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Rappresentazioni

Psicopatologia del protagonista seriale

Da Mr Robot a Big Bang Theory, da Community a BoJack Horseman, la malattia mentale invade le serie tv. Spesso, però, in modo sfumato, parziale e volutamente impreciso.

Quello che rende Elliot una persona straordinaria è il suo cervello. Un’intelligenza pronta, agile, adatta a un ambiente lavorativo in continua evoluzione – un ambiente che lui, purtroppo, detesta con ogni fibra del proprio corpo, ma non si può avere tutto. Quello che rende Elliot un problema è il suo cervello: soffre di mille malattie differenti, dalla depressione all’ansia sociale al grande nemico, la schizofrenia, che si è più o meno diagnosticato da solo. Non ha sbagliato di tanto. Per Elliot sarebbe corretto parlare di disturbo dissociativo dell’identità (una volta lo si chiamava “disturbo di personalità multipla”). Vede cose e uomini che non esistono. Non riconosce, selettivamente, alcuni volti chiave del suo passato. Si sente isolato quando sta in mezzo alla gente, anche se le sue allucinazioni non lo lasciano mai in pace… allora, nei fatti, è sempre solo.

In superficie vuole curarsi, e nella prima stagione di Mr. Robot cerca persino di sembrare un bravo paziente. Si accomoda sulla poltroncina di una terapeuta (a cui mente su tutta la linea), prende i farmaci (o non li prende?), si auto-medica con un dosaggio di morfina che considera sotto controllo (buona fortuna). E il problema di Mr. Robot, ovviamente, è che senza questo ammasso di nodi irrisolti verrebbe a mancare il cuore pulsante della serie. Se Elliot decidesse di guarire, verrebbe a mancare il teatro di visioni e pensieri paranoici che rendono possibile costruire un lungo racconto a puntate. Se Elliot un giorno si risvegliasse con un cervello normale, noi, da cosa saremmo intrattenuti?

Curioso che tante persone si affezionino agli aspetti realmente più patologici della storia – un individuo, da solo, può mettere in moto il meccanismo che porta al crollo del mondo! – mentre uno dei meriti della serie sta nel mostrare, in maniera asciutta e intima, quale razza di incubo possa essere vivere con la follia che ti gira in testa, nessuna fine, o soluzione, all’orizzonte.

La rappresentazione della malattia

Mr. Robot non esiste per offrire un’immagine accurata della malattia mentale. Non è questo il suo obiettivo; Sam Esmail, al limite, vuole costruire un thriller sofisticato, che gioca sull’identificazione, ma tiene anche leggermente a distanza. Per cui l’eroe sarà anche il più tenace avversario di se stesso, e il programmatore sarà anche un hacker determinato a far collassare l’azienda per cui lavora, e, allargando il campo, l’intera economia che lo circonda. Il doppio binario su cui si muove Elliot è azzardato tanto quanto lo è il suo cervello. Inutile pretendere di scoprire le radici assolute di un disagio con cui, al massimo, si può convivere; altrettanto inutile pretendere che un antieroe di colpo cambi direzione. Curioso, però, che tante persone si affezionino agli aspetti realmente più patologici della storia – un individuo, da solo, può mettere in moto il meccanismo che porta al crollo del mondo! L’iniziativa personale trionfa! Abbattiamo il sistema, viva l’anarchia! – mentre uno dei meriti non ancora riconosciuti della serie sta nel mostrare, in maniera asciutta e intima, quale razza di incubo possa essere vivere con la follia che ti gira in testa, nessuna fine, o soluzione, all’orizzonte.

La libertà creativa presente in Mr. Robot si deve anche al fatto di appartenere a un genere – il thriller cospiratorio – che permette di selezionare con la massima autonomia quali aspetti di un disturbo portare in primo piano. Se ai fini della trama torna utile che Elliot abbia allucinazioni continue, e non sappia percepire o accettare la differenza tra un piano oggettivo di realtà e quello che è stato lui a fabbricare, ottimo; l’abbiamo visto nella prima stagione. Sia messo agli atti che uno schizofrenico è un eccellente narratore inaffidabile, tanto quanto il personaggio dell’hacker geniale permette, da sempre, di risolvere un garbuglio narrativo in due secondi (come fa Elliot a sapere tutto sul conto di amici, dirimpettai ed analisti? Semplice: lui hackera, per principio, ogni persona che incrocia sul suo cammino. Non c’è riparo, non c’è protezione che regga). Tornando al punto, però, non è del tutto vero che Mr. Robot non voglia sensibilizzare il grande pubblico. Non nasceva con quello scopo, ma la ricerca diligente del caso è stata fatta. Esmail è stato abbastanza lucido da rispondere, con precisione, alle domande sullo stato mentale di Elliot. Si è lasciato intervistare da Popular Science, dove si è messo in gioco rivelando di aver sofferto di un disturbo compulsivo, oltre che di ansia sociale – anche se, possiamo presumere, in una forma più lieve di quella che tocca al suo protagonista. E poi, certo, è stata assunta una psicologa come consulente, e nella trama sono entrati, di sguincio, mille tratti appartenenti ad amici di Esmail.

Chi davvero soffre degli stessi malesseri si trova davanti a uno specchio (come ben raccontato nel breve saggio anonimo “I am Mr. Robot”). E gli altri, la maggioranza cosiddetta sana? Qualcuno riuscirà a cogliere le scintille di autenticità seminate dentro la storia, qualcuno, nel disagio estremo di Elliot, crederà di sentire una parte di sé, la peggiore, e si coprirà il viso con le mani mentre guarderà uno spettacolo doloroso al rallentatore. Esmail, comunque, la sua parte l’ha fatta. Ha studiato, si è applicato.

In commedia

Lo stesso non vale per molti showrunner che hanno giocato al dottore in modo molto più ambiguo quando si è trattato di dare un nome alle cose. Quali sono i problemi che affliggono i personaggi? Non lo sanno nemmeno loro. Un pochino di questo, un pochino di quello. Diverse serie comiche hanno tratto enormi vantaggi dal buttare al centro dell’azione un disadattato senza etichettarlo in alcun senso: non può essere una combinazione fortuita che due sitcom di successo – un fenomeno di massa come The Big Bang Theory e un cult sopravvissuto grazie al pubblico dei fedelissimi come Community – abbiano tratto la loro linfa vitale da due personaggi, Sheldon e Abed, che in via caritatevole definiremo “eccentrici”, ma che presentano entrambi i sintomi di un disordine più grande, non formalizzato.

Sheldon è un genio riconosciuto, quindi tutte le sue fissazioni (inclusa la fobia del contatto fisico) sono ascritte alla categoria “bravo a utilizzare il cervello in astratto, tremendamente inadeguato nelle relazioni”. I creatori della serie non hanno mai voluto diagnosticargli nulla. Sheldon è unico, Sheldon è Sheldon, anche quando logora la pazienza dei suoi colleghi. L’attore Jim Parsons però si è andato a leggere Guardami negli occhi, il memoir di John Elder Robison, e in effetti ha dichiarato di essere rimasto colpito dai paralleli tra la realtà di un malato di Asperger e i tic del personaggio che lui è chiamato a interpretare. Era una coincidenza? C’era qualcosa di anormale in Sheldon, qualcosa che era sfuggito al controllo dei suoi stessi inventori, o andava tutto preso come un effetto collaterale di quando ci si mette a sceneggiare un uomo-bambino, un ex prodigio in miniatura che non sa da che parte si comincia ad affrontare una vita adulta? Nessuna risposta.

Su un altro canale, quasi alla stessa ora, Abed usava il cinema e la storia della tv come filtro attraverso cui interpretare il mondo con efficacia, arrivando a prevedere il comportamento dei suoi compagni di università sulla base di quello che lui aveva visto fare, molte volte, ai personaggi immaginari che prima del college erano i suoi veri amici. Abed rompeva la quarta parete, sembrava convinto di vivere dentro una grande fiction, e ogni minima deviazione rispetto alla norma lo mandava in una crisi nera. In questo caso, la serie ha accennato a una risposta: già nell’episodio pilota Abed è marchiato dal protagonista Jeff come “malato di Asperger”, e quindi posizionato, in uno scatto di rabbia, sullo spettro dell’autismo. Era una reazione stizzita, non aveva per forza un significato, almeno in teoria. Se non che, poi, numerosi spettatori che effettivamente vivevano con l’Asperger hanno ritrovato in Abed alcuni aspetti della loro personalità, e l’hanno abbracciato: “è uno di noi”. Hanno insistito talmente tanto che il creatore Dan Harmon, incuriosito, ha voluto sottoporsi ai controlli rituali. Ha cominciato scorrendo le liste dei sintomi più frequenti, ha proseguito con i test online. Alla fine si è rivolto a uno specialista. È venuto fuori che una forma di Asperger ce l’aveva anche lui, a un livello tale da permettergli di provare, stando al profilo apparso su Wired, “sia reazioni emotive non appropriate sia profonda empatia”. Aveva scritto il futuro, Dan Harmon, quando aveva dato forma ad Abed, o stava già raccontando una realtà che conosceva da vicino, in una maniera che un fanatico di cultura pop avrebbe forse potuto intuire? Lo showrunner che non è proprio uguale a tutti gli altri mette quell’elemento di scarto al servizio di una finzione: non è una storia molto triste, questa? Però, per certi versi, anche ispirativa? Non suggerisce una via d’uscita?

Le serie tv si vanno affollando di personaggi che stanno male, e sul loro conto arrivano sempre meno parole risolutive. Forse la vaghezza si lega alla volontà di non diventare una serie tematica, una serie “sul problema”. (A meno che il personaggio in questione non sia un poliziotto o un militare, in qual caso la sindrome da stress post-traumatico non si nega quasi a nessuno).

La riluttanza del dare un nome alle cose

Fino a qui, parliamo di esempi in cui i creatori si sono espressi, oppure è stato il pubblico ad avanzare ipotesi più o meno azzeccate (mai sottovalutare la facilità con cui si esprimono diagnosi da tinello nell’epoca di Web M.D.). Però, in giro, la riluttanza a dare un nome alle cose persiste. Le serie tv si vanno sempre più affollando di personaggi che stanno male, e sul loro conto arrivano sempre meno parole risolutive. Forse la vaghezza si lega alla volontà di non diventare una serie tematica, una serie “sul problema”, il che potrebbe significare alienarsi una discreta fetta di pubblico. (A meno che il personaggio in questione non sia un poliziotto o un militare, in qual caso la sindrome da stress post-traumatico non si nega quasi a nessuno). Forse si desidera maggiore spazio di manovra quando si scrive, forse non si vuole dover rendere conto agli attivisti di una comunità – che fanno meno baccano rispetto agli altri, ma sanno alzare la voce quando ritengono offensivo e retrogrado qualche ritratto di “uno di loro”. Forse, anzi: probabile, si ritiene più opportuno creare personaggi disturbati ma anche opachi, così che lo spettatore possa credere di rivedere in lui o in lei una traccia della propria umanità difettosa, senza mai averne la conferma in triplice carta bollata.

Ai tempi di Dexter andava molto di moda dire “ho qualche tratto sociopatico” tra chi viveva un eccesso di identificazione con l’assassino e non sapeva bene come reagire, oppure lo sapeva, ma desiderava impreziosirsi rispetto al limitante “credo di essere una brutta persona”. Oggi il gioco si è fatto più sfumato. Per un Lady Dynamite che si nutre della vicenda individuale e ben documentata dell’attrice bipolare Maria Bamford, costruendole un alter ego che cerca di rimettersi in piedi dopo un lungo soggiorno in ospedale psichiatrico, ci sono cento BoJack Horsemen che esplorano il mondo di chi sta male senza mai pronunciare la parola definitiva, “depressione”. Ci si accostano, e diventano testi sacri per quelli che ci si rivedono, però la sicurezza di un termine clinico non è offerta a nessuno. BoJack è infelice, non importa quanto successo o insuccesso possa avere, e vorrebbe sapere come riuscire a cambiare, come diventare un cavallo allegro e soddisfatto, in grado di essere il protagonista della sua esistenza. Non ci riesce. È infestato da altri guai (l’abuso di sostanze, anche qui un chiaro segno di auto-medicazione), ma la diagnosi sfugge, scivola via. Forse c’è un errore impossibile da correggere, ma nessuno ne discute apertamente. Forse, lungo il cammino, BoJack diventerà sempre più uguale a chi lo segue da casa, perché non arriverà mai una parola fuori posto a rompere l’incantesimo.

Alcuni anni fa, all’apice della popolarità italiana di Dr. House, una persona vicina a me si chiedeva con reale interesse: “come fanno gli americani ad accettare come eroe un drogato?”. La mia risposta era approssimativa, ma genuina: “se ci badi”, dicevo, “al termine di ogni episodio House si ritrova da solo e tristissimo, quindi, anche se per tutta la puntata ce l’abbiamo avuto in primo piano a tranciare giudizi e terrorizzare lo staff, alla fine è comunque salvata la morale, perché lui rimane un tossico infelice”. Sarebbe bello sapere se un eventuale dottor House del futuro riceverà una diagnosi più precisa, o se la strada percorsa continuerà a essere quella del genio problematico. Che ha un gran cervello, ma lo impugna come un fucile, e se lo punta addosso.


Violetta Bellocchio

Autrice di Il corpo non dimentica (2014), ha fatto parte di L’età della febbre (2015), Ma il mondo, non era di tutti? (2016), ha curato l'antologia Quello che hai amato (2015) e la traduzione italiana di The Art of Rivalry (2016). Ha collaborato a Rolling Stone, Vanity Fair, IL, Rivista Studio.

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