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Copyright

Corpo di mille balene! 

Torniamo ai fondamentali del copyright per capire cosa non funziona più, tra pirati e balenieri che lavoravano in cambio della loro parte del bottino. Ahoy!

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 11 - La tempesta. Ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare il nuovo mondo del 07 maggio 2012

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“Le traversate degli olandesi e degli inglesi nell’Oceano Settentrionale con lo scopo di scoprire, se possibile, un passaggio per le Indie, sebbene fallissero il loro obiettivo principale svelarono i covi della balena.”
John R. McCullough, Dizionario commerciale

“Questo mondo paga dividendi”.
Melville, Moby Dick

“Allora Peleg aprì una cassa e, traendone gli arnesi dell’ingaggio, si mise davanti inchiostro e penna, e sedette a un tavolino. Incominciai a pensare che era giunto il momento di stabilire con me stesso a quali condizioni avrei accettato l’ingaggio per il viaggio. Ero già al corrente del fatto che nella baleniera non pagano salario, ma tutto il personale, compreso il capitano, riceve alcune quote dei profitti chiamate pertinenze; queste pertinenze sono proporzionate al grado di importanza dei rispettivi compiti. Sapevo anche che, essendo novellino della baleniera, la mia pertinenza non sarebbe stata troppo grande; ma dato che ero abituato al mare, che potevo governare una nave, impiombare una gomena e tutto il resto, non avevo alcun dubbio che, da tutto quanto avevo udito, mi sarebbe stata offerta la 257esima pertinenza, e cioè la 257esima parte dei proventi netti del viaggio, a qualunque cifra potessero ammontare. Sebbene la 257esima pertinenza fosse ciò che si dice una pertinenza piuttosto lunga, era sempre meglio di niente e, se avessimo fatto un viaggio fortunato, potevo quasi ripagarmi i vestiti che ci avrei consumato, per non parlare del vitto e dell’alloggio che per tre anni avrei avuto gratis, senza pagare un soldo” (1)H. Melville, Moby Dick, Mondadori, Milano 1986, p. 110.

In realtà Ismaele, il giovane protagonista, l’io narrante grazie al quale la vicenda della lotta infinita tra il comandante Achab e la balena bianca può essere narrata, alla fine sarà assoldato nella ciurma del Pequod a una trecentesima interessenza (o pertinenza), dopo una serrata trattativa con i due armatori, in cui il più parsimonioso dei due insisteva nell’offrirgli solamente 1/777 del bottino che la nave sarebbe riuscita a riportare a casa, in quel di Nantucket. Il compagno di Ismaele, Queequeg, che dà prova di essere un abile ramponiere, centrando alla perfezione “una distante macchia di catrame”, viene ingaggiato invece con la novantesima pertinenza, quindi a condizioni molto più vantaggiose. Oltre ai due armatori, le altre quote proprietarie della nave “erano detenute da una folla di azionisti: vedove, bambini orfani e affidati alla legge, ognuno proprietario all’incirca del valore di una testa di trave, o di un piede di plancia o di un chiodo o due della nave” (2)Ivi, p. 106..

La balena è come il maiale, si usa tutto

La vicenda del Pequod non appare certo un caso isolato, se contestualizzato con le più diffuse forme di pagamento in uso nelle marinerie tra Seicento e Ottocento. Erano però altre le forme principali di tipo salariale. Un primo tipo di contratto prevedeva il pagamento di una somma prefissata in cambio del lavoro svolto in un determinato viaggio. Erano veri e propri salari a forfait, soprattutto nei casi di viaggi brevi e prevedibili. Una seconda e più comune forma di pagamento per i marinai di lungo corso era il salario mensile. Nel primo Settecento i marinai potevano contare su salari che variavano dai 22 ai 35 scellini al mese in periodi di pace (35-55 in tempo di guerra), a fronte dello stipendio dei capitani che si aggirava sulle 6 sterline. Vi era infine una terza forma salariale, quella utilizzata sul Pequod, che era anche la meno in uso nel Settecento: il sistema dei dividendi, una forma di pagamento che aveva avuto origine nella navigazione dell’antichità ed era rimasta la forma principale per tutto il Medio Evo. Il passaggio dai dividendi ai salari era cominciato infatti solo nel Cinquecento. Pertanto, all’inizio del Settecento restava in uso solo presso pescatori, balenieri, corsari e pirati, anche se con sfumature diverse. In tutte queste categorie, pertanto, gli uomini venivano pagati con un dividendo in proporzione a ciò che si era preso, mentre una grande percentuale del prodotto andava agli armatori delle navi, in particolare nel caso della pesca (3)M. Rediker, Sulle tracce dei pirati, Piemme, Casale Monferrato 1996, p. 150.Tra coloro che adottavano il sistema dei dividendi, il mondo dei pirati spicca per egualitarismo: è questa la ragione principale, unitamente al più umano trattamento a bordo da parte degli ufficiali, che motivò l’arruolamento nelle loro fila di decine di migliaia di marittimi.

Il copyright nasce con caratteristiche più simili alla pirateria, che pure dice di voler combattere, che ai piani eleganti della filosofia. Fin da subito la legge sul copyright ha i tratti del rascal, del mascalzone e filibustiere. La sua funzione è restringere l’arena del dibattito pubblico.

“I pirati usavano il sistema precapitalista dei dividendi per ripartire le spoglie. Il capitano e il quartiermastro ricevevano da un dividendo e mezzo a due; i capocannonieri, i nostromi e gli ufficiali, i maestri d’ascia e i medici da uno e un quarto a uno e mezzo; tutti gli altri ne avevano uno. Questo sistema di paga differiva radicalmente dalla pratiche adottate nel servizio commerciale o persino nella guerra di corsa. Rappresentava un livellamento dell’elaborata gerarchia dei ranghi di paga e riduceva decisamente la disparità tra la cima e il fondo della scala […]. Lo schema rivela significativamente che i pirati non si consideravano salariati, ma gente che liberamente condivideva un rischio […]. Non tutto il bottino veniva distribuito in questo modo. Una porzione andava in un ‘fondo comune’ per gli uomini che subivano lesioni permanenti. La perdita della vista o di un arto meritava una ricompensa. Con questo sistema previdenziale i pirati tentavano di cautelarsi contro i danni causati dagli incidenti, di proteggere le competenze, di incoraggiare il reclutamento e di promuovere la fedeltà di gruppo” (4)Ivi, p. 315.

In buona sostanza, tra i pirati c’erano solo tre livelli di paga per un’ottantina di uomini, invece dei cinque o sei per quindici marinai nella marina commerciale. Insomma, i pirati abolirono il salario, perché si consideravano tra loro soci in un’impresa a rischio piuttosto che uomini che mettevano in vendita la loro forza muscolare su un libero mercato.

Che l’età aurea della pirateria (1650-1730) coincida con la nascita del copyright (1710) e con la lotta alla cosiddetta “pirateria editoriale” non può essere certo catalogato come un caso. Le imprese dei grandi pirati dell’epoca, da quelle di Capitan Kidd alle altre di Mary Bonny, erano il piatto forte dei quotidiani dell’epoca, accendendo l’immaginario popolare, e non solo delle classi più disagiate economicamente, definendo pertanto anche linguisticamente il contesto all’interno del quale verrà inquadrata in seguito la cosiddetta “pirateria editoriale”. D’altro canto, l’Inghilterra era appena uscita da un violentissimo scontro di classe durato alcune decine di anni, nel corso del quale le classi popolari e rurali avevano forgiato un’ideologia politica comunitarista ed egualitaria estremamente organica e coerente. La sirena della pirateria non poteva che diventare per queste classi, sconfitte sulla questione dei beni comuni, un approdo naturale per sfuggire al regime disciplinare che con durezza la nascente borghesia britannica cominciava a imporre nel paese. Ranter, leveller, antinomiani, pirati erano alla fine molteplici facce di una stessa medaglia: forme di resistenza proletaria. In altri termini, quel che era vietato in un luogo era invece legale in un altro. Alla fine era questo il significato di pirateria, una parola che non si legava alla cosa in sé ma al dove, alle “cose nello spazio”; un concetto che, come molti osservatori del tempo misero in rilievo fioriva “sempre alle frontiere del processo di civilizzazione” (5)A. Johns, Pirateria. Storia della proprietà intellettuale da Gutenberg a Google, Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 28.E questo sia nella costruzione di concrete utopie (Libertalia in Madagascar, la Repubblica di Salè nel Marocco atlantico, le isole della Tortuga nei Caraibi – oggi isole Cayman) sia nella produzione dei libri (in Irlanda e Olanda).

La tesi alla base del più ponderoso studio sulla storia della pirateria intellettuale apparso negli ultimi vent’anni, Pirateria, di Adrian Johns (6)Ivi, pp. 61 e seguenti., sottolinea con forza anche la contemporanea nascita della Rivoluzione scientifica e dell’Illuminismo. Invece, il copyright nasce con caratteristiche più simili alla pirateria, che pure dice di voler combattere, che ai piani eleganti della filosofia. Fin da subito la legge sul copyright ha i tratti del rascal, del mascalzone e filibustiere. Non può certo essere dimenticato che ai suoi albori il copyright è motivato in modo importante da ragioni men che nobili, perché direttamente funzionale alla censura delle idee. La sua funzione consiste nel restringere l’arena del dibattito pubblico. Sta in questo il patto che la restaurata monarchia inglese suggella con la corporazione degli stationers, delegando proprio alla ristretta e inattaccabile élite di stampatori londinesi la ferma gestione di tutto quanto viene prodotto, e quindi del dibattito stesso delle idee (7)Su questo si rimanda anche a H.A. Innis, “L’industria editoriale inglese nel Diciottesimo secolo”, in Le tendenze della comunicazione, SugarCo, Milano 1982, pp. 164-177., suscitando a più riprese anche le ire del filosofo John Locke. Incidentalmente, le migliori edizioni delle opere dei grandi nomi della letteratura inglese, e in primis di Shakespeare, saranno da qui in avanti solo quelle stampate in Irlanda. Edizioni pirata, quindi. Alle frontiere della civiltà… Come volevasi dimostrare.

Ma la tesi più importante sottolineata da Adrian Johns è che il copyright nasce in una situazione generale di no copyright, e non il contrario: “È empiricamente vero che le leggi a tutela della proprietà intellettuale sono spesso arrivate in ritardo rispetto alle pratiche di riproduzione illegale, e che in pratica tutti i loro principi fondamentali, come il copyright, sono nati come risposta alla pirateria. Affermare quindi che quest’ultima sia stata prodotta dalla dottrina giuridica, significa interpretare la storia – e quindi anche la politica e molto altro ancora – alla rovescia” (8)A. Johns, cit., p. 19..

Il profumo dei soldi

Per capire le analogie tra la fase aurea della pirateria storica e quanto sta accadendo oggi, forse è necessario far propria l’indicazione metodologica di Giovanni Falcone: “bisogna sempre seguire la pista dei soldi” per scoprire le cose che veramente contano. Ed è proprio quello che ci proponiamo.

Partiamo dalla tesi di fondo (9)Si ringrazia il Dr. Kabel per l’illuminante discussione in una piacevolissima serata di gennaio..  Oggi appare vinta l’ormai ventennale battaglia al diritto individuale alla copia. Non lo è ancora dal punto di vista giuridico, ma lo è nei fatti, nel concreto, anche se le corporation che producono contenuti non hanno per nulla abbandonato l’idea di far pagare il singolo utente fino all’ultimo soldo. Certo, ogni tanto compaiono dei fenomeni che sembrano deporre in senso contrario, come l’ultima legge sul download in Francia – la cosiddetta Hadopi, dove è prevista la possibilità di staccare dalla rete l’utente sorpreso a scaricare illegalmente i file – o le sentenze abnormi di qualche giudice che sanzionano gli utenti sorpresi a scaricare illegalmente, e questo soprattutto in realtà geograficamente periferiche. Ma sono casi residuali. Nei fatti il no copyright sta vincendo, perlomeno relativamente al diritto di download del singolo individuo. Giusto per fare un esempio, nessun giudice si sognerebbe più di andare a colpire un utente che invii a un suo pari una compilation scaricabile dei suoi brani preferiti, senza fini di lucro attivo.

Se questa inversione di tendenza aveva cominciato a emergere cinque o sei anni fa, la massa critica messa in moto da Napster nell’ormai lontano 1999 sembra quindi aver vinto la sua battaglia proprio negli ultimi tempi. Ma rischia di diventare una vittoria di Pirro, perché nel frattempo le grandi corporation che controllano i contenuti, e quindi guardano con più interesse al diritto d’autore, hanno con intelligenza cambiato obiettivo: non più alla ricerca di sentenze esemplari, hanno cominciato a rivolgere le proprie attenzioni esclusivamente verso gli intermediari, tutte quelle aziende che traggono guadagno nell’offrire all’utente la possibilità di scaricare gratuitamente o a costi irrisori ciò che desidera. Il ricavo per questi intermediari deriva da attività parallele quali la pubblicità, che accorre copiosa proprio per l’elevato traffico generato dall’attività di download. Insomma, dagli utenti ai produttori di contenuti…

Qualche caso? Mediaset che contesta a YouTube la lentezza con cui rimuove gli estratti dai propri programmi televisivi; Megaupload e Pirate Bay, pur nella loro grande differenza, contestati aspramente – e manu militare – dall’Associazione dei produttori cinematografici americani (Mpaa) (10)Sull’attività di lobbying esercitata dalla Mpaa si rimanda a F. Martel, Mainstream, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 23-38.; il contrasto tra Google e l’associazione degli editori americani, a proposito dello scanning dei libri caduti nel cono d’ombra dell’oblio, la cosiddetta zona grigia del “fuori commercio” (11)La gran parte dei contratti editoriali sono “a edizione”. Nel momento in cui il libro non è più disponibile sul mercato, il diritto di sfruttamento dell’opera torna immediatamente all’autore. Google non ha fatto altro che forzare la situazione..

Ma quante persone in Italia riescono a vivere dei proventi che la Siae garantisce? Quante persone riescono a vivere di sola creatività? Domanda dalle cento pistole: vale la pena tenere in piedi una legge sul diritto d’autore congegnata per mantenere discretamente forse solo 5.000 persone in Italia? Gli interessi in campo non sono forse altri?

Il Sopa e il Pipa (12)Lo Stop Online Piracy Act (Sopa) è una proposta di legge presentata alla fine di ottobre 2011 alla Camera dei rappresentanti statunitense., ma soprattutto l’Acta, vogliono essere corpo giuridico alla direzione di marcia intrapresa da questi interessi reali negli ultimi anni: la bomba atomica destinata ad azzerare la rendita di posizione degli intermediari. Nei suoi articoli costitutivi, infatti, l’accordo interstatale e sovranazionale Acta invita a una cooperazione tra i gestori dei diritti e i provider, attraverso “misure extragiudiziarie e alternative alle corti”. Ciò significa che le funzioni di polizia (sorveglianza e raccolta di prove) e quelle giuridiche (le pene) possono essere affidate ad attori privati, fuori della sfera giuridica tradizionalmente intesa. Inoltre, si concede ai tenutari dei diritti d’autore di ottenere i dati privati riguardanti gli utenti dei servizi forniti dai provider, senza alcuna decisione preventiva di un giudice che li autorizzi in tal senso. Sanzioni di carattere civile possono essere fatte pesare sugli intermediari tecnici e usate quindi per costringerli ad accettare la “cooperazione” su questi temi. In sostanza, è prevista l’edificazione di un corpus giuridico sovranazionale che permetta alle singole autorità doganali di agire in modo decisionista, addirittura anche tramite il sequestro e la distruzione di beni che a loro insindacabile parere violino il diritto d’autore, senza alcuna preliminare autorizzazione da parte dei giudici.

Si tratta di un intervento – se verrà approvato – che avrà un peso enorme sulla civiltà giuridica del mondo intero: i poteri forti economici potranno finalmente contare su un proprio canale “esecutivo” che li rappresenti direttamente, senza dover sottostare ai tempi e alle garanzie tipiche dei tribunali. Adieu monsieur Montesquieu.

Ritorno alla balena

Al di là comunque delle valutazioni di carattere generale, è bene sottolineare che la pericolosità di un intervento così drastico non tocca solo la sfera del copyright. Nei fatti ribalta in modo profondo gli equilibri attuali di potere di tutto ciò che si muove e fa business nel mondo web. Ed è proprio qui che hanno origine le difficoltà che questi progetti incontrano nel tradursi così come sono in legge: anche gli interessi degli intermediari hanno la forza di farsi sentire e sono in grado di mobilitare campagne di opinione globale, come per certi versi testimoniano le mobilitazioni recenti attivate da Wikipedia, o gli attacchi hacker in difesa di Pirate Bay e, in misura minore, di Megaupload.

By the way, ormai il digitale si sta rovesciando nel mondo materiale. Lo stanno a dimostrare anche le importanti mobilitazioni contro l’approvazione del trattato Acta che si sono tenute in Polonia, Estonia e Slovenia nel gennaio 2012. Ma anche, su un altro versante, non si può sottodimensionare l’importante dato relativo alla nascita del Pirate Party in molti paesi europei, e ai suoi successi elettorali in Svezia e Germania (in questo paese beneficiando della storica presenza del Chaos Computer Club, attivo fin dal 1984). Ormai la rappresentanza degli interessi digitali travalica le forme tradizionali della politica e si auto-organizza in modo diretto. Insomma, tutti ormai tendono a rappresentare in modo diretto i propri interessi: i detentori di copyright, gli intermediari, gli utenti. È questa la prima lezione importante che emerge dalla fase attuale.

La nuova centralità assunta dalle grandi corporation detentrici di copyright va di pari passo naturalmente al mutamento in corso in ambito produttivo. Nonostante il fiume retorico sulla “democraticità degli strumenti di produzione” ingenerato dal web e prima ancora dal pc, in realtà negli ultimi anni si è assistito a una metodica ricolonizzazione dell’immaginario collettivo da parte delle grandi produzioni. Il piccolo creatore individuale e l’autoproduzione in genere sono stati sbalzati fuori da qualsivoglia centralità dei processi di costituzione dell’immaginario collettivo (13)La trasformazione dei processi produttivi è andata di pari passo con la contemporanea e ben più decisiva trasformazione dell’ambito distributivo, di cui i cinema multisala sono stati a conti fatti la punta di lancia.. Non solo. Il produttore riporta a sé sempre più parti di diritto intellettuale che apparterrebbero invece alle figure creative. È un dato che emerge in primis nella produzione del software: il lavoro dei programmatori, anche fuori dell’orario di lavoro, appartiene al datore di lavoro. Ma anche nel caso del cinema. Accanto al regista, allo sceneggiatore, agli attori, anche una figura come la costumista, per esempio, avrebbe diritto al riconoscimento di una percentuale dei diritti di incasso del film. Nella realtà, invece, ben volentieri scambia questi diritti, monetizzandoli, con un riconoscimento economico più elevato, che gli viene anticipato dal produttore nel momento contrattuale (14)Con la classica eccezione dei film indipendenti, quali The Artist, in cui tutte le principali figure produttive hanno accettato un ingaggio minore, in cambio di maggiori percentuali sugli incassi, perché credevano nella bontà del film..

È quindi la produzione a incamerare sostanzialmente gran parte dell’incasso del botteghino, prima, e poi delle vendite successive in dvd, spin-off, merchandising, poi. Il rischio imprenditoriale oggi esige sempre più ritorni “certi” e li pretenderà sempre più nel prossimo futuro. Insomma, siamo tornati alla logica della balena. La balena, ossia il film o la produzione televisiva, è suddivisa in tante pertinenze. Ma l’armatore compra le pertinenze altrui e più in generale agisce in modo protagonista comprimendo e comprando l’usufrutto degli interessi legittimi degli aventi diritto. La produzione insomma continua a guadagnare sempre più campo nella suddivisione della torta degli interessi legati al diritto d’autore, in una forma di bradisismo pro domo sua. La cosa sorprendente in tutto questo è che interessi antagonisti e contraddittori possano essere rappresentati da società, come in Italia la Siae, che tengono insieme autori e produttori. Di fatto un ossimoro, retaggio di una visione degli interessi contrapposti che si armonizzano in una struttura di tipo corporativo.

Anche qui mi punge una domanda irrituale. Ma quante persone in Italia riescono a vivere dei proventi che la Siae garantisce? Se per vivere immaginiamo una cifra intorno ai 40/50 mila euro lordi, ipotizzerei un numero che non supera le cinquemila persone. Per tutti gli altri lavoratori della conoscenza, invece, i proventi Siae garantiscono al più un introito saltuario, una fonte di reddito complementare e aggiuntiva, se non addirittura esiziale. In una situazione economica caratterizzata dal lavoro flessibile e dalla molteplicità dei redditi che solo nel loro insieme vanno a comporre un “normale salario” – siamo il paese delle sei milioni di partite iva, non dimentichiamolo – quante persone riescono a vivere di sola creatività? Domanda dalle cento pistole: vale la pena tenere in piedi una legge sul diritto d’autore così congegnata per mantenere discretamente forse solo 5.000 persone in Italia? Gli interessi in campo non sono forse altri? Ben più strutturali e importanti?

Armato di questa curiosità, faccio mia anche un’altra affermazione provocatoria: vent’anni fa il problema del copyright non esisteva. Certo, dal punto di vista giuridico esisteva sì, e da tre secoli per di più. Ma è indubbio che non c’era questa enfasi, questo allarme sociale. Non c’è giorno difatti in cui sui quotidiani non compaia una notizia su infrazioni di copyright, alternativamente nelle pagine degli spettacoli, dell’economia, dell’informatica, persino nella terza pagina. La digitalizzazione dei contenuti ha fatto sì che aumentasse il presidio rivolto a scoprire le infrazioni anche nelle sue dimensioni molecolari. Più che per gli aventi diritto, oggi l’applicazione rigida del copyright genera reddito per tutti coloro che lavorano nel grande circuito della repressione, della sicurezza informatica, della propaganda, del diritto. È questo circuito a essere il primo beneficiario del nuovo allarme sociale. Con lucidità preveggente già vent’anni la Bsa (la Business Software Alliance, il cartello che raccoglie alcune delle più grandi aziende informatiche al mondo) aveva affidato a ditte di curatela della propria immagine la propria presenza su mercati importanti come quello italiano. Non è certo un caso.

Insomma, il copyright è diventato un tema di cruciale importanza, oggi. Uno degli architravi giuridici su cui si reggono i grandi asset dell’immediato futuro, assieme a energia, acqua e tecnologie. Industria marittima del Settecento e comparto informatico hanno alla fine un medesimo punto in comune, perché entrambe si trovano collocate nel punto alto di accumulazione: sono entrambe tecnologie cruciali della loro epoca. E se l’industria dell’infotainment è diventata la balena dei nostri tempi, il copyright dal canto suo è ormai il coltello con cui farla a pezzi, la sua pietra angolare. I giochi sono cambiati in modo decisivo. La guerra dei mondi è iniziata. Non ci sono né buoni né cattivi, solo affari. C’è solo una cosa certa, non ci saranno prigionieri.


Raf Valvola Scelsi

Lavora come editor in una grande casa editrice. Ha curato/scritto: Cyberpunk (1990), No copyright (1993), Ribellione nella Silicon Valley (1997) e, con Toni Negri, Goodbye Mr. Socialism (2006).

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