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Intervista a Matthew Weiner

Conversazione con un autore-star della serialità contemporanea. Dai tempi dei Soprano all’idea di Mad Men e alla profondità anche letteraria di Don Draper.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 15 - Serial writers del 01 ottobre 2013

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Considerata da molti la serie migliore degli ultimi anni, Mad Men ha accumulato numerosi premi, tra cui quello di miglior serie drammatica per tre anni di fila ai Golden Globe e per quattro agli Emmy. Il creatore, Matthew Weiner, già executive producer dei Sopranos, è uno degli uomini più influenti della tv americana. Grazie al suo lavoro, AMC è diventata una delle reti cable di riferimento nel mercato delle serie tv di qualità.

Da dove arriva il suo interesse per gli anni Sessanta?

È un periodo interessante, la fine di un’epoca giunta al pieno dello splendore e della potenza. Ero al liceo quando mi sono accorto che quella fase era ancora strettamente legata alla nostra vita. Il 1960 è stato un anno molto importante per gli Stati Uniti. New York era il centro del mondo, in ogni aspetto: televisione, radio, teatro, musica, libri, soldi, commercio. L’elezione di JFK ha avuto luogo quell’anno. L’America era in rapida trasformazione. Ero interessato a come quel cambiamento è avvenuto, al modo in cui ha influenzato la gente comune. E vedevo un legame con il presente. Negli Usa e nel mondo abbiamo vissuto l’11 settembre. Un evento orribile, traumatico, che ha cambiato la percezione degli Stati Uniti nel mondo. Storicamente è un momento di svolta. Ma in realtà nulla è cambiato. Già ad Halloween eravamo tutti tornati a far spese nei grandi mall. Alla fine di ottobre tutto era tornato alla normalità. Avevamo gli stessi problemi e le stesse speranze. Trovo questa dinamica molto interessante. Anche se avevo impostato la serie molto prima dell’11 settembre, ero curioso di studiare l’influenza dei grandi cambiamenti sulla vita delle persone. Tornando al periodo in cui la serie si svolge, gli storici e i giornali ci dicono molto su questi anni, ma non in modo accurato. L’esperienza umana è basata su aspetti davvero piccoli, che non cambiano. Cosa sta succedendo nel tuo mondo, nella tua vita, in te stesso. Accadono cose nuove, eventi davvero rivoluzionari, come essere una donna al lavoro nei primi anni Sessanta, ma non è detto che chi li vive in prima persona si accorga della differenza, che le donne sentissero questo cambiamento nei confronti degli uomini. È un grande tema drammatico, e lo sentivo legato alla mia vita.

E l’interesse per la pubblicità?

Ho lavorato a lungo in tv, e sono interessato al conflitto tra la creatività e gli affari. La televisione è come la pubblicità, oscilla costantemente tra i due poli perché in gioco ci sono un mucchio di soldi. Inoltre, la pubblicità era l’espressione delle aspirazioni e delle speranze del Paese. Avere dei protagonisti che lavorano nel business della persuasione permette di indagare su chi pensiamo di essere, su chi vorremmo essere, su chi sembriamo essere. Ironico, ma interessante. La pubblicità, in quel periodo, era il lavoro più ambito. Questi uomini ci affascinano: bevono, fumano, scopano, vivono a New York, hanno tanti soldi, sono cinici e al tempo stesso moralisti, sono creativi. Non so se la realtà fosse davvero questa, ma di certo così ci sono stati presentati e popolano il nostro immaginario. Il pubblicitario era una vera e propria rockstar, mentre i riferimenti alla pubblicità emergevano in tanti film. Per me era importante parlare degli Stati Uniti e della cultura americana e ho scelto di farlo attraverso la percezione ideale che abbiamo di noi stessi, attraverso la pubblicità, in un contesto che, anche se non siamo ancora nel pieno degli anni Sessanta ma solo alla fine dei Cinquanta, anticipa la trasformazione sovversiva degli anni a venire.

Per lei è più importante descrivere un periodo, tracciare un ritratto dell’America attraverso il mondo della pubblicità, oppure raccontare qualcosa di profondamente personale?

La mia motivazione è molto personale e deriva da due cose: la prima è il senso della storia degli Usa, che viene presentata agli americani in modo completamente falso; la seconda è che le persone che appaiono in televisione sono altrettanto false. Io mi sono ritrovato a 35 anni, con tre figli, felicemente sposato, a fare un lavoro splendido e ben pagato, ma con un senso di profonda tristezza e frustrazione. Mi chiedevo: “È tutto qui quello che posso fare in campo televisivo?”. A quel punto ho voluto mettere in discussione il ruolo maschile, indagarlo, ricercarlo, in quanto noi baby boomers abbiamo avuto pochi modelli a cui ispirarci. E dopo aver visto la serie in onda mi sono reso conto di un altro aspetto. I miei genitori si sono sposati nel ’59: ho capito che avevo voglia di guardare nella loro camera da letto, di rovistare tra le loro cose, oltre a interessarmi a quello che è accaduto al mio Paese. Che fine avevano fatto la grinta e l’arroganza che tutto il mondo ci ammirava? Che fine aveva fatto il mito dell’America? Ma c’è anche un altro elemento: mi piace molto la capacità americana di vendere, e questo è un tratto in comune con la pubblicità. Un mondo che nella sua essenza ha un’aspirazione positiva, comune a tutti gli esseri umani. C’è sicuramente della buona e della cattiva pubblicità, e si può dibattere a lungo su come venga utilizzata, però trovo che quest’“arte” si abbini molto bene al mio desiderio di affrontare questioni che riguardano l’essenza stessa della vita delle persone. In fondo, nel corso della nostra esistenza, ci facciamo continuamente domande come: “Cosa c’è che non va in me?” e “Perché mi sento così diverso?”.

"L’esperienza umana è basata su aspetti davvero piccoli, che non cambiano. Cosa sta succedendo nel tuo mondo, nella tua vita, in te stesso. Accadono cose nuove, eventi davvero rivoluzionari, ma non è detto che chi li vive in prima persona si accorga della differenza".

Mad Men sembra non appartenere a nessun genere. Cosa aveva in mente quando l’ha sviluppata?

Quello di Mad Men, in realtà, era un genere: un genere che è semplicemente scomparso. Dai primi anni Quaranta ai tardi Sessanta, quando il legal drama ha preso il suo posto, c’era una forma che aveva a che fare molto con il dialogo, i drammi interiori, il business, il conflitto tra la vita lavorativa e quella familiare. Poi è sparito, ma conoscevo questo genere, diffuso dappertutto: show televisivi, film, fumetti. Ho provato a usare questi elementi. Io non credo nel mercato. Chiunque cerchi di seguirlo finirà per fare qualcosa di insignificante. Sia io sia il network che avrebbe trasmesso la serie, AMC, abbiamo deciso di fare qualcosa che piacesse innanzitutto a noi. Senza preoccuparci di essere troppo intelligenti, o troppo oscuri. A volte il pubblico vuole uno specchio in cui riflettersi, altre volte invece vuole solo fuggire. Io la penso allo stesso modo, e spero che la serie offra la possibilità di sfuggire ai problemi quotidiani, ma aiuti anche a sentirsi meno soli, vedendo rappresentata in essa la propria vita. Parte di questo effetto è data dal fatto che le storie si svolgono in un tempo differente, come nella fantascienza: un mondo in cui non puoi andare e che non esiste più.

Donald Draper è un eroe ambiguo e reazionario. Non solo sul piano personale. È portatore di vecchi valori nell’advertising di fronte a un mondo, quello delle agenzie, in rapido cambiamento. Al tempo stesso, è homo novus e incarna il Moderno. Qual è il rapporto di Draper con il progresso?

Credo che Draper sia un progressista: è interessato a conoscere quello che accade per le strade, va al cinema, osserva il comportamento delle persone, ha la mente aperta perché tutto può essere utile per vendere un prodotto e costruire una campagna. Solo, non è un uomo interessato alle mode passeggere, a tutto ciò che è hip in quel momento. Ma al tempo stesso è un reazionario, perché cerca di trattenere qualsiasi cosa, non vuole che cambi niente. A Sterling dice: “Sei ossessionato dai giovani. I giovani non sanno niente, proprio perché sono giovani”. È un esistenzialista, è consapevole che tutto ha una fine. Reagisce al cambiamento perché cambiare lo rende nervoso. Non ha avuto una madre, un’infanzia felice, non ha nemmeno più un nome. Così tiene stretto tutto quello che può. Gli serve per tenersi a terra, per aggrapparvisi. È questa una contraddizione tutta americana, dove gli uomini partono dal nulla e costruiscono una vita, una fortuna, per poi pretendere che tutto rimanga com’è: la verità è che la loro stessa vita è stata una rivoluzione. Don è consapevole della morte, della caducità di ogni esistenza: fuma di continuo, beve di continuo, fa sesso di continuo, e lo fa per sentirsi vivo. Così è anche sul lavoro: da un lato è un bravo business man, che dice di non saltare sul carro del cambiamento solo perché tutto il mondo sta andando in quella direzione (dice: “Sii l’ago nel pagliaio, non il pagliaio”). Ma dall’altro lato, e noi spettatori lo sappiamo, è un reazionario, perché il mondo sta andando davvero in un’altra direzione: gli anni Sessanta sono alle porte. Ma questa è la dialettica della storia: facciamo progressi scientifici e tecnologici, raggiungiamo un grado di conoscenza e sofisticatezza inimmaginabile e poi quel mondo cambia. Di lì a poco saremmo andati sulla Luna: il punto di vista di Don è che probabilmente ci stiamo andando in cerca di un nuovo pianeta, perché questo sta morendo.

Nella serie il cambiamento, tra le altre cose, è incarnato da un mezzo: la televisione.

La televisione in quegli anni era come internet oggi: la gente non sapeva cosa farsene. Con la crescente penetrazione della tv, il mondo della pubblicità si rese conto di una cosa che oggi diamo per scontata ma che allora non lo era: per raccontare delle storie la pubblicità avrebbe dovuto usare Hollywood, ovvero fare ricorso ai registi cinematografici. Prima le agenzie facevano solo campagne stampa e radio. Da quel momento, dovevano essere individuate tecniche di persuasione adatte al nuovo mezzo. E questo spaventava i professionisti come Don Draper. Il cambiamento fa paura, sempre. E di fronte ai grandi sviluppi tecnologici la paura aumenta, la religione diventa più potente, la gente teme che il proprio lavoro e il mondo intero cambino, e di essere esclusa da questo cambiamento. Come saranno condotti gli affari con internet? È una domanda che ancora spaventa non solo le aziende, ma anche molti privati cittadini. Però non puoi fermare il cambiamento, semplicemente accade.

Perché in Mad Men tutti mentono?

Perché tutti mentono nella vita reale. La gente non lo ammette facilmente, ma per me è uno degli elementi più interessanti degli esseri umani. Bobby Barret, uno dei personaggi della serie, dice: “Mi piace essere cattiva e poi tornare a casa ed essere buona”. E credo che questa frase, che peraltro ho preso pari pari da una conversazione con una collega, sia una di quelle verità che le persone faticano ad ammettere, e un esempio perfetto della tensione realista che sta alla base di Mad Men.


Fabio Guarnaccia

Direttore di Link. Idee per la televisione, Strategic Marketing Manager di RTI e condirettore della collana "SuperTele", pubblicata da minimum fax. Ha pubblicato racconti su riviste, oltre a diversi saggi su tv, cinema e fumetto. Ha scritto tre romanzi, Più leggero dell’aria (2010), Una specie di paradiso (2015) e Mentre tutto cambia (2021). Fa parte del comitato scientifico del corso Creare storie di Anica Academy.

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