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Animazione

La curiosa storia dell’animazione coreana

Quando pensiamo alla Corea del Sud, è naturale associarla ai cartoni animati. Ma anche in questo caso il consolidamento di un linguaggio e un’industria non è stato facile.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 21 - Distretti produttivi emergenti del 05 giugno 2017

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K-animation non è solo una forma più sintetica e un po’ à la page per definire l’animazione sudcoreana. Ma sottintende un’autonomia produttiva e creativa, una peculiarità grafica e narrativa costruita mattone dopo mattone nel corso dei decenni. Un percorso apparentemente lungo e tortuoso, ma assai celere se paragonato alle più ampie parabole di colossi come Stati Uniti, Giappone e Francia. Per non smarrirsi tra i meandri della k-animation, nelle diramazioni tra piccolo e grande schermo, tra animazione tradizionale e computer grafica, è necessario fare qualche passo indietro, ai primordi dei lungometraggi cinematografici: la prima onda (1967-1972) e poi il sci-fi boom degli anni Settanta e Ottanta, quando l’animazione sudcoreana era una sorta di filiazione dell’industria degli anime nipponica, nonché un vitale serbatoio di manodopera a basso costo per le case di produzione degli Stati Uniti e di mezzo mondo.

1967

Esce nelle sale Hong Gil-dong di Shin Dong-heon, prima pellicola di animazione prodotta dalla Corea del Sud. Il ritardo rispetto alle altre industrie cinematografiche nazionali è evidente: sono passati tre decenni da Biancaneve e i sette nani della Disney (1937), primo lungometraggio di animazione tradizionale a colori, e anno dopo anno si sono accodate Spagna (Garbancito de la Mancha, 1945), Danimarca (L’acciarino magico, 1946), Russia (The Humpbacked Horse, 1947), Italia (La rosa di Bagdad e I fratelli Dinamite, 1949), Francia (Jeannot l’intrépide, 1950) e Inghilterra (La fattoria degli animali, 1954). Cina e Giappone negli anni Quaranta avevano già prodotto il loro primo lungometraggio animato, anche se in bianco e nero: Princess Iron Fan (1941) di Wan Guchan e Wan Laiming e Momotaro’s Divine Sea Warriors (1945) di Mitsuyo Seo. Mentre le principali cinematografie quindi sviluppavano industrie più o meno fiorenti, Hong Gil-dong vede la luce in un contesto quasi pionieristico, costellato di ostacoli tecnici e artistici e votato soprattutto alla produzione di spot pubblicitari: il risultato finale è tuttavia interessante e il pubblico apprezza, premiando la pellicola al box office nazionale.

Nello stesso anno, Gang Tae-ung dirige il lungometraggio di marionette Heungbu and Nolbu. Entrambe le pellicole sono tratte da racconti e leggende tradizionali sudcoreane: un possibile punto di partenza, una prima onda abbastanza travolgente che si protrae fino ai primi anni Settanta, sospinta dalla legge sulle quote che favorisce la visibilità dei film nazionali e dalla pragmatica dinamicità della Seki Productions, casa di produzione di Hong Gil-dong e padrona del mercato in questa fase iniziale. La Corea del Sud introduce proprio nel 1967 lo screen quota system, una legge che impone visibilità e spazi significativi per le pellicole nazionali a case di produzione, distribuzione ed esercenti. Il rovescio della medaglia, ancora più evidente nel cinema d’animazione, è il proliferare dei quota quickies, film di bassa o bassissima qualità che servono sostanzialmente per far quadrare i conti della legge. Tra il 1967 e il 1972 escono così nelle sale Hopi And Chadol Bawi (1967), Golden Iron Man (1968), General Hong Gil-dong (1969), Treasure Island (1969), Prince Hodong and the Princess of Nakrang (1971), Lightning Atom (1971) e War of the Monsters (1972). Il mancato salto di qualità grafico e narrativo, la diffusione dei televisori e la fascinazione del pubblico per le serie statunitensi e nipponiche frena bruscamente la crescita dell’animazione cinematografica sudcoreana, contribuendo al radicale cambio di direzione successivo.

1976

Dopo quattro anni di stallo, il nuovo campione del cinema animato sudcoreano è un robottone gigante di chiara derivazione nipponica: Robot Taekwon V di Kim Cheong-gi pesca a piene mani dalle serie robotiche di Gō Nagai, soprattutto Mazinga Z e Il Grande Mazinger, semplificandone tratti grafici e narrativi. E così, mentre la stagione d’oro dei samurai d’acciaio sta tramontando (Nagai si separa dal colosso Tōei Animation dopo la collaborazione per le serie Gackeen, il robot magnetico e Gaiking, il robot guerriero, entrambe del 1976), l’industria animata sudcoreana trova continuità produttiva nell’imitazione e nel legame con il magmatico universo degli anime. A differenza della prima onda di Hong Gil-dong e dei suoi epigoni, caratterizzata da storie tradizionali e un’inevitabile mancanza di pianificazione, il boom degli anni Settanta e Ottanta è segnato dalla fantascienza e da un allargamento e una stratificazione creativa e produttiva. Ai successi in batteria dei vari Robot Taekwon V: Space Mission (1976), Robot Taekwon V: Underwater Rangers (1977), Taekwon Boy Maruchi Arachi (1977), Robot Taekwon V vs. Golden Wings Showdown (1978), Gold Wing 123 (1978), Fly, Space Battleship Geobukseon (1979), Super Taekwon V (1982) e 84 Taekwon V (1984) si affiancano il primo vero franchise Dooly the Little Dinosaur, personaggio per bambini creato nel 1983 dal disegnatore Kim Soo-jung, e il crescente lavoro di intercalazione e service per il mercato internazionale, in primis Giappone e Stati Uniti. La dipendenza estetica ed economica dall’industria degli anime produce modesti risultati a breve termine – Gold Wing 123 e Fly, Space Battleship Geobukseon sono sbiadite copie carbone delle storie, dei character design e dei mecha design della gloriosa Tatsunoko e delle space opera di Leiji Matsumoto – ma poggia le basi per la sopravvivenza duratura e il consolidamento dell’animazione sudcoreana, per la specializzazione dei suoi animatori, per l’ampliamento della strutture e dei mezzi a disposizione.

La notevole mole di produzioni giapponesi per il piccolo schermo, per l’home video e per il cinema è una delle chiavi di volta dell’industria sudcoreana, servitore silenzioso per almeno un trentennio. Troviamo animatori e studi sudcoreani nei credits di titoli nipponici dalla seconda metà degli Sessanta (le animazioni non particolarmente complesse di Fantaman e Bem il mostro umano), fino alle prestigiose collaborazioni dello studio di Seoul DR Movie con lo Studio Ghibli di Miyazaki e Takahata (Princess Mononoke, La città incantata), con Madhouse (Millennium Actress, Summer Wars), Sunrise (Cowboy Bebop: The Movie), Studio Gonzo (Last Exile, Samurai 7) e con Production I.G. (Giovanni’s Island).

Discorso non dissimile per il florido mercato nordamericano. Una larga fetta dell’immaginario infantile e adolescenziale a stelle e strisce è disegnato in Corea del Sud: le animazioni per il videogioco su laserdisc Space Ace di Don Bluth, la serie televisiva tratta dall’altro celeberrimo arcade Dragon’s Lair, l’ennesimo trastullo lucasiano Star Wars: Droids, gli improbabili Hulk Hogan’s Rock ‘n’ Wrestling e Chuck Norris’s Karate Kommandos, persino le irriverenti creazioni di Matt Groening I Simpson e Futurama. Overseas production, subappalto e intercalazione sono le parole magiche che hanno legato gli animatori coreani all’animazione mondiale, in un capillare giro del mondo: dopo Giappone e Stati Uniti, il Belgio (I Puffi), l’Italia (Aida degli alberi), l’Inghilterra (Quando soffia il vento) e così via. La lista di serie tv, cortometraggi, lungometraggi per il piccolo e grande schermo passati per Seoul e dintorni è pressoché infinita.

Il declino dello sci-fi boom ha molteplici ragioni: la qualità grafica e soprattutto narrativa ancora tentennante; il proliferare degli apparecchi tv a colori e la consueta preferenza del pubblico per le serie giapponesi e statunitensi; le maglie censorie della dittatura militare, che non vedeva di buon occhio la fantascienza. Infine, un’occasione purtroppo mancata è il flop dell’ambiziosa coproduzione con gli Stati Uniti Starchaser: La Leggenda Di Orin (1985), pellicola che mescolava animazione tradizionale e computer grafica, con l’aggiunta del 3D. Un piccolo cult, misconosciuto in Italia.

La notevole mole di produzioni giapponesi per il piccolo schermo, per l’home video e per il cinema è una delle chiavi di volta dell’industria sudcoreana, servitore silenzioso per almeno un trentennio. Discorso non dissimile per il florido mercato nordamericano: una larga fetta dell’immaginario infantile e adolescenziale a stelle e strisce è disegnato in Corea del Sud.

1986-1998

I destini dell’animazione sudcoreana nella seconda metà degli anni Ottanta e nel corso dei primi anni Novanta sono ancora legati a subappalti e intercalazioni, più che a interventi mirati del governo. Studi molto attivi come AKOM Production di Nelson Shin (The Transformers: The Movie, Empress Chung), Hanho Heung-Up o Daewon Media – che, legata alla Toei Animation, realizza le intercalazioni di tre serie che sottolineano lo stretto legame tra industria degli anime e animatori coreani, Candy Candy (1976-1979), Capitan Harlock (1978-1979) e Galaxy Express 999 (1978-1981) – non possono ancora contare su una vera e propria struttura industriale e culturale. E se eventi come le Olimpiadi di Seoul del 1988 contribuiscono al rilancio di una produzione stagnante quantomeno sul versante tv, bisogna attendere il biennio 1994-95 per l’agognata svolta politico-industriale: ma è tutta la Corea del Sud, finalmente libera dal giogo militare, a intraprendere un rapido e sorprendente processo di modernizzazione e crescita, tanto da uscire persino rafforzata dalla crisi finanziaria asiatica del 1997-98.

La creazione nel 1995 del Seoul International Cartoon and Animation Festival (SICAF) e dei Korean Animation Awards, oltre ai fondamentali sgravi fiscali, sono alcuni dei provvedimenti che il governo sudcoreano attua in favore dell’animazione, finalmente considerato un settore dalle straordinarie potenzialità produttive. Nasce un’industria dell’animazione sudcoreana, sospinta anche dalla positiva accoglienza al box office della pellicola per adulti Blue Seagull (1994) e dei successivi Hong Gil Dong Returnes (1995), Red Hawk: Weapon of Death (1995), Armageddon (1996) e Hamos, the Green Chariot (1997). Alla definizione di k-animation, però, manca ancora un tassello fondamentale.

1999. La new wave del cinema sudcoreano

Se per il cinema live action è Shiri (1999) di Kang Je-gyu il titolo spartiacque, per l’animazione su grande schermo bisogna aspettare fino al 2002, con il fantasy sentimentale My Beautiful Girl, Mari di Lee Sung-gang. La svolta è epocale, non solo per la fluidità e l’eleganza delle animazioni o per la solidità della storia, ma anche per le scelte del character design, totalmente slegate dall’ingombrante tradizione nipponica – paradossalmente, era questo il grande limite di Hong Gil Dong Returnes, che pochi anni prima ancora scimmiottava l’estetica nipponica, trasformando un personaggio del folklore sudcoreano in un tipico eroe adolescente degli anime.

Anno dopo anno si susseguono pellicole degne di interesse, e la produzione si rinvigorisce anche numericamente; stili, target e afflati autoriali si moltiplicano; cinema e televisione crescono a braccetto, sospingendosi vicendevolmente. La k-animation inizia a guadagnare visibilità mediatica, inanellando premi e riconoscimenti, sostenuta dal Korean Film Council (KOFIC): My Beautiful Girl, Mari vince il Festival di Annecy, superando nelle preferenze dei giurati il colosso nipponico Metropolis, in parte realizzato in Corea del Sud. Le porte dei grandi festival aprono all’animazione sudcoreana. Nel 2011 Leafie. La storia di un amore vince l’Asia Pacific Screen Award, mentre nel 2014 sono ben due i titoli presenti nella cinquina: The Satellite Girl and Milk Cow e On the White Planet.

L’industria si muove e si espande a trecentosessanta gradi, fidelizzando il pubblico fin dalla tenera età: Pororo the Little Penguin, Robocar Poli, The Airport Diary, Canimals e Buru & Forest Friends sono solo alcune delle serie e dei personaggi calibrati per l’età prescolare. Morbidi, coloratissimi, tondeggianti, rassicuranti. La k-animation cavalca i franchise come Pucca, esportando i propri prodotti in più di cento nazioni: una ramificazione che abbraccia animazione tradizionale, computer grafica, animazione in flash, stop motion, rotoscopio. Televisione, cinema, cellulari, console e internet sono i veicoli per serie, cortometraggi e lungometraggi per bambini, ma anche per adulti, come i violenti e drammatici The King of Pigs (2011), Padak (2012), The Fake (2013) e l’atteso Seoul Station (2016), dal character design spigoloso, duro, cattivo, perfino orrorifico. Come Giappone, Stati Uniti e Francia, la Corea del Sud diversifica la propria produzione, percorrendo sia il sentiero dell’animazione tradizionale che l’autostrada della computer grafica, aprendosi alle coproduzioni internazionali, all’animazione per il web, ai talenti e alle idee di altri paesi. La k-animation è anche l’annuale Cartoon Connection, forum che dal 2010 vuole incentivare la collaborazione tra Europa, Corea e le altre nazioni asiatiche emergenti, come Malesia e Vietnam. Un’animazione senza confini, capace di riempire i palinsesti occidentali, di intercettare la richiesta di serie per bambini, di cavalcare il fenomeno dei webtoons (fumetti online), fino ad arrivare al lungometraggio Timing, presentato al Busan International Film Festival e uscito in sala a dicembre 2015.

Mentre il governo continua a sostenere il settore, annunciando ingenti investimenti già previsti fino al 2019, l’animazione sudcoreana si allarga a macchia d’olio, guardando al futuro: assai significative sono le coproduzioni con Francia e Giappone per la serie in computer grafica Miraculous. Le storie di Ladybug e Chat Noir (2015), trasmessa da Disney Channel per un pubblico di adolescenti; con Cina e Giappone per il lungometraggio cinematografico Dai Ha (2016); con Stati Uniti e Canada per il sequel The Nut Job 2 (2017). In uno sviluppo tecnologico, economico e organizzativo che non dimentica qualità, cultura e tradizioni, come testimoniano le scelte narrative e grafiche delle opere dello Studio MWP Green Days: Dinosaur and I (2011) e The Road Called Life (2014). Insomma, Hong Gil-dong e Taekwon V possono essere fieri dei loro nipotini.


Enrico Azzano

Cofondatore e direttore editoriale di Quinlan.it, collabora con testate cartacee e online, italiane ed estere. Membro dell'Asian Film Festival dal 2006 al 2008, ha curato i volumi e le rassegne Nihon Eiga. Storia del Cinema Giapponese dal 1970 al 2010 e Nihon Eiga. Storia del Cinema Giapponese dal 1945 al 1969. Con Andrea Fontana ha scritto Studio Ghibli. L'animazione utopica e meravigliosa di Miyazaki e Takahata (Bietti, 2015).

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