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Intervista ad Armando Iannucci

Lo sguardo che in The Thick of It e Veep ha messo in scena banalità e meschinità della politica ora deve fare i conti con Trump e Brexit. Una chiacchierata sul mondo là fuori.

Armando Iannucci è il più importante autore comico e satirico vivente. Ha trasformato la comicità inglese creando insieme a Steeve Coogan, alla fine degli anni Novanta, il personaggio di Alan Partridge, caricatura del tipico giornalista inglese, tanto popolare in Inghilterra che i suoi tormentoni si possono trovare nell’Oxford English Dictionary. Nel 2000, per Channel 4, realizza The Armando Iannucci Show, una sketch-comedy esistenzialista e surreale in cui cercava di rispondere, nel tipico stile da documentario istituzionale di Bbc, a domande filosofiche come “cos’è la morale”, “l’immaginazione” o “la felicità”. Il programma, oscurato da un debutto in contemporanea con il disastro dell’11 settembre, negli anni è diventato di culto, per la capacità di tramutare in sketch di 3 minuti le ossessioni quotidiane del cittadino inglese medio. Dopo 16 anni, il programma è ancora perfettamente attuale: ci sono quadri come il prete che fa sesso con tutti i parrocchiani, il designer che aiuta una donna suicida a realizzare un biglietto di addio esteticamente appagante, o il cecchino esteuropeo assunto da un villaggio per sparare ai cittadini, annoiati dalla vita campestre. Nel 2005, sempre per Bbc, crea The Thick of It, una delle più divertenti e profonde esegesi su quello che accade nel dietro le quinte della politica. La serie vince numerosi premi Bafta. Nel 2010, accompagnato dallo stesso team di autori, realizza Veep, serie di Hbo che segue l’entourage del vice-presidente degli Stati Uniti, Selina Mayer. Veep è nominato a due Golden Globes e ottiene due Emmy come migliore comedy. Ho intervistato Iannucci, per chiedergli qual è il ruolo della satira politica nella nostra era di fake news, “fatti alternativi” e populismo.

Il tuo nome ha chiare origini italiane. Com’è approdato il cognome Iannucci a Glasgow, Scozia?

Mio padre emigrò da Napoli alla fine degli anni Cinquanta. Giovanissimo, si trovò a combattere con i partigiani. Era un giornalista, e prima della guerra scriveva per un quotidiano anti-fascista. Decise di andarsene dall’Italia perché, mi disse, non riuscì mai a perdonare il suo Paese per aver votato Mussolini. Prese una nave diretta a New York, in cerca di lavoro e di una nuova vita, ma tentò la fortuna decidendo all’improvviso di scendere nella tappa di Glasgow. Incontrò mia madre, nata e cresciuta lì da una famiglia italiana: una persona che oggi chiameremmo “immigrata di prima generazione”.

Com’è stato crescere in una famiglia di immigrati nella Scozia degli anni Sessanta?

A Glasgow c’è sempre stata una grande comunità italiana, quindi non mi sono mai sentito l’unico ragazzino italiano additato da tutti. A scuola, in classe, ero sempre insieme ad altri due o tre figli di immigrati italiani.

Pretendevano che ti sentissi parte dell’identità nazionale e, allo stesso tempo, non ti facevano scordare la tua diversità?

Mi sono sempre sentito scozzese, ma non del tutto. Ma non ho mai percepito nemmeno di essere appieno italiano. Non ti senti mai completamente parte di una sola identità, e ciò ti permette di osservare quello che ti accade da un punto di vista diverso. Ma non ho mai subito episodi di razzismo. Mia madre mi ha raccontato di momenti di tensione fra la comunità italiana e quella scozzese, ai tempi della guerra. Nulla di violento, ma ti ricordavano il tuo essere straniero e differente dagli altri, ospite in un Paese non tuo. Per questo i miei genitori decisero di non insegnarmi l’italiano e di non parlarlo mai in mia presenza. La loro priorità era vedermi integrato nella cultura scozzese. Un peccato, perché ora mi piacerebbe poter parlare la tua lingua.

Questo vissuto ha influenzato la tua carriera comica?

Tutto ciò che ti permette di osservare il mondo esterno da una prospettiva differente è importante quando scrivi.

Hai costruito la tua carriera sulla satira politica. Veep e The Thick of It decostruiscono in modo maniacale il dietro le quinte del sistema politico americano e inglese. Ti ha sorpreso il successo di Brexit e l’ascesa di Donald Trump?

Penso abbia sorpreso tutti. Credo che la gente pro-Brexit non sia necessariamente contro l’Europa, ma abbia deciso, per una volta, di far sentire la propria voce. Parliamo di comunità e persone spesso dimenticate dalla gente che abita e vive Londra o nelle grosse metropoli. La stessa cosa è accaduta nell’America di Trump. I politici hanno passato così tanto tempo a convincere le persone che stanno al centro da dimenticarsi chi vive agli estremi della società. Hanno smesso di parlare a una grossa fetta di persone, che sta sia a destra che a sinistra.

Ayesha A. Siddiqi, scrittrice e giornalista americana, ha sintetizzato così il successo di Trump: “è stato eletto perché la sinistra americana ha speso tutto il tempo facendo battute sui suoi capelli”. Quanto credi ci sia di vero in queste parole?

Non essere stato preso subito sul serio è stato di certo un grosso vantaggio. Un errore dei Democratici e dalla campagna di Hillary Clinton. Trasformare Trump in una punchline è controproducente, perché sminuisce quello che rappresenta e permette di ignorare le cose orribili che dice e che ora sta facendo. Non pieghi Trump facendo battute sui capelli o sulla pelle arancione, ma parlando di come si comporta politicamente e di quello che promette di fare. Trump è un campanello d’allarme per chiunque lavori nella comicità: questo è quello che succede se fai solo freddure sull’aspetto fisico di qualcuno.

“Più prendi in giro una persona, più la trasformi da soggetto politico a personaggio comico, e più la allontani dall’ideologia politica che rappresenta e dalle azioni che ha compiuto. Tutto diventa irrilevante. Se trasformi un politico in intrattenimento, quel politico sarà inevitabilmente popolare, perché le persone amano più l’intrattenimento della politica”.

È successa la stessa cosa in Italia, con Berlusconi. Più era attaccato per i capelli o per qualcosa di ridicolo che indossava o diceva e più stava simpatico alla gente comune.

Certo. Più prendi in giro una persona, più la trasformi da soggetto politico a personaggio comico, e più la allontani dall’ideologia politica che rappresenta e dalle azioni che ha compiuto. Tutto diventa irrilevante. Se trasformi un politico in intrattenimento, quel politico sarà inevitabilmente popolare, perché le persone amano più l’intrattenimento della politica. E molti politici ormai desiderano questo status, perché sono consapevoli che questo permetterà loro di fare cose che ad altri non sono concesse.

Come stanno reagendo i comici a Trump e a Brexit?

Siamo ancora in una fase di studio. Non credo che ci sarà un solo programma o comico che risponderà in modo efficace a questi nuovi soggetti. Sono così inusuali che sarà necessario un approccio inedito anche in comicità. Fare la caricatura di Trump o Farage non è abbastanza. E il panorama mediatico si è così allargato che non è più necessario guardare solo alla tv per cercare voci comiche: potrebbe essere qualcuno su YouTube o su Twitter a realizzare la satira migliore. Credo che, alla fine, saranno tanti piccoli momenti, più che uno solo, a cristallizzare un sentimento popolare contro Trump e Brexit.

Credi che la satira abbia la capacità di cambiare il voto di qualcuno?

No, penso sia impossibile. La satira può aiutare le persone a espandere un’idea politica che hanno già, a riflettere, ma non cambia radicalmente le persone. Credo che la satira più efficace sia quella con uno scheletro giornalistico sotto, come accade in The Daily Show o in Last Week Tonight with John Oliver. Quando un team di autori comici lavora con una redazione giornalistica il risultato può essere più efficace di quello prodotto da Cnn o dai classici telegiornali. Anche perché i giornalisti si concentrano solo sul titolo del momento, mentre un autore satirico ha tempo per ragionare sul perché e sul come.

Conosci Beppe Grillo?

Sì, certo. Fa ancora ridere ora che è un politico?

No. È uscito da poco il suo stand-up su Netflix, ma non ha avuto molto successo.

Credo sia impossibile far bene entrambe le cose. Devi scegliere: comico o politico.

Quindi un comico non potrebbe mai essere un buon politico?

Non è detto. È possibile. Un comico con una voce forte e una solida e rispettata carriera nella satira potrebbe fare il salto. Soprattutto ora, in questo particolare momento storico, in cui gli elettori sono attratti da persone che non assomigliano ai politici che hanno conosciuto da sempre.

Forse i comici sono avvantaggiati. Se spogliamo una battuta troviamo questo: qualcosa di vero che non ti aspettavi di sentire. E ridi perché ti riconosci nella verità che hai appena ascoltato. Un comico quindi è qualcuno che, agli occhi della gente comune, dice sempre la verità. Come può un politico affrontare chi ha una simile posizione sociale?

Hai ragione, il problema però è che il più delle volte diciamo bugie. O prendiamo qualcosa di vero e lo esageriamo per ottenere l’effetto comico. Diffido le persone dal prendere i comici seriamente!

Oggi i politici sono spesso così sopra le righe ed estremisti da risultare quasi sempre caricature di loro stessi. È possibile fare satira contro simili soggetti o è una perdita di tempo?

Penso sia una perdita di tempo. Ma non ho mai pensato che il ruolo della satira sia quello di distruggere singoli politici. Ci sono altri metodi: diventando tu stesso un politico, andando a votare, scrivendo articoli o scendendo in strada a protestare. La comicità è svago e sollievo, non una forma di resistenza.

I partigiani non facevano battute, sparavano.

E Berlino, negli anni Trenta, era piena di cabaret. Non mi sembra abbia aiutato molto contro Hitler.

Da quando Trump è stato eletto, molti comici americani hanno confessato di trovarsi in difficoltà. Non riescono più a scrivere battute e si sentono a disagio quando provano a essere divertenti. La realtà è troppo orribile.

Li capisco assolutamente. È successo anche a me. Mi sono chiesto: “Se Trump ti dà così fastidio, puoi davvero passare il tempo a scrivere battute?”. Ho pensato anche che, da un certo punto di vista, la comicità potrebbe aiutarlo. Ridere ti permette di dimenticare le difficoltà della vita e ti anestetizza. È ancora presto, non ho ancora deciso come razionalizzare tutto questo.

Questa passione per la politica americana traspare anche dal tuo lavoro oltreoceano. Veep non è infatti la prima tua serie americana sulla politica. Nel 2007, per Abc, hai fatto un pilota che non venne alla fine approvato. Cosa è successo?

Provarono a fare una trasposizione americana di The Thick of It, ma fu un disastro. Non venni praticamente coinvolto nella produzione e scrittura e, soprattutto, l’idea di adattare una serie tv così cruda ed esplicita in un canale generalista, proprietà della Disney, si rivelò una follia. Il pilota era noioso e, colpa ben peggiore, innocuo.

“Penso sia necessario incontrare nel mondo reale le persone di cui scriverai. Sono andato a Washington, ho visitato la Casa Bianca, ho fatto più domande che ho potuto. In realtà ho chiesto cose piuttosto noiose. Possono sembrare domande stupide e superflue, ma in realtà più tempo passi con le persone e più comprendi la loro personalità, e questo è fondamentale quando poi scrivi”.

È stata Hbo a chiederti una serie?

Sì, dopo il fallimento del pilota per Abc mi hanno avvicinato loro. Subito dopo aver terminato In the Loop, film che prende alcuni personaggi e temi di The Thick of It e li trasporta a Washington, Hbo mi chiese di lavorare su una serie ambientata nella politica americana. Sono sempre stato affascinato dalla politica americana, quindi risposi subito di sì.

Ho letto di quanta attenzione metti nella ricerca prima di iniziare a scrivere. Come ti sei preparato con Veep?

È vero, sono ossessionato, ma credo sia una questione di buon senso. Penso sia necessario incontrare nel mondo reale le persone di cui scriverai nei tuoi script. Sono andato a Washington, ho visitato la Casa Bianca, ho fatto più domande che ho potuto. In realtà ho chiesto cose piuttosto noiose, tipo “a che ora arrivi al lavoro la mattina?”, “a che ora te ne vai?”, “dov’è il frigorifero?” e “chi risponde al telefono?”. E le persone sono molto felici di risponderti e mostrarti lo studio ovale o l’ala ovest. Possono sembrare domande e visite stupide e superflue, ma in realtà più tempo passi con le persone e più comprendi la loro personalità, e questo è fondamentale quando poi scrivi. Ho incontrato vari Jonas e Amy durante i mesi di ricerca a Washington. I personaggi che si vedono in Veep hanno solide basi nella realtà.

Come funziona una writer’s room se lo showrunner è Armando Iannucci?

Ti faccio l’esempio di Veep: una stagione di dieci episodi, con dieci sceneggiatori. A ognuno di loro assegnavo da scrivere un solo episodio. Il processo di produzione inizia sempre con una lunga discussione sulla trama e su eventuali archi narrativi. Poi chiedo allo sceneggiatore di scrivere uno script molto velocemente, senza preoccuparsi dei dettagli e di come funziona un dialogo, perché in quel momento sono interessato solo allo scheletro della puntata, per poterci lavorare su. A volte le modifiche da apportare sono minime, altre c’è molto da stravolgere. Finito questo passaggio mi ritiro con lo script e lo riscrivo riga per riga, con più attenzione. A questo punto lo script è fatto girare agli altri autori che aggiungeranno battute, dialoghi e piccole scene aggiuntive. Questo passaggio si ripete diverse volte, finché lo script non torna allo sceneggiatore originale. Poi proviamo le scene con il cast, testiamo la resa comica delle battute e la verosimiglianza di quanto scritto rispetto alla personalità dei personaggi. Sono momenti in cui spesso si improvvisa, e grazie alla presenza degli sceneggiatori tutto ciò che accade può essere incluso nella sceneggiatura finale. A quel punto, non ci resta che girare.

C’è qualche serie comica in onda ora che ti piace particolarmente?

Mi piace Inside Amy Schumer. Di non-scripted mi fanno molto ridere Real Time with Bill Maher e John Oliver. Non so se posso considerarla una comedy, ma mi diverte The Young Pope. Forse ho frainteso qualcosa.

Dopo aver lasciato Veep stai lavorando su un nuovo film. A che punto è la lavorazione di The Death of Stalin?

Abbiamo finito di girare e montarlo. È un film tragicomico, ambientato il giorno in cui Stalin ha un infarto. L’idea è raccontare le lotte di potere avvenute in quelle ore nel Cremlino. Mi ha sempre affascinato il potere in mano ad autocrati e dittatori. Un sola persona in grado di tenere sotto scacco e terrorizzare un impero. E quando questa persona non ha più il potere, cosa succede? Chi prende il suo posto continua con il terrore o decide di cambiare? Il film parla di questo. L’idea iniziale era quella di fare una rappresentazione storica, ma negli ultimi mesi è diventato tutto stranamente contemporaneo. Siamo tornati ad avere autocrati al potere e le fake news sono un’invenzione sovietica, pensa alla Pravda.

In futuro ti vedremo scrivere film e serie drammatiche?

Non so, dipende dalla storia. Il film su Stalin ha numerose parti drammatiche, perché non puoi ignorare ciò che avveniva in Unione Sovietica in quel periodo. Pensa a Woody Allen e al film Crimini e misfatti. Parla di omicidi e sensi di colpa. Di come un assassino può farla franca ed essere considerato un uomo per bene. Ma c’è anche una parte comica in questo. Ho sempre trovato affascinante bilanciare questa dicotomia. Non credo che il comico e il drammatico debbano per forza essere separati.

Continuerai con il cinema o tornerai alla tv?

Dopo quattro anni di Veep è stato bello tornare al cinema. Il mio desiderio sarebbe di fare entrambe le cose. Ho appena scritto una comedy sull’intelligenza artificiale. Vorrei iniziarne la produzione il prima possibile. Ma probabilmente finirò per fare un’altra serie Hbo ambientata a Londra. Vedremo.


Matteo Lenardon

È un autore televisivo (The Voice, Sorci verdi, Top Gear). Ha scritto per Vice, L’Uomo Vogue, Rolling Stone, Wired e Studio.

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