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Intervista a Mattia Torre

Una lunga chiacchierata con un autore che, da solo o in compagnia, ha tracciato strade innovative per la fiction italiana. Da Boris a La linea verticale, tra fallimenti e trionfi.

Esordisce come sceneggiatore di Piovono mucche, diretto da Luca Vendruscolo nel 2002, ma Mattia Torre sfonda insieme all’amico – e a Giacomo Ciarrapico – con la serie cult Boris, probabilmente il punto più alto raggiunto dalla comedy italiana televisiva, andata in onda per stagioni su Fox dal 2007 al 2010. I tre tornano a lavorare insieme a Boris. Il film (2011) e a Ogni maledetto Natale (2014), esperimenti che però non travolgono il botteghino. Nel frattempo Torre si fa strada, questa volta in solitario, a teatro con spettacoli come Qui e ora, 456 e Il migliore, quest’ultimo interpretato da Valerio Mastandrea, che con Torre aveva già collaborato su Buttafuori e che lo accompagna nella nuova avventura televisiva di La linea verticale. Medical dramedy vagamente autobiografico, realizzato per Raitre e diffuso però prima, nell’interezza dei suoi otto episodi, su Rai Play, La linea verticale è anche un libro, un vero e proprio progetto multimediale, di cui Torre cura anche la regia. L’anno prima c’era già stato un ritorno in tv, ma solo come co-sceneggiatore e co-ideatore di Dov’è Mario, miniserie di Corrado Guzzanti per Sky. La linea verticale è poi il primo frutto della collaborazione con Giorgio Tirabassi, per cui Torre sarà tra gli autori della sceneggiatura del primo lungometraggio da regista, Il grande salto. Abbiamo chiacchierato con lui, percorrendo a ritroso la sua carriera, a partire proprio da La linea verticale.

 

Nei tuoi lavori hai sempre avuto uno sguardo disilluso sul mondo e sull’Italia. Questa ultima fatica segna una svolta?

Quando sono precipitato in questa situazione, in questo mondo, devo dire che il reparto in cui mi trovavo mi ha notevolmente stupito. Uno dei motivi per cui ho pensato di scrivere questa storia era la sua efficienza in relazione con il Paese in cui viviamo, che invece è così sofferente, proprio per la malasanità e altri numerosi esempi di sciatteria. Quindi in La linea verticale c’è in effetti qualcosa di più edificante, ma non posso sapere come andrà avanti la mia carriera, non direi che si tratti di una svolta. Anche perché non è una questione di postura, sarebbe cinico di volta in volta volere solo fare satira su aspetti negativi e deprimenti del Paese o del presente. Semplicemente è successo che questa storia avesse un altro respiro, un altro approccio, che raccontasse un’altra cosa. La sento in continuità con il mio lavoro, perché presenta pezzi di realtà che ci immaginiamo in un modo e invece sono diversi. Che siano migliori o peggiori poco cambia, è la sorpresa di scoprire un mondo che mi interessa.

Com’è nata l’idea di realizzare un libro insieme alla serie?

Avevo scritto, prima delle sceneggiature, i trattamenti in modo molto dettagliato, quasi letterario. Un amico ed ex agente letterario mi ha consigliato di pubblicarli, e siccome avevo un’opzione per Baldini & Castoldi è nata questa versione. Poi la serie si è concretizzata, ma una volta ultimata la produzione mi sono dedicato al libro. Non saprei dunque dire cosa sia nato prima e dopo. Il libro comunque non ha l’andamento del romanzo canonico, perché è un racconto che nasce per immagini, non è un romanzo classico, e a me piace che sia così: veloce, teso, stringato, senza appelli, soprattutto perché affronta un tema molto emotivo. Per fortuna, pure con questo andamento particolare, sta piacendo.

“A me interessava che il protagonista, un quarantenne di cui non sappiamo la professione, il cognome, la provenienza socioculturale, fosse un individuo X che finisce in questo mondo ospedaliero. Ho tentato di universalizzare il personaggio. C’è la moglie perché è un pezzo di lui, un altro suo cuore pulsante, ma parenti e amici sembravano una distrazione. Restiamo sul palcoscenico del reparto”.

Il protagonista e sua moglie in La linea verticale sono, direi intenzionalmente, quasi gusci vuoti in cui lo spettatore possa scivolare. Perché questa scelta?

A proposito ancora del libro, questo lì è ancora più marcato. Comunque a me interessava che il protagonista, un quarantenne di cui non sappiamo la professione, il cognome, la provenienza socioculturale, fosse un individuo X che finisce in questo mondo ospedaliero. Ho tentato di universalizzare il personaggio. Luigi è molto diverso da me, io non sono così, e mia moglie ha fatto più di quello che fa Elena nella storia, ma mi interessava raccontare due persone che sono all’improvviso travolte da questa sfortuna. Non volevo parlare di me anche perché sono stato molto appoggiato e coccolato da molti amici, ma non tutti hanno questo privilegio, e preferivo invece parlare di qualcuno senza una grande rete affettiva. Del resto, scrivendo mi è stato subito chiaro che il mondo esterno fosse davvero poco interessante. C’è la moglie perché è come un pezzo di lui, è un altro suo cuore pulsante, ma parenti e amici mi sembravano una distrazione. Siamo e restiamo sul palcoscenico del reparto, dove gli altri personaggi rispondono a tipologie umane più precise, sono figure meno aperte del protagonista. Che comunque, per quanto inizialmente quasi indefinito, prende lentamente corpo: dai suoi ragionamenti e dalle sue elucubrazioni intellettuali impariamo a conoscerlo.

Proprio tra le riflessioni di Luigi, si dice che nel reparto cessano le differenze del mondo esterno e si diventa tutti uguali. È stata la tua esperienza?

Sì, ma credo non sia una cosa unicamente mia: ci sono quaranta persone in pigiama, tutti in una condizione più o meno penosa, tutti pazienti in un luogo che ha regole sue. Per quello nella serie si parla di istituzione totale, come una prigione ma dove vai volontariamente, per curarti. C’è giocoforza un livellamento. Nel mio reparto c’erano intellettuali e carrozzieri, ma non si percepiva differenza sociale, il rapporto era orizzontale, c’erano una solidarietà e una compartecipazione della stessa realtà.

Per la prima volta ti sei cimentato con la possibilità di una fruizione da binge watching. Quando è stato deciso questo modello di diffusione della serie e che cosa ha significato per te come autore?

C’era già stato il precedente di Non uccidere e l’ho trovata una soluzione affascinante, perché si rivolge a due pubblici diversi come età: Rai Play ha 4 milioni di iscritti under-cinquanta, mentre la rete ha una platea più adulta, quindi sono due audience che in teoria non confliggono. Direi che ha funzionato, ho visto un grande entusiasmo per il fatto che, come con le serie di Netflix, ci si può sparare tutta intera La linea verticale, si può fare la maratona. È una decisione che mi è stata proposta e ho accettato subito, ancora prima delle riprese, ma sulle mie decisioni di autore non ha impattato per nulla.

Tra la serie e il libro ci sono alcune piccole differenze, per esempio Amed in tv non è somalo e il personaggio di Tirabassi non è più un ciccione…

Nel caso di Marcello mi ero fissato come un demente sul fatto che dovesse avere la pancia, poi ho capito che poteva comunque farlo Giorgio, che stavo valutando per altri ruoli. E ne sono felicissimo perché è stato straordinario, il personaggio gli calza perfettamente. Nel caso di Amed pensavo a un somalo perché volevo un contrasto più esplosivo tra il fatto che fosse un antiquario da anni eppure fosse continuamente scambiato per un migrante, però noi non abbiamo una tradizione di attori africani in Italia. Ho dovuto fare mesi e mesi di casting, scomodando anche attori francesi che pure si sarebbero prestati a recitare in italiano, ma restavo poco convinto. Alla fine mi sono imbattuto in Babak Karimi che è fenomenale. Un attore bravissimo e una persona di tale spessore che sono diventato pazzo di lui e ho cambiato il personaggio da somalo a iraniano. Anche di questa scelta sono molto felice.

In alcune tue opere c’è un forte contrasto tra due personaggi, anche solo dal punto di vista ideale, ovviamente in Dov’è Mario? e in Qui e ora, ma pure in Boris dove l’iniziale entusiasmo dello stagista si scontra con un mondo del tutto cinico. In La linea verticale invece, a parte per il divertente siparietto tra chirurgo e oncologo, sembra mancare il conflitto, che secondo i manuali di sceneggiatura è una specie di dogma irrinunciabile. Come hai deciso di farne a meno?

Tutta la serie è nata grazie al coraggio di Lorenzo Mieli che l’ha voluta. Pensavo di farne uno spettacolo teatrale perché la temperatura, il tipo di mondo, il grado di surrealtà della storia – per come volevo declinarla – secondo me si prestavano molto al teatro. Poi Mieli mi ha fatto cambiare idea, dicendomi: “È arrivato il tempo per osare molto anche in una serie tv, siamo pronti per fare un passo in avanti”. Lo ringrazio per questo: oggi sono entusiasta di aver fatto una serie. È vero che l’assenza di conflitto è stata un azzardo, come del resto è immergere la vicenda per otto puntate in un reparto oncologico, da cui non si esce mai. Anche da un punto di vista della struttura degli episodi non sono mai stato così libero e sfacciato: si passa da una digressione sociologica a una scena più comica, a momenti più drammatici. Peraltro non è nemmeno il tipo di reparto dove si muore, perché anche se si viene operati e ogni intervento può essere più o meno rischioso, non è E.R. o Grey’s Anatomy, ha un’altra atmosfera.

Camminando a ritroso, come hai lavorato con Guzzanti in Dov’è Mario?

C’è stato un lavoro molto lungo di scrittura ma poi, per una serie di problemi metodologici, la serie è diventata qualcosa di diverso. Avevamo pensato a otto puntate da mezz’ora, che invece sono state ridotte a quattro e questo ha cambiato la drammaturgia e l’andamento, con una mia piccola sofferenza da sceneggiatore. Per il resto lavorare con Corrado è stato fantastico: non tutti sanno quanto lui sia uno straordinario sceneggiatore, coltissimo, divoratore di serie tv, con un gran senso della struttura narrativa. Ho visto nascere gag e battute straordinarie, era l’equivalente di stare al Cern e assistere a agli esperimenti. Fin dall’inizio comunque non avevo l’intenzione di dirigere Dov’è Mario?, volevo solo scriverla, peraltro il periodo delle riprese è poi stato anche quello in cui sono finito in ospedale…

Qual è la tua visione del rapporto tra le due personalità nella serie, dove la superciliosità dell’intellettuale finisce per rendere simpatica l’irruenza cafona e pure razzista del suo alter ego?

Credo che questa storia tratti un tema molto profondo che riguarda tutti: il limite della propria integrità morale e culturale. Siamo in un’era di rimescolamento di valori, non ci sono più le ideologie. Oggi l’intellettuale si trova a votare X Factor, cosa un tempo impensabile. C’è uno sdoganamento di tutto, ed è molto pericoloso (anche il renzismo è una forma di sdoganamento a mio giudizio inquietante). La cosa che mi commuove di più di Dov’è Mario? è quando Bizio, che ha raggiunto il dominio su Bambea, ha conquistato tutto e può trombare, guadagna eccetera, scopre di avere grande nostalgia – come quella che possiamo avere della scuola – di quel pezzo che in realtà gli manca. Lo trovo molto profondo.

456 è un progetto del tutto anomalo: un testo teatrale che ha una sorta di prosecuzione in pillole tv che poi, portate online, sono fruite come una webseries teatrale, cosa già per se piuttosto unica. Come si è sviluppato questo percorso e cosa pensi del fatto che la gran parte del pubblico avrà visto solo la versione web o tv?

La versione web è stata del tutto casuale, perché Serena Dandini ha spostato il suo programma su La7 e lì Andrea Salerno, allora capo progetto e autore, mi ha chiesto di fare queste pillole anche per il web. Era un esperimento assurdo, ma mi sembrava divertente, l’ho fatto con gioia. Va detto però che hanno un tono molto diverso dallo spettacolo, che è più animato, vitale e violento, mentre le pillole sono quasi horror, con un’atmosfera nera. Generalmente non mi spiace affatto che una stessa storia possa avere più declinazioni in sedi diverse, uno spettacolo teatrale, una serie, un libro… Come dicevo, anche La linea verticale è stata quasi un monologo teatrale.

Venendo infine a Boris: si parla sempre della scrittura più che della messa in scena. Quali sono stati invece i modelli, ammesso ce ne siano stati, che avete preso in considerazione per la regia?

La regia di Boris è molto semplice, al servizio della storia. Avevamo il desiderio di raccontare quel tipo di mondo e soprattutto l’umanità dei personaggi, quindi siamo stati loro parecchio addosso. Non è una regia visionaria, è quasi una prosecuzione della scrittura, che continuavamo sul set. Curare la regia in tre è da veri psicopatici ed è una cosa che cerchiamo di non fare più. Riferimenti non ce ne sono stati, né nella scrittura né nella regia. Non è questione di presunzione, ma viviamo in un Paese un po’ schiavo del passato e della pur straordinaria commedia all’italiana. Mentre è stimolo e missione della scrittura stare addosso al presente. Poi chiaramente tutti quanti siamo portatori di qualche eredità, che ci sta dentro, nell’inconscio. Però non avere riferimenti precisi e non procedere in un solco per me è molto entusiasmante, anche a costo di rischiare e di sbagliare.

“Sono entusiasta di aver fatto una serie. È vero che l’assenza di conflitto è stata un azzardo, come del resto è immergere la vicenda per otto puntate in un reparto oncologico, da cui non si esce mai. Anche da un punto di vista della struttura degli episodi non sono mai stato così libero e sfacciato: si passa da una digressione sociologica a una scena più comica, a momenti più drammatici”.

Cos’è successo dopo Boris, e perché è passato così tanto tempo per vedere altri tuoi e vostri lavori? So che c’è stato il tentativo di una serie con Fox più o meno sui portaborse della politica italiana, ma non è mai andata da nessuna parte, e immagino ci siano stati anche altri progetti…

Quello della serie politica è un capitolo malinconico: ci abbiamo lavorato un anno e mezzo, e per noi era una bomba atomica, una specie di Boris ambientato in un immaginario ministero dell’inclusione sociale. Il meccanismo era lo stesso, con l’ingresso di un giovane preparatissimo – mi pare in veste di co.co.pro. – in un mondo allucinante. Ci eravamo documentati tantissimo e avevamo scritto altrettanto, ma Fox non ha avuto le risorse, ci sono stati vari problemi e la cosa è rimasta congelata. Poi ahimè negli anni è un po’ scaduta perché – anche se non eravamo aggrappati all’attualità e un ministero continua a viaggiare al di là dei governi e degli schieramenti – la temperatura politica è troppo cambiata. Avevamo anche un altro soggetto cinematografico, che cercava di essere una commedia a metà tra il pop e il cinema d’autore. La stessa cosa che abbiamo provato a fare con Ogni maledetto Natale, senza riuscire nell’intento che perseguivamo, realizzando un film un po’ folle, molto libero. Di certo aveva dei difetti anche per colpa nostra, nella messa in scena e nella scrittura, era un po’ scassato. Sono gli stessi errori di Boris. Il film: troppo affollato, formalmente non compiutissimo. L’intento era lo stesso, prendere un super cast e con questo raccontare una storia folle e vedere cosa succedeva, ma non ha avuto il seguito che speravamo. Diciamo che si tratta di un fallimento commerciale, anche se poi tutti i nostri film scassati quando arrivano su Sky vanno benissimo. È il cinema che è molto complicato. Personalmente continuo a ragionarci, su questa terza via tra pop e autorialità, tanto che ora non so dove situerei La linea verticale. Noi tendiamo a fare cose che rimangono in una nicchia, che possono ambire a un successo di critica e hanno magari un pubblico appassionato ma ridotto. Il campionato mainstream è rimasto finora inavvicinabile, e questo mi spiace proprio per il senso della scrittura, che non dovrebbe essere rivolta a persone che la pensano già come l’autore: uno dovrebbe scrivere per tutti. Viviamo in un sistema distributivo complesso, soprattutto al cinema. A teatro invece riesco a incontrare un pubblico eterogeneo, è stato così per Migliore e Qui e ora. 456 invece era già una cosa un po’ più di nicchia. Parlo al plurale e al presente perché siamo ancora molto molto amici, non ci siamo separati. Semplicemente La linea verticale era molto molto personale, in futuro vedremo, dipende da tante cose, ma abbiamo un livello condivisione altissimo dei nostri progetti anche quando non lavoriamo insieme.

Visto che Boris è stato un grande successo, di certo duraturo, è diventato una sorta di ingombrante pietra di paragone?

Direi piuttosto che Boris è una festa permanente, ci ha divertito tantissimo farlo e che continui a essere visto ancora anni dopo è fantastico. Nasceva in un momento storico particolare, era una reazione vitale a una cappa soffocante. Abbiamo ragionato tantissimo su un eventuale seguito, perché siamo molto affezionati a quei personaggi ed è stato un dispiacere mollarli. Però Boris non può essere una serie stiracchiata, di volta in volta, stagione dopo stagione. Al di là della vita quotidiana di un set, che si può raccontare anche per 400 puntate, ogni anno c’era dietro una riflessione più profonda e qualcosa da dire. Oggi il mondo è cambiato, la brutta fiction non è più così inevitabile, perché ci sono altre scelte, quindi è un po’ come se Boris avesse perso la sua ragione d’essere profonda. Visto che ne abbiamo un rispetto sacro non può diventare una serie fatta solo per campare: faremo un seguito solo se sentissimo un cuore dietro a una eventuale nuova stagione, e questo ancora non è successo.


Andrea Fornasiero

Dottore di ricerca in Culture della Comunicazione, scrive per FilmTv, MyMovies, Movieplayer e Fumettologica. Tiene corsi e lezioni sulla serialità tv. Collabora con Officine Ubu nel settore acquisitions ed è autore di un libro su Terrence Malick (2008). È stato autore televisivo di Wonderland, Mainstream e di due emissioni italiane degli Emmy Awards per Rai 4. Ha collaborato a due edizioni del Roma Fiction Fest.

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