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Cucina in tv

Fenomenologia della prova del cuoco

Giunti al termine del lungo regno di Antonella Clerici, possiamo fare il punto sull’impatto di un programma, e di uno stile di conduzione, sull’intera tv italiana.

“La regina di Romania è in visita nel mio paese”, gracchia una voce dalla radio. “Non è venuta in America per vedere me, ma ho pensato che fosse disponibile a parlare di questioni da casalinghe. Ho una nuova ricetta che ho riservato per lei: la delizia alle pesche. Sono sicura che piacerebbe anche al re, al principe e alla principessa”. A parlare è Zia Sammy, personaggio immaginario e moglie dello zio Sam che dispensava consigli e informazioni alle massaie durante il programma radiofonico Housekeeper’s Chat, uno dei primissimi esperimenti di quello che sarebbe diventato uno dei generi più prolifici della tv, il cooking show, categoria ombrello che contiene un caleidoscopio di prodotti, dal reportage al talent show, passando per il gioco a premi e tutti quei titoli all’acqua pazza in cui vediamo le materie prime lavorate fino a diventare piatti stellati o le pirofile che brillano d’unto. Dei nove tipi di fame umana descritti da Jan Chozen Bays (fame della bocca, degli occhi, del tatto, del naso, dell’orecchio, dello stomaco, della mente, del cuore e cellulare), la tv ha saputo comunicare meglio di tutti gli altri media la più importante, la fame degli occhi, infarcendo i palinsesti di immagini laide e umettanti piacere da ogni poro.

Una lunga storia

Fin dai tempi di Housekeeper’s Chat, l’America e i cugini inglesi hanno fatto interagire i media con l’arte dalla cucina. Creata nel 1926 dal dipartimento statunitense dell’agricoltura, in risposta a un sondaggio nazionale dove le famiglie americane si dicevano troppo stanche per pensare a cosa cucinare per pranzo, Zia Sammy era impersonata da una dozzina di attrici che adattavano lo stesso testo alle varie cadenze e dialetti della nazione. Similmente fece il governo inglese nella seconda guerra mondiale, impartendo lezioni su come cucinare i pochi ingredienti razionati a disposizione. In questo scenario, si distinse Marguerite Patten, partecipando all’ideazione del programma radiofonico The Kitchen Front (nel 1940) e poi a rubriche nel palinsesto di Bbc. Nel cuore del Novecento americano, James Beard e Julia Child hanno plasmato con le loro personalità il cibo a immagine e somiglianza del tubo catodico. Ecco allora che dai manuali si è presto passati agli imperi multipiattaforma dei singoli chef o ai personaggi che con il loro cucinare hanno costruito una carriera intera.

Ma di programmi di cucina l’Italia non aveva mai sentito il bisogno. Data la sterminata tradizione in materia, assente negli Stati Uniti, l’Europa in generale si era affidata ai libri degli esperti, ai manuali delle accademie, con i piedi ben piantati nella ricerca storica e nel canone culinario. Poco incline a spettacolarizzare l’argomento, la nostra tv ha mostrato segni precoci varando nel 1956 Viaggio lungo la Valle del Po alla ricerca dei cibi genuini di Mario Soldati, inventore di un reportage enogastronomico che poi sarà declinato in mille varianti. Ma, come suggerisce Wikipedia, va fatta una distinzione tra i “programmi televisivi di cucina” e i “programmi televisivi enogastronomici”. Ci proverà A tavola alle 7 a imporre il modello di cooking show ante litteram. Condotto da Ave Ninchi e dal critico Luigi Veronelli, in onda dal 1974 al 1976, proponeva sfide tra cuochi, ospitate illustri e ricette facilmente riproducibili. Una struttura molto simile a quella adoperata ora, ma allora l’esperimento non ebbe seguito: la componente didascalico-giornalista degli altri programmi impediva quel travaso nel frivolo tanto presente oltreoceano (o anche solo oltremanica).

Poi, a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta, i confini sfumano e l’industrializzazione della cucina prende piede anche in Italia. Nasce Burghy, che poi sarà acquistata dal colosso McDonald’s, il cui primo insediamento apre a Bolzano nel 1985, e dal freezer escono le prime buste dei 4 salti in padella che ci hanno fatto sentire come gli americani degli anni Cinquanta, con il loro vassoietto di polpettone, purè e fagiolini da scartare davanti al televisore. E mentre in America The Food Network si proponeva come il primo canale monotematico dedicato alla cucina, in Italia ci si muoveva con timide incursioni. L’esagerazione di volti come Paula Deen (nota per le sue ricette non molto salutari) non troverà spazio nella dieta mediterranea e il nostro trattamento dogmatico della cucina rigetterà a lungo certe derive. Certo, c’era chi adoperava più rigore e chi si lasciava avvolgere da una patina casalinga. Se Gambero Rosso schierava un palinsesto popolato di competenze e maestranze di lusso, limitandosi a occasionali acquisti dall’estero di sitcom come Two Fat Ladies, Alice quelle situation comedy le produceva in proprio e ne faceva colonna portante delle sue giornate (Risi e bisi, Il club delle cuoche). E fu Paolo Limiti a proseguire sul solco di A tavola alle 7. Nel 1978, Limiti, allora direttore dei programmi di Tmc, propose a Wilma De Angelis una trasmissione dove la cantante avrebbe eseguito una ricetta, a volte accompagnata da un ospite. Il programma, intitolato Telemenù, partorirà figli per vent’anni anni: Pane, amore e fantasia, A pranzo con Wilma, Sale, pepe e… Fantasia.

Seguono prodotti sulla stessa linea, sempre ibridati con il campanilismo o con la scoperta turistica di un luogo, cadendo nel ramo dei programmi enogastronomici. Solo nel Duemila la Rai ha tentato la strada del cooking show vero e proprio, adattando l’inglese Ready Steady Cook. Il risultato è stato La prova del cuoco, condotto da Antonella Clerici e poi innestato da elementi avulsi alla gara tra cuochi: il momento didattico con Beppe Bigazzi, i siparietti con Anna Moroni, ma soprattutto la smaccata indulgenza verso il pubblico di giovanissimi che lo rendeva una sorta di Albero azzurro in versione culinaria. Dalle scenografie ai contenuti, La prova del cuoco si è imposta come programma kid-friendly, una caratteristica che si affievolirà negli anni, seguendo una duplice urgenza di normalizzazione e adeguamento ai tempi.

A capo di questo circo sta la MC Antonella Clerici, che dopo un filotto di programmi giornalistici (Domenica Sprint, Dribbling, Unomattina) trova ne La prova del cuoco la consacrazione che le permetterà l’accesso alle prime serate Rai. La cronista legnanese ha tratto il la dalla presenza scenica di Nigella Lawson, nome di peso nella telecucina inglese, ma lo ha tradotto privandolo di quella carica erotica che Lawson modulava con atteggiamento distaccato e fintamente inconsapevole del proprio carisma. Nigella comprava il cocco disidratato scambiando occhiate d’intesa con la telecamera, Antonella scartava gli ingredienti ribaltando la busta della spesa con noncuranza.

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Nigella Lawson

E all’improvviso La prova del cuoco

La conduttrice tiene il proprio corpo al centro del discorso ma ne esalta la carica umoristico-godereccia. I capelli biondi, i vestiti floreali, i colori sgargianti e l’ossessione per i brillantini le fecero conquistare il soprannome di “Ferrero Rocher gigante” (Aldo Grasso sul Corriere della sera). Come scrive Luisa Stagi in Food porn. L’ossessione del cibo in tv e nei social media, “le sue forme prosperose e i suoi modi seducenti, ma al tempo stesso goffi, producevano un’immagine di femminilità del tutto rassicurante”.

“Ficcava le dita nella salsa per assaggiare, leccava i cucchiai, faceva cadere gli ingredienti e li mischiava nel pentolone”: così Kathleen Collins, in Watching What We Eat: The Evolution of Television Cooking Shows, descrive la particolare telegenia di Julia Child. “Oggi i programmi sono ritagliati attorno al conduttore, ogni utensile caduto a terra può essere tolto dal montaggio. Ma quelle imperfezioni erano un elemento cruciale della sua persona”. Con tutti i dovuti accorgimenti del caso, Clerici fa lo stesso. Assaggia tutto, affonda i denti nei piatti, è piena, in salute, una Amy Shumer del pranzo della domenica che non imbarazza gli ospiti con battute rancide o frecciatine su quanto woke siano gli ospiti. Nelle prime edizioni era chiamata a collaborare attivamente alla preparazione (in alcune annate aveva perfino un segmento, “Casa Clerici”, dove era la sola a cucinare), salvo poi ridurre il suo ruolo a semplice assistente, tagliando una verdura o controllando il bollore dell’acqua. Rivolge domande banali per fornire anche allo spettatore più inesperto un avatar in cui specchiarsi. Rassicura i concorrenti e chi guarda, recita la parte della tonta quando si deve confrontare con decani o maestri (ma a volte si fa scappare uno sguardo che mostra quanto sia in controllo di tempi, ritmi e meccaniche), enfatizza insomma quel bisogno di pragmatismo che la Child aveva ben intercettato. In una delle ultime puntate, ha addirittura detto di non sapere che l’olio in un’emulsione aiuta a montare il composto. Eventualità che, in sedici anni di conduzione, pare impossibile non abbia mai incontrato.

Ha condiviso il regno con Elisa Isoardi, chiamata a sostituirla tra il 2008 e il 2010 e prossima a raccoglierne l’eredità da settembre. Ma i modi affettati della Isoardi e la sua austerità nella conduzione non le hanno mai permesso di ballare sopra le note de Il coccodrillo come fa con trasporto e convinzione (forse la nuova identità del programma, già scremato dagli intermezzi bambineschi, si adatterà meglio a lei), né gli strascichi relativi al passaggio di testimone l’hanno dipinta in buona luce.

Assaggia tutto, affonda i denti nei piatti. Rivolge domande banali per fornire anche allo spettatore più inesperto un avatar in cui specchiarsi.

Il primo di una lunga serie

Incontrastato per i primi dieci anni di vita, La prova del cuoco ha poi affrontato lo tsunami dei cooking show arrivati dal 2010 tenendo il timone dritto, cambiando pochissimi elementi e diventando un franchise che ha generato libri, magazine, spin-off pomeridiani, strisce in access prime time o in prima serata. Ha visto passare i cadaveri di tanti altri format simili, nati e morti nel giro di una stagione.

Quello della Clerici è un modello rimasto incontrastato nella tv generalista, che ha trovato uno speculare nella figura di Benedetta Parodi, l’altra “giornalista prestata alla cucina” che ha saputo incrinare il monopolio clericiano affrontandola, per un periodo, nella stessa fascia oraria. Clerici si faceva garante di un erotismo morbido e giocoso. La Parodi, più mondana, faceva della donna in carriera l’elemento sessuale con cui fare presa sul pubblico, strizzando l’occhio a un segmento demografico adulto. Il loro corpo e i loro modi sono diversi, ma entrambe puntano su un engagement fortissimo basato sulla connessione con il pubblico, utilizzando come ponte la loro vita privata. La Clerici, che ha fatto del condividere senza filtri fatti e fatterelli della sua sfera privata e professionale, e la Parodi, che quei fatti li ha messi direttamente in mostra, coinvolgendo nei suoi programmi marito, figli e parentado vario.

 

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La prova del cuoco è sempre stato uno show insulare, chiuso su se stesso, poco interessato alle commistioni culinarie con altre culture o alla divulgazione, ma capace di evolversi quel tanto che bastava per non rimanere indietro ma mai troppo per spaventare gli spettatori. Ha gradatamente tolto gli orpelli per i più piccoli e le incombenze promozionali (personalità celebri chiamate a cucinare, ma al tempo stesso a sponsorizzare il loro film/libro/album/programma tv), prima confinandoli nella puntata del sabato e poi recidendo del tutto gli appuntamenti del fine settimana; ha ridimensionato certe trovate scenografiche e di contenuto che oggi passerebbero per esagerazioni – almeno in quella fascia – o per messaggi politicamente scorretti (il momento in cui la Clerici si pesava ed era bacchettata per gli etti in più oggi sarebbero tacciati di body shaming). Novità selezionatissime: niente cucina molecolare, anatema sulla cottura sottovuoto, giusto qualche spazio dedicato al salutismo e spesso e volentieri grande risalto alle scorciatoie (possibilmente quelle dello sponsor).

Negli anni, la trasmissione ha tenuto fede a un unico principio: ogni ricetta è fatta per essere riprodotta e la complessità va demistificata a colpi di pasta sfoglia comprata al banco frigo. E mentre Anthony Bourdain bollava l’industria telealimentare come “la nuova pornografia”, cioè gente che guarda altra gente fare cose in tv senza la più remota possibilità che chi guarda farà mai quelle cose, l’estetica del suo food porn restava diversa da quella conosciuta su Instagram o sulle riviste patinate. Arcaica e monolitica, l’immagine della Prova del cuoco (fedelmente riprodotto dall’house organ che va in edicola ogni mese) segue precise regole di presentazione: design casareccio, grafiche un tanto al chilo, piatti dalle dosi esagerate che sembrano usciti da un manuale degli anni Ottanta. Anche gli specialisti non possono sfuggire dalla cifra stilistica: le pizze di Gabriele Bonci sono tripudi multistrato di salumi, formaggi e verdure, le torte di Sal De Riso palazzi glassati.

Arcaica e monolitica, l’immagine della Prova del cuoco segue precise regole di presentazione: design casareccio, grafiche un tanto al chilo, piatti dalle dosi esagerate che sembrano usciti da un manuale degli anni Ottanta.

L’assalto del web

Meno è stato capace il programma di affrontare l’assalto del web, i food blogger, gli influencer e i siti che si sono moltiplicati a un ritmo impressionante e imposti come il consulente immediato per ogni dubbio culinario, sia sull’argomento sempreverde privato di qualsiasi nozione teorica (come si fa una pasta frolla) sia sulle nicchie che si trasformano in tendenze (il biologico, l’ecosostenibile, la dieta vegana). Qualcosa ha dovuto integrarlo, ospitando food blogger o implementando il voto dei piatti via social. Ma, a parte la storica telefonata-fraintendimento o le polemiche relative al gatto in salmì, La prova del cuoco è passato pressoché immune sotto le forche dell’internet memificante. Dove pagine come Trash Italiano fanno del minimo sussulto televisivo motivo di gif, La prova del cuoco non è mai stato rimpacchettato in meme, tormentoni o remix, mai è stata rivalutata dal demone dell’ironia come Alberto Angela, Gianni Morandi, Franca Leosini o come le maschere di Un giorno in pretura. Mai sono apparsi concorrenti che potessero regalare perle di bizzarria come succede invece a L’eredità.

Un po’ perché, come si diceva, la normalizzazione ha esentato la trasmissione dai momenti di attrito, e un po’ perché, in fin dei conti, non importa a nessuno. Al pubblico interessano i piatti: li commentano su Facebook (la pagina del programma ha più di un milione di like), criticano se qualcuno sgarra dalla ricetta tradizionale, scrivono quanto sia poco intonato l’abito della conduttrice, si lamentano se la puntata non è in diretta. Il loro apice di coinvolgimento è questo.

In un panorama saturo al punto che persino Tv2000 ha la propria rubrica di cucina, ovviamente declinata in ottica religiosa (Quel che passa il convento), i colpi veri sono stati assestati dai programmi dove l’elemento della cucina è solo una spezia che non diventa gusto primario della propria narrazione, preferendo mettere al centro lo scontro e il percorso dei personaggi. Dopo timidi tentativi in Rai (Il ristorante, presentato sempre dalla Clerici) e in Mediaset (La notte degli chef), il genere si è affrancato grazie all’edizione italiana del talent Masterchef, questo sì it show di cui parlare con gli amici per dimostrare di essere sul pezzo. Innervando la quotidianità con i suoi tormentoni (il “mappazzone” di Bruno Barbieri, l’italiano sgangherato di Joe Bastianich, l’indole rude – ma sessualmente magnetica – di Carlo Cracco) ha mostrato quanto il cibo fosse solo un mezzo e non un fine. Nessuno, guardando Masterchef, Quattro ristoranti o Bake off vuole imparare nulla, ma solo, come diceva Bourdain, guardare gente che fa cose che noi non ci sogneremmo di fare neanche nei nostri sogni più perversi.

Oggi che La prova del cuoco perde il suo principale animatore c’è da chiedersi cosa abbia reso inossidabile il programma e chi lo ha condotto. E la risposta forse si può trovare in quel primo abbozzo di cooking show con protagonista la consorte dello Zio Sam. “Cosa s’inventerà questa volta, è la domanda che si fanno tutti gli ascoltatori”, scriveva The Dispatch, quotidiano dell’Illinois che dedicò un trafiletto al successo di Housekeeper’s Chat. Il giornale citava un’assidua ascoltatrice, moglie di un cowboy del North Dakota, che viveva a quaranta miglia dalla ferrovia e doveva preparare tre pasti con pochi ingredienti. Sgangherato, approssimativo, detestato dalle riviste che della cucina fanno una missione, La prova del cuoco non ha mai dimenticato qual è il proprio fine: unire cowboy e regine davanti a un piatto caldo.


Andrea Fiamma

Scrive (soprattutto) di fumetti, cinema e tv su Fumettologica, Rivista Studio e The Comics Journal.

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