico esperimento di stripping di HBO, che preferisce limitare la sua programmazione seriale alla domenica sera. La rivoluzione di BeTipul va ben oltre, tuttavia, i constraints formali che lo caratterizzano: è nell’intimismo e nel corrispondente studio di carattere che vanno ricercati gli elementi che ne determinano il successo universale. La ciclicità della narrazione riconfigura intra ed extra-diegeticamente il concetto mediatico di appointment television: ogni spettatore è invitato a identificarsi, o per dirla con Murray Smith, a sviluppare un diretto coinvolgimento sia con l’analista che con il paziente, ritratti in un’immobilità che ben facilita rispecchiamento e introspezione. E ogni adattamento di BeTipul resta fedele non solo al formato della serie, ma al carattere archetipico delle storie che narra, adattandone i personaggi ai diversi contesti culturali pur muovendosi nello stesso itinerario narrativo, comune a tutti gli adattamenti. Creata da Hagai Levi, che ne segue da vicino anche i suoi molti remake, BeTipul inaugura una tradizione televisiva seriale che sembra avvicinarsi, nel privilegiare l’introspezione all’azione, alla tradizione letteraria del roman d’analyse.

A promuovere BeTipul negli States è Noa Tishby, attrice, produttrice e presidente di Act for Israel, piattaforma digitale mirata alla promozione della causa sionista: dopo aver venduto BeTipul a HBO, tenta la sorte con A Touch Away (2006), riscrittura di Romeo and Juliet calata nelle tensioni locali fra ebrei ortodossi e immigrati russi. A dispetto del grande successo locale, dovuto in parte al coraggio con cui erano affrontati argomenti così sensibili, un adattamento anglofono di A Touch Away si rivela impossibile. Come per Srugim (2008-2012) e Another Life (2010), che avevano affrontato questioni identitarie legate a un ebraismo in conflitto fra ortodossia e secolarismo, A Touch Away è diffusa su piattaforme digitali globali in versione sottotitolata, ma non raggiunge il pubblico di massa. Ben diversa è la sorte di Hatufim (2010-2012), creatailm Institute che, al rientro in patria, decide di riproporre sullo schermo, attraverso un filtro politico che ben si presta alla realtà di Israele, lo straniamento di chi ritorna dopo molti anni di assenza. La figura archetipica di Rip Van Winkle è così calata nello specifico della storia locale e dei suoi conflitti bellici con le nazioni confinanti. Raff mette al centro della narrazione tre prigionieri di guerra israeliani, tenuti in ostaggio in Libano per 17 anni. La serie si apre sul rientro di due di loro, frutto di lunghe negoziazioni: il terzo, inizialmente creduto morto, è in realtà rimasto in Libano, entrato a far parte dell’organizzazione che l’aveva rapito, e forse convertito all’Islam. Inizialmente criticato con grande asprezza, Hatufim si rivela un grandissimo successo, di facile esportazione sia in versione originale che come scripted format. Quando Howard Gordon e Alex Gansa, autori di svariati episodi di X-Files e produttori esecutivi di 24, sono affiancati a Raff per la stesura di Homeland (2011-), adattamento americano di Hatufim, la serie israeliana subisce una drastica rivisitazione che ne altera in modo significativo i contenuti. Se in Hatufim dominava l’elemento introspettivo già identificato anche in BeTipul, poiché la prima stagione era soprattutto dedicata a raffigurare il difficile percorso di riambientamento dei due prigionieri di guerra, prestando particolare attenzione al dramma vissuto dalle loro famiglie, Homeland sposta il suo focus adottando codici di genere legati a quelle spy e conspiracy stories ben più vicine a 24 e a X-Files. Se in Hatufim è il trauma a dominare la narrazione, in Homeland il tema dominante è la paranoia, così frequente nel dopo 9/11. Homeland non sembra lasciare alcuno spazio di coinvolgimento spettatoriale con l’ex prigioniero di guerra: la narrazione è cooptata interamente dalla presenza di un’agente CIA che lo sospetta di tradimento, e la cui percezione paranoide si complica ulteriormente nel momento in cui, sin dalle prime sequenze, si rivela la sua bipolarità. Scritta dopo la messa in onda e il successo internazionale della prima stagione di Homeland, la seconda annata di Hatufim è profondamente influenzata dal diverso script della serie statunitense: cambiano sia il ritmo sia il tono narrativo, che si avvicinano pericolosamente a quello di Homeland. Lo scavo psicologico della prima stagione lascia il passo a una narrazione dai tempi serrati, mirata a stabilire le cause della mancata restituzione del terzo prigioniero, e il suo possibile coinvolgimento in azioni terroristiche.  Nonostante il grandissimo successo di tutte e due le stagioni di Hatufim sia in Israele che in molti paesi europei, dove la sua superiorità a Homeland è stata più volte celebrata dalla stampa, non c’è notizia di una possibile terza stagione, anche perché Gideon Raff, oltre a essere ancora legato a Homeland, di cui si prepara la sesta stagione, si è dedicato a produzioni americane ambientate sul suolo israeliano o mediorientale.

Era inevitabile che il successo di Homeland spingesse l’industria televisiva americana a cercare nuove possibilità di adattamento di serie israeliane.

Era inevitabile che il successo di Homeland spingesse l’industria televisiva americana a cercare nuove possibilità di adattamento di serie israeliane. In una mossa forse azzardata, la CBS investe su Hostages (2013), dramma in 15 episodi ispirato a una serie che in Israele va in onda in contemporanea. A dispetto della presenza di un cast di grande rilievo (Toni Collette, Dylan McDermott, Tate Donovan), la serie americana è un grande fallimento, forse perché il ritmo serrato con cui si narra la presa in ostaggio dell’intera famiglia di un chirurgo, che durante un intervento di routine sul presidente degli Stati Uniti è chiamata a lasciarlo morire, risulta di magra attrattiva per l’audience di CBS, tradizionalmente legata a programmi a basso tasso di serialità come CSI e NCIS. Punita da pessimi ascolti e subito cancellata, la versione americana di Hostages si trova a competere sul mercato internazionale con l’originale israeliano, che riceve accoglienza trionfale sia in Francia sia nel Regno Unito. In entrambi i casi, tuttavia, a motivare il successo del programma israeliano è probabilmente la diversa collocazione in palinsesto, visto il diverso target di BBC4 e SkyArts. Un anno dopo, nel 2015, NBC ordina l’adattamento di The Gordin Cell (2012-2013), serie di punta di quella stessa Keshet che aveva prodotto Hatufim. Come BeTipul, The Gordin Cell è adattata in più paesi, ma la versione americana, Allegiance, incontra difficoltà ancora maggiori di Hostages. La storia di due ex agenti del KGB infiltrati da decenni negli Stati Uniti (nell’originale, era in Israele) e chiamati in azione dopo un lungo periodo di inattività, non può che impallidire nel raffronto con The Americans, serie apprezzata da pubblico e critica, che tratta argomenti simili con ben altra profondità. Accolta come una versione light di The Americans, Allegiance è cancellata dopo cinque episodi e spostata sulla piattaforma digitale Hulu, dove settimanalmente escono le otto puntate rimaste.

Nonostante il grande successo di Hatufim e Homeland, anche Gideon Raff stenta a promuovere serie create ad hoc per l’industria americana. Dig (2015), event series commissionata da USA Network, ambientata a Gerusalemme ma girata altrove per i conflitti nella striscia di Gaza, è un insuccesso principalmente a causa della scarsa credibilità di una trama che sembra riciclare meccanismi narrativi alla Dan Brown. Creata insieme a Tim Kring, autore di Heroes, Dig soffre degli stessi eccessi di complessità narrativa che, dopo un iniziale successo, avevano gradualmente alienato gran parte dell’audience di Heroes, e che più recentemente hanno decretato l’insuccesso del sequel Heroes Reborn. Diverso invece il destino di Tyrant (2014-2016), ideata da Raff per FX, con Howard Gordon come produttore esecutivo: inizialmente destinata a esser diretta da Ang Lee, che avrebbe dovuto condividerne la produzione esecutiva, Tyrant sembra deludere le aspettative di critica e pubblico, non convinti da una rappresentazione stereotipata dei conflitti dinastici di una fantomatica nazione mediorientale sull’orlo della rivoluzione. Dopo un sorprendente rinnovo per una seconda stagione, Tyrant è oggetto di un vero e proprio reboot, in cui sono messi in secondo piano gli aspetti melodrammatici del genere a favore di una narrazione essenzialmente centrata sulla rappresentazione dell’incombente pericolo di ISIS. In questi termini, Tyrant è parsa forse più credibile e contemporanea delle ultime stagioni di Homeland, che ha trattato simili argomenti favorendo il genere alla sostanza. Deludente è però la terza stagione, che si perde in una narrazione caotica dai toni esasperati, travolgendo continuità narrativa e coerenza interna dei personaggi principali: la cancellazione appare dunque inevitabile, ed è annunciata in contemporanea alla messa in onda dell’ultimo episodio.

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Il cast di BeTipul

Presentato in anteprima internazionale al Festival di Berlino del 2015, dove incontra il favore di critica e pubblico, False Flag è l’ultima spy story israeliana a essere esportata in 127 paesi e destinata a un adattamento in lingua inglese, all’indomani dell’acquisizione di Fox International. Ripped from the headlines, la serie Keshet creata da Maria Feldman e Amit Cohen narra la storia di cinque cittadini israeliani con doppia nazionalità accusati di aver rapito il Ministro della Difesa iraniano in visita in Russia. Ispirato all’uccisione di un colonnello di Hamas a opera di agenti Mossad che agirono indisturbati sotto mentite spoglie, per poi essere smascherati ma mai consegnati alla giustizia, False Flag cattura lo spettatore con una narrazione “reticente” che, pur a ritmo sostenuto, si sofferma sullo studio di carattere, sciogliendo gradualmente l’enigma rappresentato da tutti e cinque i protagonisti, e dalle organizzazioni che si muovono alle loro spalle. Ancor più direttamente centrata sulle tensioni israelo-palestinesi è Fauda (Lior Raz-Avi Issacharoff, 2015), prima serie israeliana a venire distribuita globalmente come Netflix original series. Inizialmente trasmessa su Yes e rinnovata per una seconda stagione, Fauda segue le attività di una squadra anti-terrorismo alla ricerca di un guerrigliero di Hamas che sta preparando un attacco chimico su Tel Aviv. Come in Hatufim, grande enfasi è posta non solo sui protagonisti, ma sulle loro famiglie e gli studi di carattere che ne risultano, sia in ambito israeliano che palestinese, hanno fatto sì che la serie fosse accolta con grande calore sia in Israele sia in Palestina. Fauda si sofferma con uguale attenzione sulle due realtà, e i suoi personaggi alternano l’ebraico all’arabo, muovendosi in continuazione fra le due lingue. Già dal titolo, dall’arabo “caos”, la serie israeliana evoca con toni realistici di alta drammaticità la condizione di due popoli in costante conflitto: è il prezzo che paga l’individuo, da una parte e dall’altra, a costituire il vero focus di una narrazione che non risparmia allo spettatore ripetuti episodi di feroce brutalità. Agli antipodi di queste due serie è invece Yellow Peppers (Karen Margalit, 2014), la dramedy targata Keshet che ha dato spunto al felicissimo adattamento di BBC The A Word (Peter Bowker, 2016) e a un’ancora più recente versione greca, The Word You Don’t Say. Comune a tutte le versioni è il ritratto, venato di bonario umorismo, di una famiglia allargata che impara lentamente a confrontarsi con l’autismo del figlio, tirato su in una comunità essenzialmente agricola, lontana dai supporti specifici tradizionalmente offerti nei centri urbani. Così come BeTipul, nelle sue diverse declinazioni, aveva saputo trarre spunto creativo dalle diverse realtà locali in cui era stato adattato, Yellow Peppers riesce ad affrontare un tema sensibile di rado discusso nell’ambito della serialità telesiva, calandosi nelle differenti connotazioni legate alla tensione binaria fra territorio agricolo e territorio urbano.

Concludiamo l’excursus tornando ad Hagai Levi, creatore di BeTipul, che dopo In Treatment è rimasto attivo negli Stati Uniti, e fedele al desiderio di sperimentazione e all’interesse per i personaggi. In questo contesto si può considerare l’unicità di The Affair (2014-), creato da Levi con Sarah Treem, che lo aveva già affiancato nella versione americana di In Treatment. Una storia apparentemente banale, la relazione extraconiugale fra uno scrittore e una giovane cameriera, è trasformata radicalmente dal format in cui viene rappresentata: rifacendosi a una tradizione che risale a Kurosawa, Levi e Treem scelgono di presentarci la storia in soggettiva multipla, in un he said/she said che ci mostra come la memoria e il filtro della coscienza dipanino in maniera radicalmente differente la matassa degli eventi di cui due personaggi si fanno protagonisti. Sempre diviso in due sezioni, ogni episodio mostra la stessa storia dai due punti di vista, ora sovrapponendoli sulla stessa cronologia, ora lasciando che i ricordi di uno inizino là dove terminano quelli dell’altra. La seconda e la terza stagione complicano ancora i meccanismi narrativi aggiungendo altre tre prospettive, quelle dei partner abbandonati dalla coppia dei protagonisti e di una donna che intrica ulteriormente i loro rapporti: al centro dell’intera storia, un enigma presentato in cornice a ogni episodio, la cui soluzione si sviluppa con sapiente lentezza lungo l’arco delle prime due stagioni per poi lasciare uno strascico di conseguenze da cui parte la terza. È la rivoluzione della tv in soggettiva, dell’enfasi posta su una coscienza narrante in costante conflitto, già protagonista di BeTipul, allora, a costituire la legacy più solida della tv israeliana nelle sue molteplici declinazioni e permutazioni. È la scelta dell’introspezione, favorita all’azione da sempre prediletta dalla tv statunitense di maggiore esportazione globale, a essere premiata e a dimostrare quanto, in un ambito potenzialmente conservatore come la fiction, che da sempre stenta ad allontanarsi dal già noto, la sperimentazione possa trovare un suo spazio importante.


Giancarlo Lombardi

Professore ordinario di Letteratura Italiana e Letterature Comparate alla CUNY - City University of New York (College of Staten Island e Graduate Center), si occupa principalmente di Film e Television Studies.

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