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Intervista a Fabio Calvi

Seconda puntata e seconda chiacchierata con un regista televisivo. Stavolta, la parola a chi, tra le altre cose, ha fatto il Grande fratello.

Il ritratto di un regista televisivo di successo è un signore che sembra un ragazzo, ha passato i cinquanta ma ne dimostra (almeno) dieci di meno, e si chiama Fabio Calvi. Programmi fighi, programmi pop, programmi medi: Calvi ha fatto tutto. Ha lavorato in Rai, a Mediaset, a La7: e ci ha sempre lavorato quando era giusto lavorarci.

Contento dell’attacco di questo pezzo? Sei il regista di successo.

Piantala.

Dimmi di no.

Ho fatto delle cose e mi sono tolto delle soddisfazioni. Ma ho fatto anche la gavetta.

Raccontamela.

A Bergamo TV.

Con rispetto, ma non proprio la CNN.

No, però formativa.

Che anni erano?

Ci sono stato sino al 1990. Lì per la prima volta sono entrato in uno studio.

Ricordi particolari?

Romantici, come per tutti gli albori. Tanta passione, ero giovanissimo, ho fatto tutto: assistente, operatore, montatore, audio, luci.

No, vabbè. Il regista che ha fatto anche l’operatore: hai uno storytelling perfetto.

Non ti ascolto neanche. Poi sono andato a Mediaset.

La scalata: e alla fine hai fatto il regista?

No, alla fine mi sono licenziato.

E perché?

Perché io non sono adatto alle regole, ho uno spirito da freelance, non ci posso fare niente: è stato bellissimo, ho imparato tantissimo, ma quell’inquadramento lavorativo non faceva per me.

Cosa non ti piaceva?

Io quando c’erano i fermi studio, nelle pause, volevo andarmene.

Volevi cazzeggiare.

No, non volevo stare fermo. Io lavoro, ancora oggi, anche 14 ore. Ma se c’è qualcosa da fare. Non dipende né dal luogo né dalle persone. È un’impostazione mentale mia.

E da licenziato cosa hai fatto?

Toto Cutugno.

Sul serio?

Davvero, sono andato a Telemontecarlo a fare il regista di questo programma che era una specie di karaoke in giro per l’Italia condotto da Toto.

Straordinario.

Beh, all’epoca per me era tutto nuovo, era esaltante. Ma la svolta è stata un’altra.

Cioè?

Jocelyn.

Allora, fammi capire: Fabio Calvi, il grande regista, è partito con i giochi senza frontiere?

Tu scherzi ma per me fu una botta. Me lo chiesero dal lunedì al mercoledì.

Vabbè, c’è di peggio.

No, non mi viene in mente niente di peggio. Ero agli inizi, non è come adesso. Era uno studio enorme, quindici camere, un’infinità di set. Era come prendere il controllo di un’astronave.

Ovviamente se ora sei qui con me a fare l’intervista in veste di regista famoso ci sarà stato il lieto fine.

Sì, ma ti giuro che non era assicurato. Mi ricordo ancora ora il conteggio prima della sigla: 4, 3, 2, 1… In quel momento – davvero – ho pensato: alla fine di queste tre ore o esco morto o a un metro da terra.

La seconda.

Sì, ma quello fu un momento centrale della mia carriera.

E Jocelyn com’era?

Forte, uno che ci capiva.

Poi tutto in discesa.

Beh, sì, ho iniziato a lavorare: le esterne di Scherzi a parte, Stranamore poi, Dillo a Wally e altri.

Che regista eri?

In linea di massima, al netto della crescita professionale e umana, quello che sono ora. Ma non tutto era come ora.

“Mi ricordo ancora ora il conteggio prima della sigla: 4, 3, 2, 1… In quel momento – davvero – ho pensato: alla fine di queste tre ore o esco morto o a un metro da terra”.

Ora sarai un sultano.

No. Però ho sempre inteso questo ruolo a 360 gradi.

All’inizio era più dura?

Sì. Un giovane regista non ha molto potere.

I bei tempi andati.

Non fare lo scemo. Il regista è una figura di collegamento, si interfaccia con tutti. Almeno: io la vedo così, secondo me dovrebbe essere così.

Volevi il potere?

Ma che potere! Mai avuto quel tipo di potere, mai cercato.

In questo sei una mosca bianca. Andiamo avanti, poi cos’hai fatto?

Altra svolta: a fine anni Novanta l’incontro con Daria Bignardi, con cui poi ho fatto anche Le invasioni barbariche. E con Alessandro Lostia, con Giorgio Gori direttore di rete.

Tempi moderni.

Esatto. Un programma che ho sentito da subito mio, che mi rappresentava.

Bello, così.

Sì, molto. Bellissima esperienza. Le logiche di cui parlavamo prima erano estranee a quel programma e a quel gruppo. Ci divertivamo, costruivamo delle cose insieme.

La rampa di lancio.

Se intendi che dopo ho fatto il Grande fratello sì, una rampa in quel senso lo è stato.

Sei edizioni, la consacrazione.

Sì, ma ci sono arrivato quasi per caso, come sempre avviene in questi casi.

Ancora con la Bignardi?

No, lì non ci siamo incrociati. Con la D’Urso e con la Marcuzzi.

Che esperienza è stata?

Bella, esaltante.

Fa strano se si pensa a quello che è ora il Grande fratello: un programma ancora di successo ma di certo senza la spinta innovativa dell’inizio.

Non faccio paragoni, televisivamente parlando sono passati decenni. Però si lavorava anche a variazioni sul format, c’erano delle sottoregie, i collegamenti. È stata un’esperienza.

Era un evento.

Beh, come ricorderai una volta abbiamo anche battuto Sanremo.

Boom!

Non era mai successo. E non ho imbarazzi a confessarti che è stato esaltante.

Ci credo.

Una cosa che non mi è più successa. Nel senso: una simile esaltazione. Ti veniva da dire: e ora?

E tu dopo cosa hai fatto?

Tantissime altre cose: La fattoria, La talpa, Cronache marziane, Invisibili, Exit, Le invasioni barbariche.

A quel punto concederai di definirti uno che ce l’aveva fatta?

Non so se ce l’avevo fatta. Di sicuro mi accorgevo che – al contrario di molti registi in auge di quel periodo, che magari sparivano dopo qualche stagione – io continuavo a lavorare. Tanto e bene.

Non eri una moda.

No, resistevo.

E non essendo uno di passaggio hai accettato di comparire in Videocracy.

Sì… (sorride) Un film che diceva che la tv influenza la società. Ma anche lì è stato un caso.

Un altro caso?

Si, Erik Gandini, il regista, suonava con me in un gruppo punk.

Sei stato coraggioso: criticare dirigenti televisivi in maniera diretta non è semplice.

Ma mica sono un eroe. Semplicemente a quel punto potevo permettermi di dire in toto quello che pensavo. E l’ho fatto.

Conseguenze? Ostracismi?

No, nessuno in particolare. Qualche voce, ma ho continuato a lavorare tranquillamente, sempre in piena libertà.

E per te stesso è cambiato qualcosa?

No, se non la consapevolezza che potevo permettermi di dire quello che pensavo.

Un regista giovane non può farlo.

No, è vero. E neanch’io all’inizio.

Facciamo un gioco: io sono un regista che comincia, come te prima di Jocelyn. Dammi dei consigli.

Va bene, sto al gioco. Primo: il colloquio.

Mi devo vestire bene?

Non in quel senso: ti devi far percepire come una soluzione e non come un problema.

Perché, i registi giovani fanno così?

Non sempre ma spesso. Se un editore ti chiama tu i problemi glieli devi risolvere.

Ok. Poi?

Non concentrarsi solo sulle immagini, ma ascoltare.

Cosa intendi?

A volte ci si fanno troppe seghe su una certa inquadratura, su certi dettagli. Prima viene il resto.

Cos’è il resto?

Il contenuto. Se non hai capito lo spirito del programma, di cosa parla, chi parla, vuol dire che non stai facendo bene il tuo lavoro.

Scusa: ma chi è che fa il regista e non ascolta?

Figurati, ce n’è, ce n’è. Spesso guardano e basta, riprendono solamente.

Invece?

Invece bisogna capire il ritmo, il respiro. Non c’entra che tipo di programma è. C’entra se lo hai capito o no.

E nello stile? Che consigli mi dai?

Serve fluidità del racconto. Il regista è un arbitro, e il bravo arbitro è quello di cui non ci accorge.

Va bene, sono pronto.

Hai capito? Lo stile deve essere al servizio del programma, del racconto.

Ho capito, ho capito. Dimmi di te, dimmi quale pensi sia la tua caratteristica registica principale, la tua qualità.

Io sono veloce. E direi la fluidità.

Vero. Ai tuoi aiuti dici questo?

Sì. Posso contare su un gruppo di persone con cui lavoro molto bene.

Sempre le stesse?

Ovviamente ce ne sono sia a Roma sia a Milano.

E poi? Qualche altra persona cui tieni particolarmente?

Su tutti il direttore della fotografia Daniele Savi e la scenografa Francesca Montinaro.

In regia invece sei un rompicoglioni.

Ti sbagli.

Sì, vabbè.

No. Se mi fido mi piace passare le cose che so.

Tipo come?

A volte ho fatto finta di dover andare in bagno.

Cioè: tu ti sei alzato dalla regia lasciando il programma in mano all’aiuto?

Sì, qualche volta l’ho fatto. Ma è così che si impara.

Dimmi quando.

Non te lo dico, ma ti assicuro che l’ho fatto.

Abbiamo quasi finito. Dimmi chi ha insegnato qualcosa a te.

Popi Bonnici. Uno tosto, non semplice. Ma uno che cerca sempre la soluzione migliore, un grande motivatore.

Altri nomi?

Vicario è bravo e mi ha insegnato a gestire lo studio. Cristian Biondani fa belle cose con la musica.

Ora stai facendo Piazzapulita e Quelli che il calcio. Le cose più importanti le abbiano nominate tutte, no?

Manca Paolini.

Giusto, è vero.

Lavorare con Marco Paolini è stato un privilegio, e lo è ogni volta che lo faccio. Esperienza unica.

Sanremo lo vuoi fare?

Nessuno snobismo, ma non è una cosa che mi manca.

E cosa ti piacerebbe?

Un evento gigantesco: la cerimonia delle Olimpiadi, o The Wall.

Megalomane.

Ma no, me l’hai chiesto tu.

Domani ti vedi a sperimentare sui canali digitali?

No, non credo faccia per me, meglio che lo facciano altri meglio di me.

E allora?

Mi piacerebbe trasferire le mie capacità, quello che ho imparato.

Di successo e filantropo, te l’ho detto che hai uno storytelling perfetto.

Vabbè, ciao.


Francesco Caldarola

Inizia all'ANSA, poi ha scritto per i giornali e soprattutto programmi per la tv: La7, Mediaset, Sky e ora Rai. Porta spesso la cravatta.

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