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Showrunner

Ryan Murphy: il sogno di un freak

Showrunner che rende oro ciò che tocca, che sbaglia e si rialza, perdente di successo che dà voce ai perdenti. Profilo dell’autore di American Horror Story, e tanto altro.

A un primissimo sguardo, il giovane signore conosciuto come Kai Anderson potrebbe essere il classico anti-eroe alla Ryan Murphy: è spavaldo, irruento, ostenta sicurezza di sé e fiducia nella bontà assoluta dei suoi obiettivi; tratta le persone che lo circondano come uno stormo di utili idioti, facili da manipolare, ancor più facili da piegare. Però, stavolta, Kai è un cattivo in piena regola. Il cattivo. Un sostenitore di Donald Trump, che festeggia la notte dell’elezione, cerca di installarsi nel consiglio comunale della città con una piattaforma inneggiante a legge e ordine, e intanto raccoglie adepti tra i familiari e i compaesani formando una setta di assassini. Con la nuova stagione di American Horror Story (Cult), Murphy rinuncia in apparenza a quello che gli è sempre venuto meglio, la sua firma elettrica: costruire personaggi sopra le righe per cui allo spettatore viene chiesto (o imposto) di parteggiare, magari infami e scorretti, magari anche tragici nelle loro colpe, ma sotto sotto ammirevoli perché “sanno chi sono”, “dicono le cose come stanno”. Molto bene: il personaggio sopra le righe stavolta è un mostro. Non lo si può nemmeno ammirare per la convinzione con cui insegue i suoi sogni.

Difficile capire se questa scelta rappresenti una sorta di evoluzione morale nel percorso di Murphy, una presa di responsabilità dopo il gigantesco salto in avanti rappresentato da American Crime Story: Il caso O.J. Simpson. Se al centro della scena ci fosse solo Kai, verrebbe da pensare di sì. Ma la storia ha anche un’eroina buona, Ally Mayfair-Richards, che è una caricatura totale: una donna bianca, gay, liberal, ricca e privilegiata, terrorizzata da tutto, piena di fobie bizzarre che il neo-presidente sta solo aggravando, non causando. Con lei non ci si identifica, la si subisce, anche se le sue idee politiche sarebbero più vicine a quelle dichiarate da Murphy. Forse Cult è un lungo gioco intorno al concetto di “personaggio”, una maniera come un’altra di espiare in favore di camera il peccato imperdonabile dell’essere uno showrunner brillante, un grosso nome, adorato e detestato in uguale misura. Uno che ce l’ha fatta. Uno talmente famoso da scavalcare le sue singole produzioni, e talmente visibile da rendere molto complicata la separazione – in teoria necessaria – tra il creatore e le sue opere.

A Murphy non interessa tanto giocare con le bambole, quanto fabbricare una bambola e sistemarla in una casa su misura. Poi, quando si tratta di giocare sul serio, lui perde interesse, lascia andare, passa alla prossima bambola.

Come siamo arrivati a questo punto? Perché stiamo ancora guardando?

La prima serie televisiva scritta e prodotta da Ryan Murphy si chiamava Popular, e andava in onda su una rete, WB, che alla fine degli anni Novanta stava vivendo una stagione di successo grazie a telefilm interscambiabili con e per adolescenti bianchi. Popular era una commedia, a grandi linee, ma conteneva, in nuce, tutto il futuro metodo di lavoro del suo creatore. In un paesaggio affollato di personaggi convenzionali – sfigati contro fighetti, bionde contro brune – ce n’era uno che rubava la scena a tutti: Mary Cherry, sguaiata anche se religiosissima, figlia succube di una miliardaria pazza, fissata con le pellicce, fiera di esibire la propria “bellezza dai tratti esotici” e determinata a imporre il suo assurdo stile di vita ai compagni di liceo che a stento la sopportavano. Mary Cherry era un’anomalia a cui Murphy si dedicava molto: a differenza di quello che gli sarebbe accaduto dopo, con il successo di massa e la bulimia produttiva, lui aveva sia il tempo sia il desiderio di passare giorni interi sul set. Il lato buffo stava nel come. Stando ad alcuni resoconti del periodo, di cui online non resta traccia, Murphy era ossessionato da Mary Cherry. Scriveva sempre lui il personaggio, senza permettere a nessuno sceneggiatore di metterci bocca, e prima di ogni ciak ripeteva le battute parola per parola, obbligando l’attrice Leslie Grossman a pronunciarle esattamente come faceva lui, con le stesse pause precise e con quel truce accento del Sud che sembrava una parodia dei melodrammi anni Sessanta. Il personaggio era la bambola viva del suo creatore, doveva muoversi, parlare, respirare, sbattere gli occhi. L’investimento fu ripagato dal risultato. Mary Cherry funzionava fin troppo bene. Se qualcuno oggi si ricorda di Popular, è grazie a lei. Solo: aveva un senso, tutta quella maniacalità, applicata a un personaggio minore con poco peso nella storia? Valeva la pena di mettere tanto a fuoco una parte rispetto al tutto, se poi quel tutto era una serie cancellata dopo due stagioni senza essere rimpianta quasi da nessuno?

Secondo una teoria dell’autorialità che andava per la maggiore nel secolo scorso, il testo filmato è il prodotto diretto di una singola visione del mondo: ogni dettaglio traduce in immagini il pensiero specifico di chi l’ha realizzato. Chi non ce la fa, non è un autore. Chi non scrive il proprio materiale, non è un autore (a parte Alfred Hitchcock). Al di là della legittimità di questo approccio, che si apre a troppe considerazioni critiche e produttive, la cattiva applicazione contemporanea della teoria fa sì che un realizzatore possa essere considerato “un autore” sulla base dell’insistenza con cui riprende gli stessi temi, le stesse piccole ossessioni, gli stessi vezzi espressivi. E se manca, o si offusca, la visione d’insieme?

A un certo punto, dopo Popular, Murphy ha avuto un’ottima doppia intuizione di base che si è portato dietro fino a oggi. Prima intuizione: riempire la storia di freak, marginali, perdenti che coltivano fantasie di rivincita, e mostrare che gli emarginati non vogliono essere accettati ma ammirati, non vogliono inserirsi quanto dominare e imporre i propri valori come quelli naturalmente giusti. Vogliono sostituire i loro persecutori in cima alla catena alimentare. Il sogno di un freak non sta nella guarigione, quanto nell’essere migliore di tutti gli altri. Allora chi vuole diventare famoso lo vorrà quasi per dispetto, chi vuole diventare bello vorrà anche privare gli altri della bellezza. Seconda intuizione: prendere questi personaggi, non i normali, e farne il cuore emotivo della serie. Sono loro quelli che Murphy, palesemente, ama: è per loro che lui scrive; sono loro che devono catturare lo spettatore. Ed è stato negli anni Zero che la visione di Murphy ha intercettato – anticipato, al limite – lo spirito dei tempi.

Il primo botto c’è stato con il supertrash nichilista di Nip/Tuck. Sotto la patina traballante di una soap opera serale, ereditata dalle serie di due decenni precedenti (Dallas, Dynasty, Falcon Crest), Murphy si divertiva a portare in scena una continua galleria del peggio. Fenomeni ambulanti, ricchi scemi e poveri disposti a indebitarsi, tutti pronti a mettersi sotto i ferri di due chirurghi plastici altrettanto meschini, che in superficie potevano sembrare due che ce l’avevano fatta, ma avevano vite private agghiaccianti e praticavano una sconfinata crudeltà quotidiana. Nip/Tuck era il programma di punta di una rete cavo, FX, che all’epoca cercava di raccogliere più abbonati promettendo loro “roba forte”: ancora più sesso e più violenza rispetto alla già accanita concorrenza; “più schifo”, in estrema sintesi. Era la serie perfetta. Da un lato lo spettatore poteva godere vicariamente delle malefatte dei personaggi (scorribande con attrici hard, lusso sprecato in scioltezza), dall’altro poteva anche, in parte, godere nel vedere i cattivi comportamenti puniti, con la quantità di disgrazie che piovevano sulle teste dei responsabili. A partire dai due protagonisti: che Christian Troy e Sean McNamara fossero due disadattati era evidente nei primi episodi – Troy era solo più brutale nell’esibire le proprie lacune come se fossero gioielli, a differenza del trattenuto McNamara, che giocava al bravo ragazzo senza avere un’autentica spina dorsale. Ma c’era qualcosa in Nip/Tuck che inchiodava allo schermo.

Molto oltre i colpi di scena e i difetti fatali (a tra poco), quello che passava, e bruciava, era una fortissima componente di odio verso se stessi. Una determinazione estrema a mettere in scena il lato oscuro, non per esorcizzarlo – quando mai – ma per spingerlo fuori, portarlo sotto gli occhi di tutti. La sensazione, allora come oggi, era di stare davanti a qualcuno che cercava di raccontare storie per smaltire (non sempre riuscendoci) un materiale personale che metteva a disagio. Era una novità, all’inizio, e non era chiaro cosa, di preciso, Murphy non sopportasse di sé: dalla sua biografia non emerge nulla di sicuro, considerando che l’autore, nel corso del tempo, ha cambiato versione. Era apertamente gay e oggi è il marito dell’uomo con cui si è fatto una famiglia. In un primo periodo parlava di un’adolescenza felice, ma poi allo Hollywood Reporter ha raccontato di un padre che l’aveva rifiutato da ben prima della scoperta dell’omosessualità, e di una madre che, trovando alcune lettere del fidanzato, l’aveva spedito nello studio di un terapeuta. Dove sta la verità? Murphy si era alleggerito prima, o si è imbruttito dopo? Resta il fatto che nel suo lavoro c’era comunque qualcosa.

Una benzina che mandava avanti la storia a scatti feroci. Ma c’era anche un’ombra lunga, già in agguato. E a quell’ombra daremo noi un nome: la casa delle bambole. Si è saputo soltanto quando Rob Lowe ha pubblicato il suo secondo libro di memorie, ma la probabile salvezza di Nip/Tuck è stata che Murphy non era ancora completamente arrivato, e non aveva potuto avere tutto quello che desiderava come showrunner. La parte di Christian Troy era scritta pensando a Lowe, ogni tratto del personaggio era stato modellato per farlo interpretare a un attore che nel 2003 era un ex cattivo ragazzo sexy redento dagli anni passati a fare il santino in The West Wing. Se ci fosse stato lui, quello che Murphy aveva scelto, forse sarebbe stato un fallimento. Con un attore meno noto, non il primo nella lista, forse Nip/Tuck ha potuto camminare sulle proprie gambe, e il personaggio non ha incarnato un fantasma.

La dannazione di fondo

Il difetto, però, è rimasto. Non se n’è mai del tutto andato. A Murphy non interessa tanto giocare con le bambole, quanto fabbricare una bambola e sistemarla in una casa su misura. Poi, quando si tratta di giocare sul serio, lui perde interesse, lascia andare, passa alla prossima bambola. Questo rappresenta sia la sua salvezza creativa (c’è sempre un nuovo progetto, un nuovo obiettivo, un nuovo mondo da costruire) sia una fonte di frustrazione inesauribile per i suoi critici più puntuali, come Emily Nussbaum del New Yorker: una volta adescato lo spettatore con una buona premessa e una patina scintillante, fatti enormi vengono buttati nella storia a caso e si rivelano privi di conseguenze. Nip/Tuck era capace di prendere un personaggio, farlo sequestrare e minacciare di morte da un neonazista, e poi… poi niente, lui scappava e non se ne parlava più. La tendenza è solo andata in crescendo con il passare del tempo: più serie Murphy ha scritto e prodotto, più è aumentato il numero e il volume di deus ex machina (donna cattiva progetta di sterminare una famiglia, salvo poi, dal nulla, trovarsi davanti un serial killer e finire decapitata). E lo si vede in tutti i progetti, anche quelli riusciti.

La sua creatura più conosciuta prima di American Horror Story, Glee, aveva una formula clamorosa – un piccolo musical a settimana, protagonisti un gruppo di perdenti male assortiti che volevano farcela – e ha cominciato a mostrare la corda alla seconda stagione (ne è durate, in totale, sei). Stando allo stesso Murphy, la scintilla di American Horror Story è nata dall’esasperazione che lui provava nello scrivere “discorsi ottimisti” per i suoi personaggi canterini. Un progetto di successo ne ha dato alla luce un altro che ha avuto ancora più successo andando nella direzione opposta (la paura, non la speranza; il macabro, non il musical). Impossibile arrabbiarsi davvero con un uomo che ha trovato una cura ai suoi malanni. Impossibile non provare un po’ di rancore – o di invidia – per un ex freak che è abbastanza fortunato da realizzare tutti i suoi sogni nel cassetto senza doversene prendere cura più di tanto.

Se vogliamo tracciare un’altra linea biografica – l’autore è nato all’inizio degli anni Sessanta – il lavoro successivo di Murphy potrebbe portare i segni di un’adolescenza rivissuta in ritardo, e dilatata a riempire un mondo. Provincia tranquilla, primi turbamenti, scoperta della paura e del sesso a breve distanza, fascinazione insistita per un’idea di “vecchio glamour” ovviamente già decaduto e per le icone femminili del passato come dee/sirene/avatar delle trasgressioni compiute e incompiute. Poi di solito si va all’università, si riallinea il proprio compasso interiore e si comincia a ragionare su qualcosa di nuovo, o si cerca di assimilare “il passato” in una strada che conduca verso il futuro. Non qui. Per anni, Ryan Murphy è tornato indietro. American Horror Story lo avrà salvato sul piano creativo, e lo ha reso una grande star della tv, lo showrunner rilevante che lui sognava di diventare, il figlio degenerato di Aaron Spelling, ma forse è stato anche la sua condanna. Non perché la serie non possa essere sommariamente giudicata “forte” da chi in vita sua non avrebbe altrimenti mai toccato con un forcone nulla che contenesse la parola “horror” nel titolo, ma perché è tutto costruito in maniera abbastanza regressiva, pescando da due bauli. La paura è il baule delle suggestioni che vengono dal cinema e dalla letteratura horror, ma anche dalla cronaca nera e dall’arte contemporanea, da cui si pesca a piene mani e si archivia ogni dubbio ripetendo “tanto è orrore”. L’altro baule è quello con l’etichetta camp, altrettanto gremito – ci sono le streghe, le donne fatali, le lacrime, le suore, il trucco, Mammina cara che taglia le rose in giardino, la pubblicità della lavastoviglie – e se ne pesca altrettanto liberamente, “tanto è camp”. I personaggi femminili, che moltissimi elogi sono valsi a Murphy, considerato un paladino delle pari opportunità o un provocatore consapevole, sono depositati dentro la scatola, sistemati e plastificati, in attesa che commettano o subiscano atrocità innumerevoli (in questo la Ally di Cult sembra quasi un’auto-parodia, da tanto è passiva e rinchiusa nel suo mondo).

Si va avanti in una continua contaminazione militante tra alto e basso, passato e presente. Lady Gaga che fa Elizabeth Bathory, Jessica Lange che fa Joan Crawford nelle sue diverse versioni. E se qualcuno ha domande, o trova irrisolto, o faticoso, questo proseguire per accumulo? Non importa. Murphy è già passato alla sua nuova serie, stavolta con ancora più ragazze in carne e ossa (Scream Queens), o con due dive del cinema rivisitate in chiave post-femminista (Feud), però sempre con una nuova gamma di personaggi troppo esagerati per cui parteggiare, o da detestare ma intanto anche approvare perché “sono eccessive ma sono se stesse”. Anche una commedia familiare addomesticata e idealista come The New Normal, cancellata dopo una sola stagione, aveva un paio di personaggi che succhiavano l’aria dai polmoni di tutti gli altri: uno era ricalcato su Murphy – un produttore televisivo egomaniaco a nome Bryan – e uno era la cattiva che sotto sotto fa ridere, “dice le cose come stanno”, l’agente immobiliare bigotta nonché nonna della ragazza che di Bryan aspettava un figlio come madre in affitto. E va bene che così abbiamo avuto in prima serata un intero episodio con una bambina tenerella che scimmiottava Grey Gardens, però a un certo punto, fatalmente, uno si stanca. Basta.

Impossibile arrabbiarsi davvero con un uomo che ha trovato una cura ai suoi stessi malanni. Impossibile non provare un po’ di rancore – o di invidia – per un ex freak che è abbastanza fortunato da realizzare tutti i suoi sogni nel cassetto senza doversene prendere cura più di tanto.

Ripetizione, stanchezza, forse rinascita

Oppure non ci si stanca? American Horror Story sembra una macchina impossibile da fermare. Riutilizza gli stessi attori da una stagione all’altra, ma cerca di ridurre alcuni difetti della casa delle bambole facendo ripartire una nuova storia ogni anno. Quei difetti ci sono ancora – troppa roba – ma al pubblico piace così, e il pubblico ha parlato. Ryan Murphy ha carta bianca. Tanta carta bianca. A volte ci si strozza, a volte ne tira fuori un capolavoro. Va un po’ a giorni. La sua versione adulta e risolta ha il merito di aver azzeccato American Crime Story, che ha diretto e prodotto ma non sceneggiato, mettendo il suo istinto al servizio di una storia dove non c’era bisogno di enfatizzare il reale, se l’incredibilità del materiale di base parlava da sola. È stata una combinazione memorabile, possiamo dirlo. Possiamo essere felici di averla vista accadere, e possiamo sentirci più stanchi – ma… più saggi? – per essere arrivati alla fine. Viene da chiedersi se faceva tutto parte, non di un business plan, ma di un grande disegno: per arrivare alla precisione formale del Caso O.J. Simpson bisognava passare attraverso un tunnel di roba brutta che succedeva senza ragione; per arrivare a quel controllo sugli attori, era prima necessario far fare cose matte agli stessi attori (o ad altri meno fortunati).

Il limite di Cult, fino a qui, sta nella satira politica. Murphy ha davanti una realtà mutevole e difficile da prendere in giro senza usare le stesse armi dell’avversario. Nella prima puntata già si sprecano i riferimenti a 4chan e ai giovani uomini che grazie all’ascesa di Trump stanno uscendo dagli scantinati di casa per misurarsi con il mondo; di contrasto, l’eroina passeggia nervosa nella stanza dell’analista raccontando di essersi sentita finalmente parte della società solo durante la presidenza Obama. Forse la politica è un arredo urbano, un aggiornamento al tempo presente di una storia molto vecchia. Gli ammiratori di Murphy per anni l’hanno pregato di dedicare una stagione di American Horror Story alla famiglia Manson. Lui si è sottratto – aveva ragione? dopotutto non sarebbe stato un territorio vergine – ma ne ha preso comunque spunto, con i fenomeni legati al culto della personalità, e ne sta tirando fuori lo psicodramma che in questo preciso momento gli interessa di più. Gli anarchici di destra sono bambini assetati di potere, e forse si scelgono una causa per rendersi attraenti agli occhi del prossimo; i bravi borghesi di sinistra sono vittime del proprio liberal bias, spiazzati dal confronto con qualsiasi altro piano di realtà. Kai può andare molto lontano, se capisce come manovrare i suoi spettatori; Ally può scegliere se credere alle sue visioni o prendere le medicine che le ha ordinato il dottore. Kai “dice le cose come stanno”, e questo fa di lui un mostro. Kai, il reietto, contempla il mondo e vuole rifarlo a propria immagine e somiglianza. È molto cattivo. Seduce e domina. Per Ally è impossibile parteggiare, troppo fragile, troppo bianca. Ci sono persone sigillate vive dentro bare foderate di velluto. Ci sono clown assassini ovunque, persino al supermercato. Siamo nel 2017. Come siamo arrivati a questo punto? Perché stiamo ancora guardando?


Violetta Bellocchio

Autrice di Il corpo non dimentica (2014), ha fatto parte di L’età della febbre (2015), Ma il mondo, non era di tutti? (2016), ha curato l'antologia Quello che hai amato (2015) e la traduzione italiana di The Art of Rivalry (2016). Ha collaborato a Rolling Stone, Vanity Fair, IL, Rivista Studio.

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